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Autore: Crissi_Baby80    16/09/2018    5 recensioni
Sono trascorsi sette mesi da quel giorno di Pasqua del 1789 in cui la storia cambiò. Cosa è accaduto? Cosa accadrà? La fic “Come narcisi a primavera” continua con toni meno allegri. Racconteremo di Oscar e André; di Colombine, Alain e Girodelle; di tutti i personaggi noti e… di altri.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Giugno 1789, appartamento in Rue de Moineaux

Colombine ascoltò i passi allontanarsi nel corridoio e la porta d'ingresso chiudersi. Si tirò sú, su un fianco, il lenzuolo drappeggiato sul corpo nudo, lo sguardo incupito incorniciato dai lunghi, lisci capelli castani in disordine. Si meravigliava che non avesse sbattuto la porta andandosene. Lo aveva trattato veramente male eppure, quell’uomo grande e grosso, non aveva fatto scenate di alcun genere: niente alzate di voce, niente pugni sbattuti sul tavolo, niente strepiti. Proprio come Victor era stato contenuto e comprensivo. Troppo comprensivo. Per un istante aveva desiderato che perdessero le staffe, almeno uno di loro se non entrambi, sgridandola, insultandola anche, magari scuotendola un po’ come per farla tornare in sé perché quella donna cinica e dissoluta non era lei. Colombine Virginie Augusta De Jarjayes contessa des Alouette era stata una sposa felice, una madre estasiata, una moglie serena. Serena fino ad un certo punto. Non era iniziato di colpo, il cambiamento. Prima era svanita la passione, poi la tenerezza, quindi la complicità e da ultimi il rispetto e l'educazione. Come un mattone che viene sfilato da un muro, e pare innocuo, seguito da un altro e un altro ancora, pian piano indebolendo la struttura, il suo matrimonio era crollato. Era collassato su sé stesso, nonostante l'apparente solidità, per via di quei mattoni sfilati lentamente dalle fondamenta. Una distruzione consequenziale e quasi impercettibile da principio. Non ricordava come fosse cominciata, ma doveva essere stata una catena di azioni, o non azioni; una serie di scelte o non scelte, parole taciute o male espresse, fatti ignorati anziché chiariti.
Sospirò. Come può essere facile demolire un matrimonio, si disse.
Lo sguardo cadde sui due vasi di fiori: gigli ed ortensie. Aveva ceduto alla rabbia per il suo fallimento ed ora, due uomini, entrambi di valore, ne stavano pagando le conseguenze. Non era stata sua intenzione farli soffrire eppure questo stava accadendo.
Aveva cercato di ricostruire le fondamenta senza prima spazzare via le macerie, ed aveva fatto un disastro.
Come una ragazzina incosciente, aveva irretito Alain, dopo aver lusingato Girodelle, solo per placare la rabbia che la stava divorando.
Ed ora entrambi la guardavano come cani bastonati che non comprendono perché chi li ha carezzati e coccolati fino ad un istante prima, possa diventare tanto crudele con loro.
Eppure le era parso d'aver trovato un punto di equilibrio: suo marito con la sua amante, lei col proprio amico particolare, dove tutti sanno, ma a nessuno importa. Situazione già fin troppo vista in società, che avrebbe certamente movimentato pettegolezzi, ma non scandalosa più di tanto.
Non era certo un matrimonio ideale, da fiaba, ma quanti lo sono? C'è di peggio, si diceva. Era soddisfatta di aver sottratto al fedifrago quell'appartamento e se lo era fatto intestare come risarcimento per la vergogna, solo un anticipo, si era detta. Un hotel recentemente ristrutturato in Rue Des Moineaux, nel Marais a metà strada tra la Bastiglia e Palazzo Reale; era diviso in appartamenti pratici, non particolarmente sfarzosi, che non richiedevano permanenza di domestici, destinati a borghesi o aristocratici non eccessivamente facoltosi, composto di poche stanze: un salone ed una piccola cucina, una camera da letto, un guardaroba e una stanza da toeletta. Lì aveva ritrovato un pò sé stessa, lontana dalla famiglia e dai problemi. Vi si rifugiava per stare sola e restava ad ascoltare la vita caotica della città, spezzata dalla musica che proveniva dalla mansarda dove quel giovane artista ricco di talento, ma privo di mezzi, passava le giornate a comporre opere e le notti a compiacere la sua attempata benefattrice.
Sembrava che andasse tutto bene, sempre che bene potesse essere considerato: suo marito avrebbe condotto la propria vita, lei la sua. Sognava un futuro di mondanità, di spensieratezza, tutto ciò che il consorte, apparentemente austero, le aveva negato, salvo poi concederlo ad altre. E poi, ecco Victor che era veramente perfetto per questo ruolo di accompagnatore. Lo aveva rivisto a Pasqua dopo molti anni, trovandolo ancora più affascinante di come lo ricordasse. Doveva aver indugiato lo sguardo su di lui troppo a lungo quel giorno, sguardo che era stato notato dal diretto interessato, educato a sufficienza per non approfittarne.
Si era scoperta a pensarlo nei giorni seguenti, sempre con un certo rimorso nei confronti di Oscar. C'era stata, non molto tempo prima, una proposta di matrimonio, che la sorella aveva rifiutato. Ma era davvero cosa morta e sepolta? Dopo quanto tempo andavano a morire i sentimenti non ricambiati?
Non era stata una cosa voluta: dapprima il pomeriggio di Pasqua, con Oscar distratta da ben altri pensieri che il suo passato pretendente, poi un pranzo in casa di amici comuni, una passeggiata, un pomeriggio di compere dissennate con Enrichetta Von Walter, vecchia compagna di collegio, durante il quale lui si era offerto come accompagnatore e consigliere di moda, infine quella galeotta serata a teatro, durante la quale Colombine aveva capito che Oscar non provava il benché minimo interesse per il conte, ma anche che Victor era disponibile a cedere a quella attrazione ormai palese tra loro.
Doveva essere una cosuccia da poco, tra una donna formalmente impegnata ma non più vincolata, ed un giovane scapolo, sentimentalmente deluso, ma non emotivamente rassegnato né tanto meno fisicamente depresso.
Invece in breve si erano trovati coinvolti.
E allora, perché un altro uomo aveva appena lasciato il suo letto?


Un mese prima, fine Maggio 1789, appartamento in Rue des Moineaux

Era ancora primavera, ma l'atmosfera era già estiva. Tutto lasciava presagire un'estate torrida, in ogni senso, ma per Colombine era solo un periodo stupendo. Da tanto tempo non si sentiva così leggera, così viva. La verità può fare miracoli, si disse. Che bello giocare finalmente a carte scoperte! Lo aveva affrontato, Julian, il marito perfetto che perfetto non era. Da principio era apparso sorpreso non che lei sapesse, ma che alzasse il capo, come un piccolo galletto battagliero. Colombine era stata chiara: non avrebbe più subito passivamente alcun tipo di mancanza di rispetto. Lui voleva una vita della quale la moglie non facesse parte? Colombine avrebbe fatto lo stesso. Basta con le ipocrisie. Era stata una sposa innamorata, una moglie fedele, una madre attenta e orgogliosa. Per anni aveva creduto ciecamente in quel matrimonio e ci aveva impegnato tutta sé stessa, ma ora basta. Se una vita separata voleva, una vita separata avrebbe avuto. Aveva dettato le proprie condizioni e lui le aveva accettate. Patti chiari. Aveva convocato un notaio e gli aveva sottoposto il passaggio di proprietà di quell'appartamento: la credeva forse così ottusa da non accorgersi di quell’ammanco importante? Il palazzo di famiglia era grande a sufficienza per ignorarsi elegantemente, ma comodo per allevare insieme i figli, cosa cui lui non badava più di tanto, sinceramente. E poi quell'oasi privata ora tutta per lei, che si immaginava come base per feste danzanti, opere teatrali e, se fosse capitato, romantiche serate.
Così era stato, finché… Una lettera. Una scarna, asciutta, misera e miserabile lettera da colui che un tempo le aveva giurato amore eterno.
Poche parole per riassumere un deserto di sentimenti; pochi tratti scuri a definire l'anima che si era detta votata a lei, ma che l'aveva tradita. E da quel deserto, ecco emergere l'inaspettato: parole d'amore per lei, l'altra; quel genere di parole mai dedicate alla sua sposa, se non all'inizio, per poco e con ormai evidente falsità d'animo; e il bisogno, neppure desiderio, di lasciare tutto per seguire quell'amore, quella vita. Smascherando la verità: per lui Colombine valeva niente. Per lei non provava amore, neppure affetto; nulla valeva la loro vita coniugale, neppure valevano i figli. Staranno meglio a casa Jarjayes, aveva osato constatare falso, ricordandole che in quanto donna sola sarebbe dovuta ricorrere alla protezione paterna. Dell'umiliazione pubblica derivante dalla sua fuga, (invece dei pettegolezzi cui la gente era libera o meno di credere), della difficoltà di dover crescere decorosamente la prole di un vigliacco, del fatto di averla messa nella condizione di non potersi risposare e rifarsi una vita, nulla. Non gli importava nulla.
Non si aspettava certo una mossa del genere e scoprire di valere meno di niente, aveva un sapore amaro.
Da un valletto presentatosi inatteso alla porta dell'appartamento, aveva ricevuto tra le mani quel foglio, leggero, quanto leggero era stato l'impegno di lui. Con sorpresa, ne aveva rotto i sigilli; con fastidio crescente aveva iniziato la lettura: cosa poteva volere da lei Julian? Già alle prime righe aveva avuto necessità di sedersi.
In America. La lasciava per andare in America a vivere il suo folle amore.
Sciagurato! Come se l'amore fosse una valida giustificazione a tanto dolore, come se bastasse quella parola a motivare la crudeltà verso il suo stesso sangue.
Non aveva neppure udito bussare, non l'aveva udito entrare chiamando il suo nome.
- Madame? Colombine? Siete in casa? -
Si era fermato sulla porta del soggiorno, in silenzio, guardandola preoccupato.
Lei stava lì seduta nel suo abito blu a fiori, piccoli, gialli e lilla, fiori di campo. I capelli appena raccolti con due lunghi boccoli ad incorniciarle il viso, ad accarezzarle le spalle fino a posarsi sui seni bianchi.
- Colombine… - mormorò. Non ottenendo ancora risposta mosse qualche passo verso di lei. - Colombine… - ripeté preoccupato.
Ella alzò lo sguardo, lucido di lacrime di rabbia.
- In America! - esclamò sollevando la lettera con uno scatto feroce.
Lo sguardo di lui domandò delucidazioni.
- È partito per le colonie con la sua amante. Quel vigliacco, ipocrita... - lanciò il foglio nella sua direzione, un brutale invito a verificare coi propri occhi l'ingiuriosa missiva.
Victor la raccolse dal tavolo dopo un istante di esitazione, mentre ella si alzava ed iniziava nervosamente a passeggiare avanti ed indietro per la stanza, con le mani altrettanto nervose quanto i dei piedi, un istante a tormentare il cameo della collana, un momento sui fianchi, subito dopo giunte, le dita intrecciate strette davanti alla fronte. Nella mente un fiume di imprecazioni, maledizioni e grida. Nel cuore amarezza, ansia e timore.
Lo scrutò, innervosita dal suo silenzio. Victor percepì il peso di quello sguardo, sospirò soppesando la risposta.
- Ormai sarà già a Le Havre. Troppo tardi per far diramare un ordine di cattura e tentare di fermarlo con qualche pretesto. Posso accompagnarvi dal nostro patrocinatore, anche se credo sarà il generale Jarjayes a volersi occupare di tutto. Ma voi dovete stare calma, Colombine.
- Devo andare dai miei figli! - esclamò ad un tratto.
- Non credo sia un bene farvi vedere da loro in queste condizioni, mia cara, otterreste solo di metterli in agitazione. Da quanto capisco, vostro marito li ha fatti accompagnare a palazzo Jarjayes: sono al sicuro, ignari e ancora felici. Lasciate che la loro pace duri ancora un poco. Parlatene prima con vostro padre, chiarite ogni punto della situazione e poi, solo quando avrete chiaro come muovervi, li metterete a conoscenza del fatto.
- Già, ragionerò con loro del padre degenere che non li ha mai avuti nel cuore! Delle poche, false attenzioni che gli dedicò! Delle false promesse sul loro futuro: chi accompagnerà la mia bambina all'altare? Chi guiderà negli affari i miei figli? Con che spirito potranno mai crearsi una propria famiglia? Sarebbe meglio per loro un padre morto, piuttosto di questo mascalzone! E come tale percepiranno qualunque figura maschile!
- Non tutti gli uomini sono mascalzoni, Colombine.
- Solo questione di tempo! - replicò pungente - Pure voi, Victor, non siete certo un cherubino! Siete passato dallo struggervi d'amore per Oscar al mio letto in pochi mesi… Guariscono in fretta le vostre ferite al cuore, mio dolce amico... - sottolineò velenosa.
- Ammetto che, messa in questo modo, non è una bella presentazione. Abbiamo scherzato, Colombine; avevamo necessità di reciproca consolazione, nessuno doveva farsi male. Non immaginavo che avrei provato sentimenti profondi così presto. Ma è così, Colombine. Tengo molto a voi.
Lo guardò torvo: in quel momento i di lui sentimenti erano la cosa che meno la interessavano. Portò un pugno alla fronte al pensiero di cosa l’attendeva.
- Quello sciagurato… Come potrò affrontare quello che mi aspetta!
- Colombine...
- Sappiamo bene come gira il mondo, Victor! - lo interruppe - Per un uomo, tradire i voti matrimoniali è quasi un dovere, in questa società. Mentre una donna, sacrificata alla famiglia, umiliata per anni senza batter ciglio in nome dell'onore, se solo osa guardarsi intorno, è di già una sgualdrina. Tanto vale comportarsi come tale… - concluse mesta.
- Colombine...
- Oh, per favore! Andate! Lasciatemi sola! - lo liquidò con un gesto secco della mano, come a scacciare un fastidioso insetto.
Egli respirò profondamente, soffocando qualunque parola la mente gli suggerisse in quel momento: mai discutere con un vulcano in eruzione… Posò la lettera sul tavolo, cauto ma non arreso.
- Colombine, come posso uscire di qui sapendovi in questo stato! Se doveste commettere un atto disperato…
- Andiamo, Victor! Non sono certo il tipo di persona che potrebbe uccidersi per la vergogna… - ribatté mentre ricominciava il suo andirivieni battagliero - Piuttosto ucciderei lui,… l’idiota. Se solo lo avessi tra le mani… - disse stringendo un pugno.
- Colombine...
Lei lo interruppe bruscamente con un gesto stizzoso della mano.
- Andate Victor, desidero… Ho bisogno di restare sola. - si corresse.
Lo disse come un sospiro stanco, un alito, perché non ce la faceva, lui così premuroso, così gentile... La sua sola presenza la infastidiva. E lei era così cattiva dentro, così pronta ad esplodere. Victor, con lei così buono, come una torta troppo dolce da essere nauseante. Non voleva litigare con lui, ma sentiva che se non se ne fosse andato subito, avrebbe pagato le conseguenze di quanto fatto da una persona rivelatasi niente altro che tempo perso, a voler essere gentili.
Girodelle la guardò fermarsi nel mezzo della stanza, lì con gli occhi chiusi, stretti, che cercavano di reprimere due lacrime di rabbia a stento trattenute dalle folte ciglia. Colombine non voleva mostrarsi così orribile davanti a lui; cercò di trattenersi, di acquistare un po' di compostezza, un po' di eleganza che sentiva lui meritasse e gli sorrise.
Girodelle comprese d’essere stato congedato senza appello e si arrese a quei momenti non propizi.
- Somigliate molto a vostra sorella. - disse - Siete caparbia come lei.
Colombine comprese l’apprezzamento insito in quella frase, da lui, un uomo disposto a sottostare per una vita ai comandi di una donna che era stata un capriccio per il generale, ma una persona speciale per lui. Forse lei non era alta, non era bionda con glaciali occhi azzurri e non era un abile soldato quanto Oscar, ma sapeva che il temperamento in lei era quello dei Jarjayes. Era questo che Victor aveva visto ed apprezzato a differenza di tanti uomini che lo avrebbero considerato un difetto.
Egli si piegò appena in un inchino, quindi, silenzioso e leggero, guadagnò l’ uscita, accostando la porta.
Colombine trasse un sospiro prolungato, avvertendo le costole doloranti sotto il corpetto rigido. Respirava davvero a fatica e portò le mani al costato, artigliando con le unghie i ricami delicati ed ingannevoli di quella che in realtà, era una odiosa armatura. Ma ciò che più le faceva male, non era quella gabbia di tessuto, era la gabbia di quel matrimonio. Si raddrizzo il più possibile per respirare a fondo, quindi scoppiò a piangere.
Nell’aria si sparsero note, provenienti dal piano superiore, note che si rese conto, erano rimaste sospese mentre lei alzava la voce e si sfogava col povero conte. Che palazzo di impiccioni, pensò.
Aria, aveva bisogno di aria! Doveva uscire da quelle quattro mura, subito!
Afferrò il cappellino rosa, la borsettina in tinta, e veloce si avviò per le scale.
Era pronta a scommetterci, ed avrebbe vinto, che al piano di sotto, le due sorelle zitelle avrebbero finto indifferenza, attendendo il suo arrivo nell'atrio. Vecchie curiose!
- Oh, buongiorno madame…
- A Voi! - le stroncò Colombine, allacciando il fiocco del cappellino e schivandole velocemente, senza dar loro l’opportunità di attaccar bottone.
Si infilò, scansandole, attraverso la porta vetrata aperta, sfiorò con la gonna le ortensie fiorite dell’aiuola appena scesi i due gradini, guadagnò il grazioso cortiletto in pietra e poi fuori, oltre il portone pesante, nella pubblica via, nel chiasso della città, stordente più del caos che le ottenebrava la mente, col sottofondo battente del suo cuore agitato.
Non avrebbe saputo spiegare per quanto tempo camminò a passo svelto senza meta, ma si accorse che piano piano, così come rallentava il battito furioso nel petto, così facevano i passi. E si fermò, immobile, lo sguardo fisso sul selciato, mentre la vita le correva attorno. Poco distante, una lucida vetrina d'una sarta la cui nomea aveva raggiunto i saloni di Versailles, con gli ultimi peccati di moda in bella mostra. Colombine posò lo sguardo su un delizioso cappellino, molto vivace e quasi certamente, molto costoso. La tentazione di entrare e sfogare il suo malessere mettendo a saccheggio la bottega, vecchia panacea ai malumori femminili, era grande, ma sottile e convincente era l'insinuazione della voce interiore che bisbigliava “non risolverai così i tuoi problemi”. In quell'istante s'accorse di quella grande figura alle sue spalle, proprio all'altro lato della stretta via, appena spuntato da una traversa, che le sorrideva riflessa nella vetrata, con aria malandrina.
Ferma lì davanti alle sue antiche tentazioni, osservando la nuova grande tentazione, non s’avvide del lestofante che aveva invece puntato alla sua borsa. In un attimo si sentì strattonare e spingere ad un tempo, finendo col rovinare a terra mentre il ladruncolo di carriera, prendeva il volo con l'accessorio.
Volo che terminò la propria corsa contro il torace di Alain.
- Ma tu guarda che pezzo di idiota! - esclamò il soldato, afferrando il sorcio per il colletto - derubare una signora davanti a me! Ma cos’hai nella testa?!
- Ho fame, signore…
- Bello, guardati intorno: tutti hanno fame e tu meno di altri. Lasalle! Trotta qui che c'è un ratto da ingabbiare!
Passò il prigioniero in consegna all’imbranato collega, non senza averlo scosso per bene ed offrì la mano ad una confusa Colombine, che si alzò velocemente grazie al suo aiuto, ancora instabile sulle gambe tremanti.
- Tutto bene, madame? - chiese reggendola per un braccio e restituendole il maltolto.
Ella annuì, poco convinta.
- Lasalle, porta il nostro amico al gabbio che io resto con la signora finché non si riprende.
- Aspettate… è… voglio dire… Alla fine ho riavuto tutto e… È solo un ragazzo…
Alain la fissò cercando di capire il balbettio.
- Uhm…
Richiamò con un gesto l'attenzione del collega, in un chiaro segno ad avvicinarsi e, chino su di lui, si mise a bisbigliare all'orecchio cose che ufficialmente avrebbe negato.
- Senti, scorta questo imbecille lontano e fagli capire che non tira aria buona per lui da queste parti. Di non farsi ripescare nella nostra zona, o il gabbio sarà il minore dei mali che che gli capiteranno, va bene? Mi raccomando, spiegaglielo bene, che gli resti impresso. - strizzò l'occhio a sottolineare il tutto.
- Sarà fatto, Alain. - disse orgoglioso della responsabilità dell'incarico.
- Io accompagno a casa la signora, che è ancora piuttosto sconvolta.
- Certo, capo… - sorrise Lasalle, insinuante.
Alain si volse verso Colombine, intenta a riassestare il cappello scivolatole di lato, porgendole il braccio.
- Madame, concedetemi di scortarvi ovunque desiderate.
   
 
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