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Autore: Francine    07/09/2018    1 recensioni
You remember me when the west wind moves
Upon the fields of barley
You'll forget the sun in his jealous sky
As we walk in fields of gold

È giunto il tempo di pagare i debiti. Do ut des, dicevano i romani. Ed è giunto anche per Saori il momento di saldare i suoi, di debiti. Cominciando col riscuoterne uno che risale a qualche anno addietro...
Genere: Avventura, Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio, Saori Kido
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Many years have passed since those summer days
among the fields of barley
See the children run as the sun goes down
among the fields of gold

 
 


I mortali sono ossessionati dalle grotte.
Le trovano ambivalenti – rifugio e pericolo – senza riuscire a mettere a fuoco questo fatto.
Sono confusi. Ragionano – dicono loro – costruiscono società e pensieri e città sempre più complessi e strutturati e. Ma sono come quei bambini che non trovano il coraggio di staccarsi dall’appiglio a cui si aggrappano.
Lei li ama – li ama tantissimo – ché loro, i mortali, neppure si accorgono di ciò che potrebbero fare se solo si decidessero a sciogliere i legacci che imbrigliano il loro intelletto. Li ama collo stesso sguardo di una madre che osserva con stupore – e orgoglio – il proprio pargolo muovere i primi, incerti passettini. Per il bimbo quella è una conquista epocale. Un miracolo. Cosa può esserci di più strabiliante di quei tre, quattro passettini barcollanti sulla moquette del salotto?
Nulla, per loro; ma la madre sa che quelle gambette grassocce e quelle ginocchia tremolanti e quei piedini incerti possono fare molto di più. Possono camminare – camminare nel vero senso della parola, che non ha nulla a che vedere coll’incedere barcollante dei marmocchi di quell’età -, possono saltare, possono correre. Nuotare, danzare, calciare e mille altre cose ancora che la mente del bambino neppure concepisce.
 
Ecco, l’umanità è come quel bambino che, a piccoli, incerti passettini, cerca di raggiungere la propria mamma che lo attende a braccia aperte, spalle al divano, senza sapere – senza sospettare – quanto sia piccola, quella distanza che a loro pare così siderale. Lo spazio di un respiro.
«Ed è bene che i mortali non se ne avvedano mai!», le ha gridato in faccia il Citaredo; e la sua voce era calda come un raggio di sole e avvolgente come un balsamo profumato, ma c’era una nota stonata nel suo timbro sempre melodioso, come lo sting di una corda dispettosa che si spezza sul più bello e si attorciglia attorno al pirolo. La nota della paura.
«Altrimenti, cosa ne sarebbe di noi, sorella? Chi ci temerebbe? Chi ci onorerebbe? Chi, Fanciulla?!»
Ed è la paura cieca ed irrazionale quella che lega umani e divini, la radice comune, l’anello di congiunzione, il dono ricevuto al fonte battesimale. La paura che tutto questo finisca, prima o poi, e che per gli dei ci sia l’oblio. Oblio che, nella mente di Saori, assume i connotati abbacinanti del Nulla da cui Atréiu cercava di salvare Fantàsia in groppa ad Artax.
 
Temiamo il Nulla perché gli stiamo correndo incontro a braccia aperte, si dice Athena. L’oblio arriverà, prima o poi. L’ha sempre saputo. Ma, come la madre che attende col sorriso sulle labbra che il proprio figlio la raggiunga, così Athena osserva il genere umano.
Con pazienza. Con speranza. Con orgoglio.
Prima o poi, il bambino si renderà indipendente, e allora il ruolo della madre si andrà affievolendo, sino a diventare una vestigia. Recidere il cordone ombelicale è doloroso, per una madre, ma necessario. Obbligatorio.
E, sotto sotto, ogni madre non vede l’ora di scrollarsi dalle spalle quel peso, quella responsabilità, pensa Saori aggirando un dosso sul terreno.
La grotta è laggiù all’orizzonte, ed emerge con maggiore nitidezza, a mano a mano che si avvicina. C’è solo quella bocca spalancata in un cerchio perfetto ad emergere in tutta quella nebbia. Rispetto a prima, quando camminava fianco a fianco con Luke, Saori ha la contezza che la nebbia celi qualcosa. Qualcosa di sgradevole: alberi scheletrici, desolazione, un panorama brullo, qualche anima errante che vaga alla ricerca eterna della grotta a cui dà le spalle.
Non ti riguarda, si dice, obbligandosi a concentrarsi sull’orizzonte davanti a lei. Così, un piede metti e l’altro leva, Saori avanza tenendo lo sguardo fisso su quella bocca spalancata – o su quell’orbita vuota, chi può dirlo? – senza baloccarsi oltre con ciò che si nasconde nella nebbia oltre al sentiero.
 
Il viaggio, quello vero, inizia adesso, le sussurra la voce d’acciaio di Athena e Saori annuisce. Un trasferimento all’aeroporto, questo ha fatto sinora. E la chiacchierata con Móðguðr sarà l’equivalente del check-in.
Inserite i vostri oggetti personali nelle vaschette. Chiavi, cinture, monete, anelli…
Le viene da sorridere. Seiya si dimentica sempre qualcosa nelle tasche dei jeans, mandando in tilt il metal detector. Una volta è rimasto in mutande e calzini – boxer azzurri e calze di spugna bianca –, rosso come un pomodoro maturo e furioso come un cavallo imbizzarrito, sotto lo sguardo attonito e impotente dell’addetto al controllo.
E quell’affare si ostinava a suonare lo stesso, pensa Saori con un accenno di sorriso; è quello che ci vuole, adesso, qualcosa che le alleggerisca l’anima e le regali un’espressione innocua e distesa, ma che non mostri i denti. I cani hanno la tendenza a prenderlo come una sfida. Una minaccia. Un invito ad affondare le zanne dove fa più male.
 
I latrati si sentono fin qui, commenta Athena. Suo nonno affermava che il cane che abbaia difficilmente morde: sarà davvero così?, si domanda Saori concentrandosi sulla grotta, che adesso le sembra più un occhio, che una bocca spalancata. Un occhio attento e indagatore, che la osserva. Che la fissa. L’occhio di un mostro. Quello di un orco, forse. O forse di un troll.
D’istinto, la mano destra le si posa sullo sprone del vestito, a cercare il contatto con il dono del Viandante. Tanto per accertarsi che quelle due piume nere siano ancora al loro posto.
Non sei sola, si ripete, come a darsi un coraggio di cui non credeva potesse abbisognare, il pollice della mano sinistra che corre ad accarezzare l’anello di plastica che le cinge l’anulare.
Come a volersi addolcire un cucchiaio di sciroppo, uno di quelli che Tata Emma era pronta a somministrarle non appena si accorgeva che la voce della sia pupilla si andava arrochendo. Era disgustoso, al punto che lo zuccherino che la Tata le dava subito dopo diventava amarognolo. Denso come il catrame e viscoso come la vernice. E di un rosa così acceso e squillante da sembrare eccessivo anche agli occhi di un fenicottero. E…
 
Resta concentrata, tesoro…
 
La voce del Fuoco le arriva alle orecchie come uno schiocco improvviso della legna dentro al camino. È lontana, attutita. Ma c’è. Percepisce un tepore avvolgente irradiarsi dalla sua vera nuziale. La accarezza con la mano destra.
No. Non sono sola. Ma sono una Ritornante nel Regno dei morti, si dice – si ricorda – Saori.
La nebbia è più pericolosa di quel che sembra. Ti distrae. Ti mette in testa e nel cuore pensieri pericolosi. Pensieri che portano i tuoi piedini a percorre altri sentieri. O a non farti vedere il fossato appena oltre il ciglio della strada.
Resta concentrata, si dice – si ordina – Saori avanzando verso quell’occhio – o era una bocca? – fisso su di lei. Non può far altro che avanzare. Sarebbe seccante se la nebbia dovesse infittirsi e la sua meta svanire.
Che farebbe, poi?
Aspetterebbe l’arrivo di Seiya?
No, non si può. Non stavolta. Perché stavolta Seiya non ha la più pallida idea di dove lei si trovi – di dove sia andata a cacciarsi, per essere esatti: lui sa che ha preso un volo per Roma. Per partecipare ad un impegno improrogabile, uno di quelli che prevedono abiti lunghi, cravatte, noia mortale e un quartetto d’archi in sottofondo che ripete ossessivamente il suo zin zin zin.
No, stavolta Seiya è stato ben felice di farsi uccel di bosco, prima di raccomandarle di non cacciarsi nei pasticci. «Come al solito tuo», le ha detto, strizzandole l’occhio.
Questo può definirsi un pasticcio?, si domanda Saori. Si risponde di no. Lei è in missione. Una volta tanto, sarà Athena a salvare i suoi Santi d’Oro. Quindi, no, non può contare su Seiya. E anche ammesso che lui riuscisse a trovarla persino in capo al mondo – Seiya la troverebbe ovunque. Pure all’altro mondo. Letteralmente. – e a raggiungerla in groppa ad Artax, magari, Saori non è certa che questo sia un bene.
Come donna – e come dea – sarebbe una rassicurazione – l’ennesima – lo sbuffo di panna in cima alla tazza di caffè; ma, anche ammesso che Seiya non la impelaghi in una discussione infinita - «Si può sapere perché non me l’hai detto?!», sbraiterebbe, riempiendo colla sua voce il silenzio innaturale di quel luogo - poi che cosa accadrebbe?
Insisterebbe per trascinarla indietro.
O per accompagnarla. Per difenderla. Ma Saori, stavolta, non ne ha bisogno. Saori, stavolta, deve cavarsela da sola.
Come dea.
Come donna.
 
Quindi, Saori avanza. Testa alta, pancia in dentro e petto in fuori. Come una pietra che rotola giù da una scogliera. O all’interno di un crepaccio.
So risalire da sola, si ripete, un piede leva e l’altro metti, avvicinandosi al ringhiare basso e costante che rimbomba nell’oscurità della grotta.
Un classico. L’uomo ha sempre avuto paura del buio, ma non tanto dell’oscurità in sé e per sé, quanto di ciò che vi si può annidare. Buche. Crepacci. O animali feroci pronti a saltarti al collo – alla gola – ma non per farti le feste.
Cambiano le latitudini, ma certe cose restano immutate, si dice Saori mentre l’aria va riempiendosi dell’odore inconfondibile del pelo bagnato di un cane. E bello grosso, anche. Colle fauci ringhianti e sbavanti sangue. Quello del povero malcapitato che vi è finito in mezzo. Perché non è vero che la morte è la fine delle sofferenze. Chi lo dice mente sapendo di mentire. La morte è un inizio, un sipario pronto a sollevarsi su di un mondo pieno di indicibili sofferenze. Se non hai fatto il bravo, s’intende.
Ma quanti mortali sono scevri da qualsivoglia peccato e degni di ascendere ai Campi Elisi?
Uno per ogni generazione, si risponde Saori. Forse anche meno.
Sulla soglia della grotta, ad un passo dall’ombra eterna che sembra volerla inghiottire, Saori osserva con curiosa attenzione una sagoma emergere dall’oscurità, e catturare la sua attenzione come fanno le sirene quando salgono a galla per irretire i giovani marinai assetati d’amore e della pelle morbida di una donna.
L’ombra prende forma, acquista un corpo e, in uno sferragliare di pesanti catene, viene avanti, come una goccia che cade verso la terra, e vortica davanti a lei. Due occhi rossi – gli occhi di un lupo, grandi ciascuno come la sua testa – la scrutano come a volerle leggere attraverso. Si fissano su di un punto imprecisato del suo viso – Il naso? La fronte? Le labbra? Il collo? – mentre le fauci si dischiudono. Piano, pianissimo, lasciando gocciare a terra del sangue scuro e denso, che scende in rivoli a macchiargli il pelo.
 
La bestia è impressionante. Deve esserlo, ché non c’è timore più grande di quello del ritrovarsi una serpe in seno. Un cane che si ricordi di avere sangue di lupo a scorrergli nelle vene, per esempio. E il sangue non è acqua.
Il tartufo della bestia si muove nella sua direzione, come a volersi imprimere bene nella mente il suo odore. Freme per qualche istante; poi, dopo aver inspirato più a fondo, il naso della bestia si arriccia snudando le zanne grosse come pugnali, e il pelo si rizza. Le orecchie si abbassano. E la bestia scatta.
Saori resta immobile mentre le fauci di Garmr si chiudono davanti al suo naso con uno schiocco potente, uno di quelli capace di spezzare il collo di un toro come se fosse un fuscello. Non trema, non tentenna – non può permetterselo – mentre il cane infernale si prepara ad un altro assalto. La catena geme pericolosamente. Gli anelli sono grandi quasi quanto lei. E l’impeto della bestia è spaventoso.
Non si spezzerà, si ripete Saori. Non è ancora il momento, si ricorda. Luke gliel’ha detto prima – ma a quando risale, questo prima? – ed era sincero. Lo ha letto nei suoi occhi. Quindi, il perno conficcato nella roccia non si staccherà, gli anelli della catena non si spezzeranno e le fauci di Garmr non la scalfiranno. Tuttavia, per entrare nel regno dei morti, deve oltrepassare Gnipahellir. Che, a ben vederla, adesso che si è fatta più vicino, non è proprio una grotta. È più una strettoia, un passo, preludio di quello che ha tutta l’aria di essere un dirupo piuttosto scosceso. L’ombra è causata dalla nebbia. Che avvolge i pinnacoli di roccia scura e…
 
Resta concentrata, tesoro!
 
Saori sbatte le palpebre.
No, così non va. Se continua in questo modo, Garmr la farà a pezzi, e tanti saluti ai suoi propositi di parlare con Hel per raggiungere la Roccia. Si porta una mano sullo sprone del vestito, prende un respiro, e, mentre Garmr ringhia, la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue, un pensiero assurdo si fa strada nella mente di Saori.
Avrà fame?
Non sa dirsi nemmeno lei come le viene in mente un’idea simile in un momento del genere. Però si chiede se quella bestia enorme abbia mangiato. Ma, anche se fosse, cosa potrei dargli?, si chiede, cercando nelle tasche del vestito. Un’azione stupida. Irrazionale. Sono vuote. Lo sa.
Tu credi?, le sussurra la voce di Athena, sottile come il fendente di una spada che taglia l’aria immobile del mattino. Ed è con stupore e sorpresa che le dita di Saori incontrano qualcosa che sonnecchiava nella tasca destra del suo abito bianco. Un pezzo di… pane?
Com’è possibile?, si chiede estraendolo ed esaminandolo con cura. Non è un boccone di pane, ma un frammento di quelle ciambelle all’anice che ha mangiato prima, quando…
Quando hai sposato il Fuoco, si dice, rigirandosi quella briciola extra large nel palmo della mano. Saori è sicurissima di non essere stata lei, ad infilarla nella tasca. Una signorina di buona famiglia non farebbe mai e poi mai una cosa del genere. Dev’essere stato il Fuoco. Forse mentre entravano nella ghiacciaia o mentre camminavano a braccetto per Niflheimr. E a Saori torna in mente una fiaba che le raccontava Tata Emma, quand’era piccola. Una storia del profondo Nord, quella della Fanciulla che sconfisse la strega Baba Yaga con un pettine, del pane e dell’olio.
Cambiano le latitudini, ma l’intreccio della fiaba è sempre quello, le sussurra la voce di Athena. L’hai dimenticato, Fanciulla?
No, Saori non ha dimenticato.
Siamo tutti racconti, si dice. Ecco perché temiamo così tanto l’oblio. Perché senza l’uomo, a raccontare le nostre storie, a farcele vivere, ancora e ancora e ancora, come faremmo, noi, a vivere?
 
Così Saori si palleggia quel pezzo di ciambellina all’anice tra le dita, soppesandolo. Avere il Fuoco come aiutante magico non è certo cosa di tutti i giorni, pensa, mentre i suoi occhi si fissano sul cane alla catena. Non perde di vista il boccone con cui Saori si sta baloccando. Sbava, ma non come prima. Non vuole terrorizzarla, adesso, no. Vuole… commuoverla?
«Vuole da mangiare», dice Saori, senza accorgersi di aver parlato a voce alta, tra sé e sé. Poi l’attenzione passa dal muso della bestia alla carena lorda di sangue. E capisce. Si guarda attorno, mentre sente il cane uggiolare, quasi, e abbaiarle contro per richiamare la sua attenzione.
«Un momento, un momento», dice lei, mentre cerca a terra qualcosa che possa fare al caso suo. Un sasso. Una punta di selce dai lati affilati. Qualcosa che la graffi appena. Ma a terra ci sono solo ciottoli stondati. E l’unico sangue che lei vede è quello ai piedi della bestia.
 
«E sia», sussurra Saori, avanzando piano, con movimenti lenti e studiati, vero Garmr. Che l’osserva, indeciso se fidarsi o meno di quella bizzarra creatura che gli si sta avvicinando. «Buono, bello. Buono…»
E Saori gli fa rotolare ai piedi il boccone, che s’intride del sangue sul terreno. Garmr lo annusa, curioso, e poi se lo fa scomparire tra le fauci, dimentico del suo ruolo, della presenza di quella bizzarra sconosciuta e del suo odore bislacco.
«È ora di togliere il disturbo», e Saori avanza, a passi ben distesi, lasciandosi alle spalle Niflheimr, Garmr e Gnipahellir per proseguire il suo viaggio, avanzando come una pietra che rotola giù da una scogliera.


Sono stata brava e ho aggiornato prima del previsto.
Mi sa che mi merito una ciambellina ed un po' di romanella, voi che dite?
Alla prossima!
   
 
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