EPILOGO
Otto mesi dopo
Aeroporto di Narita
Il momento era dunque arrivato.
Per i quattro inseparabili amici che insieme avevano affrontato ogni
sorta di prova, vivendo la più grande delle avventure, era
tempo di cercare ognuno il proprio posto nel mondo, e sapevano che prima o poi
avrebbero dovuto fare i conti con l’inevitabile distacco.
Takeru aveva ormai deciso di entrare a tutti gli effetti nell’Afterlife, mettendo le conoscenze e le tecnologie
dell’azienda di famiglia che un giorno avrebbe guidato al servizio
dell’organizzazione, e Izumi si era detta pronta ad appoggiarlo nell’ingresso e
nell’inserimento tra le file degli ammazza-demoni.
Shinji e Keita avevano incominciato da poco l’università,
rispettivamente nelle facoltà di Giurisprudenza e di Medicina, trasferendosi in
un appartamento di Tokyo e conseguendo già importanti successi che rendevano estremamente fiere le rispettive famiglie.
Nadeshiko, invece, durante le vacanze di natale,
si era recata a Parigi per sostenere l’esame di ammissione al conservatorio
nazionale, esame che aveva dato esito positivo e che le aveva permesso di
compiere il primo passo verso la realizzazione del suo grande sogno.
Gli ultimi mesi erano stati per lei carichi di emozioni contrastanti,
perché se da una parte vi era la felicità per l’essere riuscita a raggiungere
un traguardo così a lungo sperato dall’altra vi era la
tristezza che le veniva dal pensiero di dover abbandonare, senza sapere neppure
per quanto, i suoi migliori amici, quegli stessi amici che l’avevano seguita
assieme alla sua famiglia fino all’aeroporto di Tokyo per darle l’ultimo saluto
prima della definitiva partenza.
C’erano proprio tutti: Keita, Shinji e Takeru, ma anche Johan Von Karma,
che dopo le vacanze estive aveva fatto ritorno in Giappone per ultimare gli
studi e che subito dopo aveva preso in mano le redini di quella famiglia alla
quale era determinato a dare nuova vita.
Fermi davanti alla grande vetrata panoramica che dava sulle piste, i
ragazzi si guardavano tra di loro, e alcuni a stento trattenevano le lacrime di
emozione.
«Beh.» balbettò Nadeshiko distogliendo lo sguardo «E così ci siamo.»
«Non essere così tesa.» disse Shinji sorridendo e sollevando il pollice «Dopotutto, sei
«Mi raccomando, fatti onore.» disse Keita «Qui facciamo tutti il tifo
per te».
Lei sorrise, poi abbracciò calorosamente i suoi amici uno per uno.
«Grazie. Grazie per tutto quello che avete
fatto per me.»
«Non dirlo neanche.» rispose Keita «A cosa servono gli amici se non a sostenersi
l’un l’altro?»
«Qualunque cosa accada, se vorrai tornare, noi saremo qui ad aspettarti.»
«La mamma ha ragione. Ma
comunque vada, siamo tutti immensamente fieri di te».
Sua sorella Seika le si
avvicinò, guardandola, poi le diede un buffetto sulla fronte come erano
solite fare fin da piccole.
«Alla fine ci sei riuscita. Chi l’avrebbe mai
detto?
Vai, e
fargli vedere di che cosa sei capace.»
«Onee-sama…»
«Ultima chiamata! I passeggeri del volo AirFrance 126 diretto a Parigi sono pregati di presentarsi
al checkin!»
«Beh… è il mio volo.»
«In bocca al lupo.» disse Johan
«Grazie. Grazie a tutti.»
«Non essere così avvilita.» disse Keita «Ci
terremo in contatto tutti i giorni. Vedrai che non ti sentirai sola.»
«Ne sono felice. Beh… ora sarà meglio che vada».
Nadeshiko raccolse la propria valigia, avviandosi verso i cancelli, e i
ragazzi continuarono a salutarla finché non la videro sparire sotto la scala
mobile, poi, mentre suo padre e sua sorella cercavano di frenare la tristezza
della madre, che mai era stata lontana da una delle due figlie per più di un
mese, salirono sulla terrazza panoramica per veder decollare l’aereo, che decollò di lì a poco.
«Mi è sembrata piuttosto serena.» disse Takeru, in disparte assieme a Shinji
«Forse. Ma non ha
smesso di sperare.»
«Ne sei sicuro?»
«Ho avuto modo di sentire una certa conversazione».
La consegna dei diplomi era sempre
un evento molto emozionante, e questo era particolarmente vero per il liceo di
Uminari, dove si tendeva a far sembrare quello il momento di un nuovo inizio piuttosto che di una triste fine.
Uscire dal liceo significava riconoscere di essere diventati adulti, e
questo i maturandi lo sapevano bene: molti di loro sarebbero andati
all’università, altri, ma molto pochi, avrebbero intrapreso una carriera
professionale, altri ancora puntavano addirittura alle facoltà oltremare.
Durante il discorso nella palestra il direttore ebbe a dire che non era
mai stato tanto soddisfatto dell’esito degli esami finali come in quell’occasione,
e chiamò sul palco quattro ragazzi che più di tutti si erano distinti tanto nei
suddetti esami quanto nelle strade che avevano deciso di intraprendere una
volta usciti di lì, quegli stessi ragazzi che fino a poco prima erano bollati
come asociali e da evitare, e che ora invece venivano
indicati a modello per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro: Keita e
Shinji, che ancor prima di terminare gli studi avevano superato a pieni voti i
difficilissimi esami di ammissione alle rispettive facoltà, Takeru, il futuro
padrone della città, e Nadeshiko, la prima ragazza giapponese dopo tanto tempo
ad essersi guadagnata l’ingresso al prestigioso Conservatoire de Paris, e
sicuramente la prima che Uminari avesse mai avuto.
Al termine della cerimonia Shinji si era
immediatamente visto attorniato da un esercito di ex matricole del primo anno,
oggi quasi tutte promosse al secondo, che di colpo lo
avevano trovato interessante e degno di compagnia e lo avevano sommerso di
domande di ogni sorta, soprattutto attinenti alla sua prossima carriera
universitaria. Liberatosene, non senza qualche difficoltà, aveva deciso di
salire sulla terrazza, per poter ammirare un’ultima
volta quello spettacolare panorama che molto difficilmente avrebbe potuto
trovare nella caotica Tokyo e che tante volte gli aveva arrecato conforto, ma
raggiunta la porta d’ingresso l’aveva trovata socchiusa, e sentendo provenire
da oltre di essa due voci famigliari si era appiattito contro la parete per
poter sentire cosa si stessero dicendo.
«Io lo aspetterò.» disse Nadeshiko guardando
verso il mare «Fino a che avrò la certezza che è vivo,
non smetterò di sperare.»
«Non temere, Nadeshiko.» rispose Keita
«Vedrai, prima o poi ritornerà. Lo ha
promesso.»
«Lo so che
ritornerà. Ne ho la certezza. Perché, finalmente, mi sono ricordata.»
«Di che cosa?»
«Di quello che mi
disse quella volta Yuko, quando ero ancora
imprigionata nel pendente. Mi disse tuttavia,
anche quando finalmente vi ritroverete, il destino deciderà di separarvi di
nuovo.
Io le
chiesi perché, e per quanto tempo, e lei rispose un grande futuro attende entrambi. Difficile
dire quanto tempo starete lontani, ma come è destino
che vi dobbiate separare è destino anche che vi dobbiate riunire.
Per questo so che lui un giorno ritornerà da
me. Dovessi trascorrere tutta la mia vita guardando il cielo, perché lì sono
certa che lui si trovi ora, da qualche parte fra le stelle, io non smetterò di
attendere il suo ritorno».
«Lei non
ha perso la speranza.» disse Shinji terminato il racconto «E non smetterà di
aspettarlo, qualunque cosa accada».
Mentre l’aereo cominciava la sua rapida
ascesa Nadeshiko, seduta accanto al finestrino, prese dalla borsetta da viaggio
che aveva con sé una fotografia che lei e gli altri avevano scattato in Piazza
San Marco il giorno prima di lasciare Venezia. C’era anche Toshio, in piedi sul
lato sinistro, accanto a Keita, che pur mantenendo quella sua espressione seria
e quasi oscura lasciava trasparire parte della sua infinita dolcezza e
determinazione.
«Ce l’ho fatta,
Toshio. Ho realizzato il mio sogno, e attenderò con ansia il momento in cui
potremo finalmente ritrovarci. Fino a quel momento, non temere, ti aspetterò».
Nello stesso momento, sulla terrazza
dell’aeroporto, facevano la loro comparsa Tadaki e Souma, che da qualche tempo
avevano cominciato a vivere insieme in una villetta vicino
Londra, dove Tadaki aveva cominciato ad insegnare arte del restauro nella
locale università, ma che di recente erano tornati in Giappone per
sovrintendere all’allestimento di una importante mostra sul mondo celtico
organizzata a Tokyo dal British.
«Ragazzi.» disse Keita «Non vi aspettavamo.»
«Non potevamo certo perderci questo momento.»
disse Souma
«Come procedono le cose?»
«Benissimo.» rispose Tadaki «I nostri villaggi hanno appianato del tutto le proprie
divergenze siglando una pace perpetua. Inoltre, molti di loro si sono aperti al
mondo. Atarus sta portando nuovo lustro al clan dei McLoan, e Ilya è salita
ufficialmente al trono.»
«E Kazumi come sta?» chiese Shinji
«Bene. Si è
trasferita da poco a New York per frequentare l’università.»
«Allora è davvero tutto finito.» disse Takeru
«Sì, decisamente.»
Subito prima di uscire i ragazzi incontrarono
anche qualcun altro, qualcuno di completamente inatteso, e che ora, a
differenza del passato, poteva permettersi di girare in pubblico senza alcun
timore.
«Ecco, lo sapevo!
Siamo arrivate tardi!»
«Aria! Lotte!» disse
Shinji «Che sorpresa!»
«Non ve l’aspettavate,
vero?» disse Aria «Volevamo venire a salutare Nadeshiko, ma questa sorella
degenera ci ha fatto perdere tempo, come al solito.»
«Come sta Sanak?» domandò Keita
«È un buon re. Il
migliore che Nepthys abbia mai avuto. Akunator sarebbe fiero di lui.»
«Lo immagino. Ora
però andiamo, o perderemo l’autobus.» e, a quel punto,
tutti si misero a correre in direzione delle uscite.
Stati Uniti
Montana
Glacier National Park
Hank Landry e Betty Hill erano due coniugi felicemente sposati
che abitavano a New York, nel Queens,
ma che dopo anni di fatiche e sacrifici erano riusciti a mettere da parte i
soldi per acquistare un cottage all’interno del famoso Glacier National Park,
nel Montana, sulle rive di McDonald Lake, dove erano soliti trascorrere le loro
estati e ogni possibile periodo di ferie, tra lunghe passeggiate nei boschi,
piacevoli momenti di relax e tranquilli pomeriggi di pesca.
Entrambi avevano superato da poco la
cinquantina; Hank, corpulento e dal portamento fiero, era sergente di polizia,
ma puntava a raggiungere il ruolo di capitano prima di andare in pensione,
Betty, afroamericana originaria di Boston, invece faceva la pediatra.
Malgrado fossero due persone gentili e
cordiali non avevano figli, non potevano averne, ma li avrebbero voluti più di
qualsiasi altra cosa, per questo alcuni anni prima avevano tentato di proporsi
come coppia a cui destinare bambini in affido; la loro
richiesta, però, era stata respinta, a causa delle carriere lavorative di
entrambi che li tenevano spesso fuori casa, così l’unica consolazione erano
stati i due figli gemelli della signora Hill, sorella di Betty, Michael e Shon, che però ormai erano cresciuti.
Nonostante ciò però i coniugi Landry cercavano di godersi pienamente la vita e l’amore
che li univa, e che mai li avrebbe separati, e le brevi gite a Glacier li
aiutavano a dimenticare almeno per un po’ il dispiacere per la mancata
paternità.
In un’assolata mattina di giugno Hank stava
rientrando al cottage dopo una notte spesa a pescare, una pesca purtroppo poco
abbondante, e come spesso accadeva trovò la moglie
Betty ad attenderlo seduta al tavolino sotto il portico dove erano soliti fare
colazione quando vi era bel tempo.
«Buongiorno caro.»
«Buongiorno a te.» disse lui dandole un bacio
per poi sedersi
«Allora, com’è andata?»
«Nottata magra. Solo
pesciolini.»
«Ti rifarai la prossima volta.»
«Lo spero. Ormai
sono tre giorni che vado a vuoto.»
«Caffè?»
«Sì, grazie.»
«Mi ha telefonato mia sorella stamattina
presto.» disse mentre il marito sorseggiava il suo caffè «Michael ha passato
gli esami di ammissione alla St.John.»
«Ottimo. E Shon?»
«Sta ancora
studiando. Il suo esame è tra due settimane».
In quella Hank,
girando casualmente lo sguardo verso il lago, ebbe come l’impressione di
scorgere qualcosa di scuro a ridosso dell’isolotto che sorgeva ad una
cinquantina di metri dalla riva.
«Quello che cos’è?» disse alzandosi in piedi
e mettendosi la mano sulla fronte per poter vedere
meglio
«Non lo so. Forse è
solo un tronco galleggiante.»
«Per favore, prendimi il binocolo».
Betty entrò in casa, uscendone pochi secondi
dopo un binocolo da esploratore, lo stesso che Hank usava per fare bird watching durante le sue
passeggiate nel bosco, e lo porse al marito, che tornò a rivolgere il suo
sguardo sull’isolotto.
La massa in questione poteva effettivamente
sembrare solo un detrito, uno dei tanti che cadevano
nel lago, ma mettendo bene a fuoco il sergente vide qualcos’altro, qualcosa che
lo fece saltare per la preoccupazione: una mano, una mano che sembrava muoversi
debolmente, come a chiedere aiuto.
«Oh, maledizione! È
un uomo!»
«Che cosa!?»
«Non è un tronco! È
una persona!».
Veloce come un fulmine Hank raggiunse il
pontile a cui era legata la sua piccola barchetta da
pesca e partì a razzo in direzione dell’isolotto, raggiungendolo in trenta
secondi e issando velocemente a bordo il misterioso naufrago, privo di sensi
ma, almeno a prima vista, in buone condizioni.
Era un ragazzo, non doveva avere più di
diciassette o diciotto anni, capelli argentei corti e fluttuanti, la pelle di
un bel colore vivo e i lineamenti delicati, quasi fanciulleschi; indossava un
abito molto strano, una sorta di grosso cappotto nero con un cappuccio, e lo
stato in cui era, pieno di lacerazioni e di strappi, per un attimo fece temere ad Hank l’attacco di un orso, un evento che capitava di
tanto in tanto in alcuni campeggi del parco o lungo i sentieri per
escursionisti, ma non vi era traccia alcuna né di sangue né di ferite.
Rapidamente lo portò a riva, quindi, con
l’aiuto della moglie, lo distese sul pavimento ligneo del portico, iniziando a
praticargli un massaggio cardiaco.
Per fortuna, dopo poco,
il ragazzo riaprì gli occhi, due splendidi zaffiri, sputando fiotti d’acqua per
poi guardarsi attorno con aria spaesata.
«Ehi, ragazzo.» disse Hank «Tutto
bene? Senti la mia voce?»
«Yu… Yumi…» mugugnò prima di cadere addormentato.
Si risvegliò solo molte ore dopo, sul far del
tramonto, ritrovandosi disteso nel letto della stanza degli ospiti; la testa
gli faceva male, gli bruciavano gli occhi e sentiva dolore in varie parti del
corpo.
«Ah, sei sveglio.»
disse Hank entrando con in mano una tazza fumante «Stai meglio adesso?»
«Io… sì…»
«Bevi questo. È tè
alle erbe. Ti aiuterà a rimetterti in sesto».
Lui, timidamente, prese la tazza, bevendone
un sorso; era forte, molto forte, ma se non altro sentì da subito il freddo
divenire meno intenso.
«Grazie.»
«Non c’è di che».
Hank attese qualche minuto, per dare al
ragazzo il tempo di calmarsi un po’, poi cercò di rompere il ghiaccio.
«Io mi chiamo Hank. Hank
Landry».
Il ragazzo lo guardò con aria ancor più
spaesata di prima; sembrava un bambino che vede per la prima volta il mondo con
i suoi occhi.
«Dove… mi trovo?»
«Nella nostra casa.
Ti abbiamo trovato nel bel mezzo del lago. Sei fortunato ad
essere ancora vivo.»
«Il lago?»
«Sì, McDonald Lake.» rispose Hank indicando
una grande foto appesa al muro «Quello».
Passarono un altro po’ di tempo, durante il
quale Hank tentò di usare la propria esperienza di agente di polizia per
tentare di carpire qualcosa dalle espressioni e dai comportamenti del ragazzo,
ma per quanto ci provasse non riusciva a leggere
assolutamente nulla in quegli occhi azzurri, non perché non ci fosse niente da
leggere, ma perché c’era come una barriera invisibile che lo ricacciava
indietro.
«Ascolta, so che potrebbe essere difficile e
doloroso, ma hai voglia di raccontarmi quello che è successo?»
«Quello che è successo?»
«Come sei finito nel
lago? Sei caduto da una barca? Stavi pescando?».
Il ragazzo si mise una mano sulla fronte,
come a voler cercare di richiamare a sé quanti più ricordi
possibile, ma la sua espressione affranta e spaventata lasciava
intendere che non ci stava riuscendo.
«Io… non me lo
ricordo. Non… non mi ricordo niente.»
«Non ti ricordi
niente? Neanche da dove vieni, quanti anni hai? Ricordi almeno il tuo nome?»
«Io… non ci riesco.
È tutto così confuso. Mi gira la testa.»
«Va’ bene,
rilassati. Non c’è bisogno che ti sforzi a ricordare.
Hai indubbiamente subito un forte shock, e
questo può aver causato un’amnesia. Devi solo avere un po’ di pazienza, e
vedrai che con il tempo i ricordi ritorneranno.
Nel frattempo, puoi restare qui tutto il
tempo che vuoi.»
«Davvero?»
«Abbiamo già
avvisato la guardia forestale per segnalare quello che è successo. Se qualcuno
dovesse denunciare la tua scomparsa ci avviseranno
subito.»
«Grazie. Lei è molto
gentile.»
«Figurati. Ora
riposa. Ti chiamerò quando sarà pronta la cena. Immagino che avrai fame.»
«Un pochino».
Hank a quel punto si alzò dal letto e si
diresse verso la porta, ma all’ultimo secondo la voce del ragazzo lo richiamò.
«Erik.»
«Come?»
«Erik. Il mio nome.
O almeno credo.»
«Beh, è già un inizio.» rispose sorridendo il
sergente prima di uscire.
Commenti Finali
Eccomi qua!^_^
E così, siamo giunti alla fine di
questa lunga esperienza, che in realtà costituisce solo la prima parte di una
narrazione assai più lunga ed intricata di quanto si
possa immaginare.
Molti enigmi rimangono aperti,
molte storie devono ancora essere raccontate, e le strade dei vecchi, ma
soprattutto dei nuovi protagonisti sono ancora lunghe e costellate di
avventure.
Voglio ringraziare chiunque abbia
anche solo letto questa mia fiction, senza dubbio una delle migliori che abbia
mai scritto.
Ringraziamenti particolari vanno a
chi l’ha inserita tra i preferiti, Targul, Shakuma e Andrea83,
a Frefro,
per averla seguita, ma soprattutto alle mie appassionate recensitrici,
Akita, Selly, Cleo e Levsky.
Grazie a tutti voi!
Presto, molto presto, come già
detto in precedenza, riprenderà la narrazione di Millennium War – Rebirth, ma lascerò a chi vorrà
tenersi al passo un po’ di tempo per leggere i capitoli già inseriti, inoltre
cercherò per quanto possibile di lavorare parallelamente ad
un episodio ponte tra le due storie, Millennium War – Threeten Days.
Ciao, e a presto!^_^
Carlos Olivera