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Autore: udeis    05/10/2018    0 recensioni
L'ufficio alle relazioni babbane ha l'arduo compito di contattare i neo maghi e rivelargli l'esistenza del mondo magico. Non è un lavoro facile: ci vuole professionalità gentilezza e una grande conoscenza dei programmi tv.Tra genitori infuriati, convinti di avere davanti dei pazzi, genitori iper-protettivi che vorrebbero assicurarsi che Hogwarts rispetti le normative di sicurezza (Dove sono le scale antincendio, eh?), incantesimi sbagliati, incredulità e mazze da baseball, la vita di questi dipendenti ministeriali è davvero un inferno, ma loro non si perdono mai d'animo.
Genere: Azione, Commedia, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'Ufficio alle relazioni babbane e le sue dis/avventure.'
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Reduci.
 
Quando ritornai finalmente a casa, la prima guerra magica era appena finita e, anche se ancora non lo sapevo, aveva appena avuto inizio il breve periodo in cui la giustizia sarebbe stata riportata a forza di prepotenze, discriminazioni e processi sommari; Barty Crouch ne fu il maggiore artefice, almeno fino a quando anche la sua famiglia venne travolta dallo scandalo. Solo allora l’intero circo mediatico si diede la calmata definitiva e le disparità poterono continuare nel silenzio.
 
Al nostro ritorno dall’esilio nel mondo non-magico, mia moglie Agata fu accolta con gioia e celebrata dai più come l’eroica Grifondoro che aveva protetto i genitori babbani, io, in quanto ex Serpeverde e purosangue, subii un destino diverso.
All’epoca, come dicevo, i processi erano sommari e quasi tutti i Serpeverde furono sottoposti ad indagini preventive, con un inutile spreco di risorse giudiziarie, a mio parere. Evidentemente, per lavare la colpa di essere stati smistati nella casata verde e argento, non bastava essere nato-babbano e sfuggito per miracolo ai mangiamorte, come non bastò, per me, essermi nascosto tra loro per anni, senza ucciderne nemmeno uno per sbaglio.
Venivo, dunque, sospettato di collaborazionismo con i Mangiamorte: per qualche, assurdo burocrate del Ministero, infatti, avevo sempre simpatizzato con gli ideali di Voi sapete Chi e, anzi, avevo studiato i babbani proprio per capire come ritorcere la loro tecnoclogia contro di loro.
 
Sorvolando sul fatto che non sapessero neanche come si scrivesse tecnologia e, molto probabilmente, non sapessero nemmeno cosa fosse, i dipendenti in questione si dimostrarono ben poco astuti. In primo luogo perché i mangiamorte, non avevano certo bisogno di fare ricerche, visto che gli uomini morivano tutti allo stesso modo, e, in secondo luogo, non si sarebbero mai abbassati a studiare qualcosa di inferiore come la tecnologia babbana, anche perché -ed è quasi ironico- molto probabilmente non l’avrebbero compresa.
Insomma ci erano voluti mesi a me, per comprendere come usare una televisione, figuriamoci quanto tempo sarebbe servito a loro che non avevano seguito neppure una lezione di babbanologia.
Inoltre, sebbene mio fratello maggiore fosse uscito pulito da tutta questa orribile storia, mia sorella era sotto processo e cercava disperatamente di dimostrare la sua innocenza. Fu per questo unico motivo che rivelai la mia storia e mi sottomisi agli estenuanti interrogatori che seguirono, invece che raccontare, ad esempio, di essere immigrato clandestinamente in Giappone come i miei genitori: speravo che la mia testimonianza potesse pesare positivamente sulla decisione della corte.
Insomma, se pure il suo fratellino Serpeverde era un babbanofilo, come poteva lei, Corvonero e medimago, essere qualcosa di diverso da una delle tante vittime delle circostanze?
 
In quanto figura autorevole del mondo della medimagia, fu una delle poche che riuscì ad evitare il rito abbreviato e a non essere condannata per direttissima.
Fu un processo difficile: Arabella aveva collaborato con i mangiamorte, era vero, e di sua spontanea volontà, ma solo perché non farlo, avrebbe portato a una morte prematura lei e la sua bambina. Però, in quell’epoca in cui la vendetta era stata legalizzata e il caos imperversava, era difficile farsi perdonare anche una cosa simile: molti pensavano che se lei non avesse curato i mangiamorte feriti, i loro parenti sarebbero stati ancora vivi. Arabella, affermava che, se non l’avesse fatto, sarebbe venuta meno al suo dovere di medico ed essere umano, ma non c’era molto spazio per gli ideali e l’orgoglio in quel triste dopoguerra: ex-magiamorte confessavano, altri si proclamavano vittime di incantesimi, altri ancora facevano le valige in tutta fretta; pochi rimasero fedeli ai loro principi e furono, di fatto, quelli che andarono incontro al destino peggiore di tutti e furono rinchiusi ad Azkaban.
Malgrado tutto, non fui abbastanza coraggioso da affrontare uno di quei spaventosi processi e chiesi aiuto a Moody e Minerva per evitare che quelle indagini divenissero qualcosa di più. Al di là della ovvia paura di essere giudicato in fretta e furia da una corte assetata di sangue e vendetta, pronta a sparare sentenze, ma nel senso meno tecnico e lusinghiero dell’espressione, essere citato in giudizio non avrebbe aiutato neppure mia sorella.
 
In qualche modo riottenni il mio vecchio posto, ma il mio nuovo capo era in realtà agli ordini degli auror con il compito di sorvegliarmi 24 ore al giorno: non si impegnarono molto a nascondere la realtà dei fatti, anzi, ne approfittarono per lanciarmi velate minacce e farmi pressioni affinchè io potessi commettere un qualche passo falso.
Silente, su intercessione di Minerva, che mi doveva un favore, mi offrì un posto a Hogwarts, ma non accettai: volevo solo indietro la mia vecchia vita e, francamente, insegnare non era mai stata una delle mie ambizioni. Fu allora che il preside mi ricordò con gentilezza i rischi che correvo nel non acconsentire alla sua proposta e sottolineò quanto onorato sarebbe stato ad avere un mago del mio calibro tra i suoi insegnanti. Siccome le sue parole non sortirono l’effetto desiderato, Minerva, stizzita, aveva scommesso che avrei mollato il Ministero nel giro di poche settimane, per via delle pressioni a cui sarei stato sottoposto o per amor di mia sorella. Io, però, per quanto fossi grato a Silente per il suo intervento e per l’onore che mi faceva volendomi ad Hogwarts, dopo tutto lo sforzo fatto per restare il più neutrale possibile, non volevo certo schierarmi proprio alla fine della guerra, saltando sul carro del vincitore. Minerva ancora detesta di aver perso la scommessa, ma capisco che essere costretta a portare un cappello con un appariscente vischio rosso e blu per l’intera vigilia di Natale debba essere stata piuttosto fastidioso per una strega come lei.
 
 
La nostra sezione, come molte altre, era nel caos: certo, nessuno dei nostri dipendenti si era risvegliato -o fingeva di averlo fatto- da una maledizione imperius, ma il sergente Stipwell era morto vendendo cara la pelle e Margaret scomparsa a metà della guerra.
A quel punto il morale dell’intero ufficio era crollato, nessuno si era più occupato delle scartoffie: -se Tu Sai Chi avesse vinto non sarebbero più servite-, pensavamo, -anzi avrebbero potuto aiutarlo ad individuare tutti i nati babbani che avevamo messo in salvo ad Hogwarts.
In quel difficile dopoguerra, però, il Ministero sembrava aver deciso che una documentazione linda e precisa dovesse essere la priorità di qualunque conglomerato di maghi che osasse definirsi ufficio, non importava quanto miserevole e secondario esso fosse. Sempre che, ovviamente, volesse continuare ad esistere.
Lavoravamo senza sosta, facendo ore di straordinari: oltre ai casi nuovi, c’era da occuparsi anche del recupero dei dati dei precedenti lavori, il che implicava un lungo lavoro di ricerca dal momento che le liste di nati babbani erano state accuratamente bruciate, la posta mandata per errore alle poste babbane completamente ignorata e tutti i rapporti scritti in modo sintetico e approssimativo. Bisognava avere la certezza assoluta di nomi, luoghi ed eventi e riscriverli accuratamente rispettando il nuovo formato e archiviare in ordine alfabetico, prima che fosse vagliato con attenzione maniacale dal nostro sorvegliante. Il nostro reparto, infatti, per quanto generalmente considerato periferico e poco importante era stato inserito nella lista di settori ad alto rischio, per via dello smodato interesse di Colui Che Non Deve Essere Nominato per le stragi di babbani. Ci erano grati per aver cercato di proteggere i nati babbani con l’ausilio di una incartamenti imprecisi e incomprensibili, ma ora quei tempi erano passati questo atteggiamento poteva rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio, perciò tutto doveva tornare nelle capienti braccia del Ministero. Ora che la caccia a Tu Sai Chi era terminata i nati babbani avrebbero potuto essere protetti in modo attivo dagli auror stessi, che però necessitava di una documentazione precisa.
 
Tutto il lavoro d’ufficio era generalmente di mia competenza, ma le indagini sul campo, necessarie per aggiornare i fascicoli, toccavano ai miei colleghi, che dovevano sommarle al loro lavoro normale. Il nostro nuovo capo, in quanto mio cane da guardia personale, aveva, infatti, decretato che io non potessi allontanarmi per nessuna ragione dal Ministero, né entrare in contatto con nessun babbano.
Ufficialmente ciò avveniva per motivi organizzativi: gli interrogatori e gli accertamenti sulla mia posizione durante la guerra e sulla veridicità della mia storia erano episodici e discontinui e prevedevano che consegnassi un numero infinito di pratiche e autocertificazioni negli uffici più disparati. Tutto ciò, ovviamente, rendeva la mia disponibilità lavorativa piuttosto limitata e intermittente, incompatibilecon un lavoro sul campo che necessitava di agire al momento opportuno, senza indugio. Aggiungevano, poi, che dopo un così lungo periodo passato nel mondo babbano, sarebbe stato meglio per le mie doti da mago, di cui il Ministero aveva assoluto bisogno, che passassi un periodo riabilitativo strettamente a contatto con la magia che altrimenti rischiavo di dimenticare.
Ufficiosamente, la motivazione riguardava il fatto che io, secondo l’opinione comune, il mio vecchio posto ero riuscito a riottenerlo perché ero un altro di quei viscidi Serpeverde pieno di contatti, senza contare il fatto che l’ufficio del personale riteneva non ancora fugati i sospetti sulla mia collaborazione con Voi Sapete Chi. Fare loro notare che, se non avevo aggredito nessun babbbano dopo anni passati nel loro mondo (e c’erano stati momenti in cui un bello stupeficium mi sarebbe stato quantomeno di conforto), sicuramente non avrei iniziato a farlo adesso, non aveva sortito alcun effetto. All'opposto, Ernest, che già mi detestava, aveva rincarato la dose raccontando la storia del gatto sputafuoco, violando così il codice non scritto del nostro ufficio -“quello che facciamo per convincere i babbani resta tra noi, stronzetti”- che il defunto sergente Stipwell aveva sempre fatto rispettare.
Inoltre, era vero che avevo usato alcuni dei miei contatti per scampare al processo e farmi nel contempo riassumere al Ministero, ma se fossi stato davvero un doppiogiochista, come di fatto lo era Malfoy -ne ero sicuro- li avrei usati per farmi assegnare un posto in un ufficio più rinomato e non sarei di certo tornato alle “relazioni babbane” o quanto meno non ci sarei rimasto a lungo.
 
A rimpolpare lo scarso organico del nostro ufficio c’erano due nuove reclute: Astoria e Bill che più che un aiuto erano un’ulteriore incombenza.
In primo luogo perchè quelli che oggi si trovavano ad essere i veterani dell’ufficio, erano poco più che apprendisti quando avevano perso le loro guide, quindi si trovavano impreparati ad insegnare a loro volta i trucchi del mestiere che maneggiavano ancora un po’ a fatica. In secondo luogo perché nessuno dei due nuovi assunti si trovava nella giusta disposizione d’animo: Astoria era apatica e lontana, Bill impaziente e rabbioso,.
La prima era stata spostata a fine guerra nel nostro ufficio: la strega versava in stato di shock permanente e passava le giornate a guardare nel vuoto. Era una storia comune, la sua, ma non per questo meno tragica: tornata da lavoro più tardi del solito, aveva trovato il marchio nero su casa sua e la sua intera famiglia trucidata all’interno, compresi i figli che si godevano le meritate vacanze estive, lontani, per la prima volta da mesi, da Hogwarts. Nessuno aveva avuto tempo di occuparsi di lei durante la guerra, così era rimasta ad occupare la sua vecchia scrivania, nel dipartimento di giustizia del Ministero, ma con il volgere del nuovo corso e la scomparsa di Colui Che Non Deve Essere Nominato, era stata gentilmente messa da parte e trasferita per far posto agli arrivisti, ai tecnici e agli affamati di vendetta. Non che la cosa l’avesse colpita in particolarmente: era passata dal guardare il vuoto e compilare stancamente qualche pratica nell’ufficio della Giustizia a farlo nel nostro più defilato ufficetto.
Quello di Bill, invece, era stato un trasferimento volontario un gesto di ribellione e rabbia per essere stato sottoposto per mesi alla maledizione imperius e costretto a passare informazioni ai suoi aguzzini: diceva di voler fare qualcosa di concreto per ripagare il male che aveva fatto. “Voi non sapete com’è,” Ci disse una volta: “Ho passato mesi in un limbo felice, ma quando mi sono svegliato e ho ricordato, sapevo che era stata colpa mia perché non avevo saputo impedirlo”. Nessuno si era sentito in grado di replicare a quel punto.
Non potevo, però, aiutare i miei vecchi colleghi neppure con l’addestramento, non ufficialmente, almeno. Il mio cane da guardia non vedeva di buon occhio che avessi rapporti con i due nuovi assunti, che erano in una condizione di fragilità estrema: secondo lui avrei in qualche modo potuto traviarli o minacciarli, approfittando del mio ruolo d’istruttore.
 
Trovavo estremamente difficile riabituarmi al mondo magico: nessuna penna autoinchiostrante poteva eguagliare una biro e dopo tutta la fatica fatta per imparare a usare una macchina da scrivere, sembrava un peccato doverne fare a meno. Mi accorgevo dell’utilità delle macchinette per il caffè, della comodità delle lavatrici e mi mancavano perfino le chiacchiere sul calcio.  Rimpiangevo l’anonimato del mondo babbano: al Ministero le occhiate e i sussurri che mi seguivano non dipendevano dalla mia incompetenza o goffaggine, ma dalla scelta di un cappello e dalle azioni dei Mangiamorte.
Dopo anni di esilio ora mi sentivo a disagio e lo detestavo, perché in quei lunghi anni passati tra i babbani non avevo altro desiderio che tornare a casa.
Senza contare che, dopo aver passato gli ultimi anni a vendere enciclopedie porta a porta, il lavoro d’ufficio mi sembrava limitante e noioso e ne ero insofferente: mi recavo ogni giorno nell’ufficio del nostro supervisore per chiedergli di poter partecipare alle azioni sul campo, ma senza nessun risultato, a parte quello di irritarlo, certo.
Arthur mi diceva di pazientare: io non c’ero durante la guerra non sapevo come era stata.
I maghi avevano smesso di fare nuove amicizie, il sospetto e la paura si erano insinuati tra marito e moglie, tra amici d’infanzia, tra fratelli, tra figli e genitori. Erano scomparsi in molti e quelli che erano stati ritrovati… No, non volevo proprio sapere come erano stati ritrovati. Ogni volta che uscivi di casa, ogni volta che vedevi una persona a te cara poteva essere l’ultima. Era normale che mi tenessero ancora d’occhio, perché il mondo magico non era più quello di un tempo.
Gli rispondevo che ero stanco di sentirmelo dire perché per me non era stata una villeggiatura. Arthur non replicava mai, si limitava a stringersi nelle spalle, ma vedevo che non capiva: dopotutto, neanch’io riuscivo a spiegargli al meglio l’amarezza dell’esilio.
“John, molte persone sono morte per mano di Serpeverde” scuoteva la testa il mio collega.
“No,” rispondevo ogni volta, “molte persone sono morte per causa di assassini e io non lo sono e come me molti altri”.
Non ero davvero arrabbiato con Arthur, lui cercava disperatamente di tenere in piedi il gruppo e per questo aveva tutta la mia stima e il mio rispetto: ultimo erede dello spirito del sergente, aveva deciso di preservarlo ad ogni costo, in sua memoria, ma era difficile. Ernest, ambizioso com’era, coglieva ogni occasione per mettersi in mostra con il sorvegliante a scapito nostro, avendo capito che bisognava approfittare il più possibile di quel periodo di incertezza se si voleva fare carriera e quello della carriera era stato un suo pallino fin dall’inizio.
“Stipwell non c’è più, Arthur,” lo sentii dire una volta ”dobbiamo modernizzarci”
Mi faceva ridere che, proprio lui che riteneva le penne autoinchiostranti il massimo della novità, parlava di rinnovare l’ufficio: avesse visto cosa combinavano i babbani, si sarebbe sentito un uomo delle caverne.
All’insaputa del sorvegliante e tenendomi ben lontano dal radar di Ernest, cercavo di aiutare Arthur con i lavori più difficili: una visita fortuita a Diagon Alley, un consiglio pronunciato a mezza voce, un aneddoto ben piazzato, una spiegazione sussurrata, un’indagine contrabbandata per passeggiata romantica o visita ai parenti di mia moglie. C’erano poi le volte in cui ci incontravamo direttamente fuori dal lavoro, in una delle nostre due case, per organizzare un piano d’azione valido per l’intera settimana o discutere dei modi migliori per addestrare le nostre reclute. Ernest era lasciato fuori anche da questi conciliaboli: la sua ambizione solitaria disturbava noi e impediva a lui di lavorare bene in squadra e chiudere un occhio sulle mie piccole collaborazioni clandestine. Il nostro collega sembrava deciso ad ignorare la realtà che aveva sotto il naso- avevo davvero passato anni a nascondermi nel mondo babbano e ne portavo ancora addosso i segni- e attenersi alla versione ministeriale della faccenda- mi ero probabilmente unito ai mangiamorte-. Odiava il fatto che fossi tornato ed era invidioso delle mie capacità: fossi morto davvero durante la guerra, probabilmente, mi avrebbe ricordato come un eroe.
Bisognava essere molto prudenti nell’agire sotto il naso del sorvegliante perché in ballo non c’era solo la mia carriera o libertà, ma anche quella della mia testarda sorella, oltre al buon nome del nostro ufficio che fin ora contava un numero pari a zero di mangiamorte o simpantizzanti di Tu Sai Chi. Forse penserete che non sia un record notevole, ma così sottovalutereste, e di molto, il terrore che era stato in grado di spargere Colui Che Non Deve Essere Nominato e quanto sia facile considerare i babbani dei completi idioti quando ci si ha a che fare con loro molto, ma non abbastanza.
 
Insomma tutto andava più o meno male, fino a quando ad Astoria non fu assegnata la sua prima famiglia babbana.
 
Era un piovosissimo martedì e, come spesso accadeva, in ufficio c’eravamo solo io e lei: il supervisore l’aveva chiamata assegnandole il compito di avvertire la famiglia Smith, rimarcando il fatto che, se almeno questa volta non avesse concluso qualcosa, sindrome da stress post-traumatico o meno, avrebbe trovato il modo per sbatterla fuori dal Ministero. Perché lui era stanco del suo modo di fare. E dicesse qualcosa aveva capito si o no?
 
Astoria aspettò la pausa pranzo, poi raggiunse la mia scrivania: l’ufficio ormai si era svuotato del tutto. Il supervisore, infatti, dopo un breve calcolo aveva ritenuto che l’apatia di Astoria avrebbe potuto fermare i miei tentativi di lavaggio del cervello almeno per il tempo del suo pranzo.
“Mi ricordo di te prima che sparissi: eri maledettamente entusiasta. Pensavo ti avessero ucciso.“ mi disse.
“Mi sono nascosto tra i babbani.” Risposi senza pensare, stupendomi, in ordine, del fatto che avesse scelto proprio me per rivolgere le sue prime parole del mese e che, nel farlo, avesse avuto un tempismo perfetto.
“È stata dura?”
“Sì.”
“Ma ti sei salvato. Aiutami con gli Smith”
“Io non posso lavorare sul campo”
“E io non posso andarci da sola”
“No, non puoi.”
Astoria mi fissò, in attesa.
“Fammi vedere quel fascicolo, ti dirò cosa devi fare” cedetti.
“Devi venire con me. Non riesco a parlare con le persone”
“Ora lo stai facendo, però” Il che fu ingiusto da parte mia, visto che quello era il discorso più lungo che le avessi mai sentito fare: di solito si limitava a piantare i suoi occhi vacui su di te e ad annuire. Ernest, non a torto, la trovava inquietante: non eri mai sicuro che avesse capito davvero.
“È diverso”
Capitolai solo per il buon nome del nostro ufficio e in memoria del Sergente Stipwell, che non si sarebbe di certo fatto scoraggiare da un paio di regole nel dare una lezione di vita e di lavoro alle sue reclute. Astoria, dopotutto, era diventata parte del nostro ufficio ed in quanto tale una nostra responsabilità.
 
Arrivammo dagli Smith durante un temporale, riparandoci sotto grosso ombrello viola ed indossando completi babbani, da me personalmente approvati. La casa era lontana dal paese, persa nella brughiera, ed era poco più di un fienile umido: le assi del tetto stavano marcendo e le pietre dei muri sembravano lasciar passare più di uno spiffero. Ad aprirci la porta, dopo un tramestio di chiavistelli, furono due gemelli malnutriti dallo sguardo da lupi.
 
“Che volete?” domandarono aprendo solo dello spazio necessario a mettere fuori le teste e radiografarci dalla testa ai piedi.
“Noi vorremmo parlare con la signora Smith” Presi l’iniziativa.
“Mamma lavora.”
“Cosa volete dirle?” Il tono era secco, ostile, ma non mi lasciai scoraggiare: Merlino sapeva quanto ero felice di ricominciare a fare finalmente il mio lavoro, anche se in via clandestina e suppletiva.
“Vogliamo parlare con la mamma di una cosa importante, la aspetteremo, potreste farci accomodare nel frattempo?”
“Non facciamo entrare gli sconosciuti.”
Lanciai un’occhiata ad Astoria che dopo il breve exploit in ufficio, sembrava di nuovo essersi spenta: non sembrava particolarmente turbata dall’idea di restare ad attendere sotto la pioggia. Io, però, non mi potevo definire altrettanto entusiasta.
“Quando finisce di lavorare vostra madre?”
“Torna per le 8, andate a farvi un giro. Noi non facciamo accomodare nessuno sconosciuto.”
“Noi non siamo sconosciuti, siamo i rappresentati di una scuola privata.”
Lo sguardo si affilò, incupendosi per un istante.
“Certo come no. Tornate alle 8.” Dissero e ci chiusero la porta in faccia.
 
“Che razza di testardi. Ci smaterializziamo al Paiolo e torniamo dopo?”
Astoria si strinse appena nelle spalle.
“Prima lanciamo un bell’incantesimo che ci avvisi dei loro movimenti”. Dissi, agitando la bacchetta con gesti precisi, poi cercai di mantenere viva la conversazione: “Comunque è probabile che la loro madre sia in casa per quell’ora. In ogni caso, io non ho la minima intenzione di aspettarli sotto la pioggia. Andiamo?”
Astoria restò immobile per un lungo momento, guardando il vuoto e poi esalò: “Preferisco un bar babbano. Se proprio non vuoi restare sotto la pioggia andiamo in un bar babbano.”
Riservai ad Astoria una lunga occhiata meditabonda: era la prima strega che mi avesse mai fatto una simile richiesta, ma acconsentii. I locali babbani non mi mancavano particolarmente, ma di sicuro, così facendo, avrei ridotto le chance di essere beccato in flagrante da qualcuno del Ministero, mentre chiacchieravo con Astoria proprio nel giorno in cui lei doveva parlare con la sua prima famiglia babbana. Le voci sarebbero, senza dubbio, arrivate al mio carceriere in un batter d’occhio e lui avrebbe, molto probabilmente, tratto le dovute conclusioni e di certo queste non sarebbero state a mio favore. A quel punto avrei potuto salvarmi solo spergiurando di avere un’infuocata storia d’amore con la mia collega, o qualcosa del genere, anche se a quell’epoca sarebbe comunque stato difficile da sostenere data la sua completa apatia.
Camminammo fino al villaggio là vicino visto che smaterializzarsi in pieno giorno in un villaggio babbano sconosciuto era troppo rischioso. Astoria sembrava apprezzare passeggiata e silenzio e io non la disturbai: come dicevo, era la prima volta da quando era venuta a lavorare nel nostro ufficio che mostrava un interesse, seppur discontinuo, per qualcosa.
Il pub del villaggio era essenzialmente una grossa sala buia con bancone, spillatori e un paio di tavoli. Qualcuno degli uomini al bancone ci lanciò la strana occhiata che nel gergo universale dei bar significa “stranieri”, mentre ci ritiravamo sul fondo del locale.
“Cosa prendi?”
“Fai tu.”
Andai al bancone e ordinai due birre chiare e pagai.
“Quanto è in falci?”
Disse estraendo un sacco di monete da una tasca del suo vestito.
“Non preoccuparti di questo, facciamo i conti dopo, se ci tieni.”
“Mi sto facendo notare troppo?”
Lanciai uno sguardo a baristi e clienti che non ci perdevano d’occhio pur senza guardarci.
“I sacchetti di monete danno nell’occhio, anche quando sono finte.”
“Capisco.”
 
Bevemmo in silenzio le nostre birre, tranquillizzanti dalla momentanea invisibilità che ci dava il mondo babbano e confortati dal rumore della pioggia.
“Perché hai suggerito di recarci in un pub babbano?”
Le chiesi, a disagio. Come ho detto, non mi dispiaceva, anzi era probabilmente la scelta più sensata, ma nessun mago sano di mente avrebbe mai proposto una cosa del genere e non soltanto perché io ero un Serpeverde sospettato di aver collaborato con un pazzo assassino. Semplicemente, la maggior parte dei maghi non provava abbastanza curiosità: il mondo babbano era come uno sfondo a cui non facevano più caso.
“Qui non sono nessuno.“
Bevvi un sorso di birra, cercando di nascondere l’imbarazzo crescente: l’intera comunità magica ama il pettegolezzo tanto da averlo eletto sport nazionale molto più del Quidditch e tutti conoscevano la storia di Astoria, perfino io che ci ero tornato da poco. Sapere vita, morte e miracoli di quasi ogni singolo mago, non è poi così difficile, data la ridotta grandezza della nostra comunità: dopo la guerra si poteva dire che le cose erano solo peggiorate.
“Hai ragione. Questo manca anche a me.”
In un certo senso la capivo: non avevo certo un disordine da stress post-traumatico, ma di sicuro non mi piacevano le occhiate che si lanciavano tutti quando pensavano che non li vedessi, senza contare le voci che giravano sul conto di mia sorella e dalla mia intera famiglia.
L’incantesimo che avevo lanciato sulla casa fece vibrare dolcemente la mia bacchetta, interrompendo il silenzio che era calato dopo la mia ultima dichiarazione. Come sospettavo, i gemelli ci avevano mentito sull’orario di ritorno della loro madre, sperando, forse, che ci scoraggiassimo. Lanciai uno sguardo d’intesa ad Astoria e ci avviammo lungo le strade deserte di quel paesino irlandese, dopo aver debitamente finito le nostre birre. Non volevo di certo avere da ridire, di nuovo, con un barista babbano.
 
Eravamo riusciti ad introdurci in casa grazie all’aiuto di un tono di voce particolarmente squillante e un piede infilato in mezzo alla porta che i due gemelli volevano sbatterci di nuovo in faccia. A quel punto un’angelica giovanissima donna era apparsa sulla soglia, scacciando i due piccoli lupi senza fatica alcuna. Ci aveva soppesato per un attimo senza sapere come inquadrarci e nel dubbio facendo vincere l’educazione: “Piove” aveva detto, infatti, “Facciamo entrare i signori in casa” e ci aveva fatto accomodare su un paio di sedie spaiate e traballanti di fronte al camino acceso. La donna era rimasta in piedi di fianco al focolare, sorridendo e asciugandosi le mani sul grembiule e si era scusata perché non aveva del tè da offrirci, ma se, forse, avessimo gratido lo stesso un po’ d’acqua e zucchero, l’ avrebbe preparata con piacere. Fu a quel punto, per salvarla dalla disagio in cui si trovava- a nessuno piace ammettere, o far intuire, di essere così povero da non potersi neppure permettere del tè- che iniziai a spiegare chi fossimo e perché fossimo venuti da tanto lontano nella sua umile dimora.
Come da copione, non mi credettero, come nessuno, neppure il sergente Stipwell, avrebbe mai potuto prevedere, uno dei due gemelli afferrò il ferro del camino e me lo punto contro.
 
“Stronzate!” Urlò, dunque, minacciandoci. “Mamma come fai a credergli, sono solo stronzate!”
L’altro fratello dietro di noi brandiva minaccioso un coltello che aveva recuperato da chissà dove: “Mamma è stato di nuovo quel figlio di puttana del nonno! Questi sono dei servizi sociali.”
“Quello stronzo gli ha detto che sei matta da rinchiudere e quindi questi ti raccontano stronzate per tenerti buona, ma con noi non attacca”.
Sobbalzai e mi preparai ad impugnare la bacchetta nascosta nella manica nel caso la situazione fosse degenerata. La loro reazione mi aveva sorpreso e non solo per le armi improvvisate: malgrado quell’aria da piccoli adulti che finiscono per assumere tutti i bambini costretti a vivere in condizioni di povertà e quella feroce furbizia che si porta dietro chi è costretto a vivere in situazioni complesse e sgradevoli, i due neo maghi stavano dimostrando tutta la loro ingenuità. Insomma, se fossimo stati davvero dei servizi sociali, dopo quel bel teatrino li avremmo portati in un istituto- orfanatrofio o riformatorio che fosse- senza esitare un secondo. La cosa, però, mi rallegrava: dopotutto significava che c’era ancora speranza per la loro infanzia.
“Noi non lasceremo mai nostra madre.” Rincarò il gemello con il ferro.
La donna si portò una mano al petto e sembrò afflosciarsi leggermente, come se le gambe non potessero reggere un istante di più: “No… mio padre non lo farebbe mai…” balbettò.
“Non verremo con voi siamo stati chiari?”
“Mamma come fai ad essere così stupida? Possiede l’intera collina e non si è fatto scrupoli a sbatterci in questa casupola di merda solo perché siamo dei bastardi.”
“Sì, è chiaro, eh, stronzi? Siamo bastardi e non ce ne vergogniamo. Scrivete anche questo sul vostro fascicolo!”
“Nostra madre ci ha cresciuti nonostante tutto.”
Ci guardavano, palleggiandosi la discussione con un perfetto tempismo, sfidandoci con lo sguardo a dire qualcosa di male su loro madre. Come se noi avessimo mai avuto l’interesse o l’ardire di giudicare le sventure altrui. Ne avevamo abbastanza delle nostre di cui preoccuparci. La madre li guardava incredula e ferita senza sapere cosa fare: fu a quel punto che Astoria si alzò in piedi.
“Se tenete a vostra madre, ascoltate cosa ha da dirvi Tokai.”
Guardai la madre negli occhi e mi lanciai: “Signora Smith, i suoi figli hanno davvero dei poteri magici e sono stati ammessi a una scuola di magia molto prestigiosa. Potranno studiare per sette anni lontano da casa, in un castello, avranno cibo a sufficienza e un futuro migliore.”
“Sì e tu sei la fatina buona del cazzo? Non veniamo nel tuo istituto di merda.”
“E siamo abbastanza grandi per credere alle favole.”
“Mamma non ti preoccupare non ti lasceremo e l’anno prossimo andremo con Max e ci faremo qualche soldo, così la sera potrai riposarti andrà tutto bene.”
Fu a quel punto che Astoria tirò fuori la bacchetta e, dimostrando più spirito d’iniziativa che in tutti gli ultimi sei mesi, disarmò i due mocciosi, facendo lievitare minacciosamente sopra le loro teste le loro armi improvvisate.
“Questa è magia, bambocci, magia vera. La sapete fare anche voi e scommetto che ve ne siete accorti. Siete svegli per la vostra età. Quella che vi stiamo offrendo è la migliore possibilità della vostra vita, quindi smettetela di fare i grandi uomini e lasciate parlare gli adulti”
e fece fiorire dal terreno tralci di edera che intrappolarono le gambe dei due piccoli lupi ringhianti. “Niente spese di vitto e alloggio a carico di vostra madre, la scuola è gratuita, quindi niente tasse, una buona istruzione e uscirete da lì maggiorenni. Cosa credete che voglia dire questo, eh? Vostra madre non sarà costretta a patire la fame e potrà mettere i soldi da parte per una vita migliore. E voi? Volete essere sempre ricordati come dei bastardi oppure volete avere l’opportunità di comprare quella collina?”
La madre emise un verso di sorpresa e fece per correre in loro soccorso, ma io la trattenni. “Venga con me”, dissi. “Andiamo a farci un tè, i suoi bambini staranno bene. Si fidi, la mia collega sa quello che fa“. O almeno era quello che speravo. Ci mancava solo, in quel clima politico, dover rispondere per violenze su babbani, soprattutto se era un Serpeverde sospetto ad esservi più o meno implicato.
Feci apparire teiera e dolci con un colpo di bacchetta e mi servii del focolare per riscaldare l’occorrente, mentre la madre sedeva su una delle sedie senza guardarmi.
“Lo sapevo, sa, della magia” Ammise a mezza voce, “Il tetto riparato, le mele in più, le scarpe nuove. Pensavo le avessero rubate, ma loro avevano negato con così tanta forza, che alla fine non avevo avuto la forza di punirli”.
Si aggrappò forte alla tazza di tè: ”Dice che miglioreranno alla sua scuola? Dice che avranno davvero un futuro?”
“Sì, ogni mago undicenne parte da zero, ma ad Hogwarts può imparare tutto il necessario. A nessuno importerà di chi fosse loro padre.”
Perché il mondo si divideva già in nati babbani e purosangue, ma ovviamente non lo dissi. Che senso avrebbe avuto aumentare le preoccupazioni di quella povera donna?
“Potranno studiare, avranno un’infanzia vera.” Sembrava sollevata, aveva le lacrime agli occhi. Forse per via della sua giovane età, aveva creduto immediatamente che la dimostrazione di Astoria fosse effettivamente magia vera e quindi aveva deciso che fosse più che sensato anche tutto il resto del contesto, ossia che due maghi adulti venissero a reclutare i suoi bambini per offrire loro un mondo migliore. Sebbene tutto ciò mi rendesse il lavoro più semplice mi trovai per un istante a simpatizzare con i due fratelli: la loro madre era davvero troppo ingenua per questo mondo.
“Sì, è così” continuai, scrollandomi di dosso quelle sensazioni, “E ha visto cosa ha fatto la mia collega: le assicuro, signora, che non sono trucchi da baraccone.”
“Qui in paese hanno sempre vissuto male: la gente è crudele. Li chiama bastardi e dà della troia a me per essermi trovata in questa situazione. Sa”, aggiunse rossa di vergogna, “Io sono cattolica, ma non ho un marito”.
Versai premurosamente altro tè per farla riprendere dal suo apparente disagio e mi esibii nella faccia più comprensiva che fossi in grado di fare.
“Sono cose che capitano” accennai.
“È stata una mia scelta” mi rispose in un guizzo di determinazione “Non lo rimpiango. I miei piccoli sono un dono di Dio e ne sono felice, malgrado tutto”.
Fu il mio turno di annaspare nell’imbarazzo e, per non sbagliare, mi versai anch’io una generosa tazza di tè. “Capisco.” Dissi “io ho due figli che mi aspettano a casa”. La signora Smith sembrò stranamente confortata da queste mie parole: “Avevo paura che la loro vita sarebbe stata costellata dal disprezzo, per colpa mia, ma se lei mi dice che hanno un’altra opportunità, io voglio che la colgano” si confidò. “Vogliono che siano felici. Signor Tokai, glielo giuro troverò i soldi per comprare tutto l’occorrente e per pagare le tasse. Torni a Settembre e la prego non faccia caso alle loro parole. Sono arrabbiati, si sentono in colpa perché io vivo così, mentre prima vivevo nella casa sulla collina. Ma quella casa era senza amore, ora lo so” La donna mi guardò con aria risoluta e strinse le mani in grembo e sussurò, come se non volesse farsi sentire neppure da sé stessa: “La prego signor Tokai, si prenda cura dei miei ragazzi.”
 
Poco distante da me e dalla signora Smith si stava svolgendo la seconda- e fondamentale, visto il tipo di neo maghi con cui avevamo a che fare - conversazione sussurrata della serata. Ero costretto a gettarci occhiate periodiche, dedicandovi metà della mia attenzione perché non ero affatto sicuro che Astoria riuscisse a gestire una situazione del genere da sola.
 
“Come hai fatto.” Chiese il gemello che aveva impugnato il coltello, guardando con sospetto i tralci d’edera che lo avvolgevano.
“Magia. Con la bacchetta.”
“Non ci credo.” Ribatté categorico.
“Allora qual è la spiegazione?”
“Non lo so.”
“Sei sicura di non essere dei servizi sociali? Magari quelli magici.” Chiese il fratello che aveva impugnato il ferro del camino.
“Non lo sono. Lo sembro?”
“Non tanto. Non credo che quelle dei servizi sociali facciano queste cose.”
“Non quando i bambini sono ancora a casa.” Gli diede manforte l’altro.
“Però il tuo amico lo sembra.” Aggiunse il primo, meditabondo.
“Il mio amico è strano.”
La risposta era riduttiva e inesatta, ma si rivelò efficace. I due lupi misero da parte momentaneamente l’ostilità e si fecero travolgere da una più sana curiosità infantile, ipnotizzati, forse, dall’impassibile freddezza della mia collega.
“Lo impareremo anche noi?”
“Se studierete.”
“Che ti serve saperlo fare se tanto poi fai questo lavoro di merda?”
“Oggi mi è tornato utile, ad esempio. Che lavoro pensi debba fare un mago?”
“Non so qualcosa di figo.”
“Qualcosa che faccia guadagnare tanti soldi.”
“A me questo lavoro piace e mi fa guadagnare soldi.”
“Ma non tanti.”
“Abbastanza.”
Dopo il breve duello retorico cadde il silenzio: gli avversari recuperavano le forze e si studiavano a vicenda per trovare il punto migliore in cui colpire.
“Se state raccontando balle troveremo il modo di farvela pagare e torneremo qui.”
“Bella pensata così vi ritroveremmo subito.”
“Prederemmo nostra madre e andremmo subito via.”
“Non vi stiamo raccontando balle.”
“Nostra madre è ingenua, ma a noi non ci giocate, ricordatelo.”
“Lo terrò a mente.”
Astoria lanciò uno sguardo nella mia direzione e inquadrò la faccia preoccupata della madre.
“Spero abbiate capito” disse ai due bambini. “Fate i bravi che ci vediamo ad Agosto. Mettete da parte dei soldi: compriamo le cose per la scuola” concluse e sciolse banalmente l’incantesimo: i tralci d’edera svanirono e il coltello e il ferro caddero con clangore vicino i piedi dei due gemelli.
I due piccoli lupi la guardarono con un misto di sospetto e ammirazione e non accennarono neanche per un istante a riprendere in mano le loro armi. Io mi accomiatai dalla signora Smith, dandole appuntamento per la fine dell’estate.
 
Una volta usciti da quella casa buia, Astoria sembrò tornare immediatamente alla sua solita apatia, ma mentre camminavamo verso il villaggio, su quel sentiero sconnesso e fradicio in mezzo alla brughiera, mi sorprese ancora una volta: “Questo lavoro, io…” Iniziò, poi prese un enorme respiro e guardò il cielo, ad ovest dove il sole stava tramontando dietro le nuvole:” Nessuno riporterà i miei figli da me, ma io posso donare a questi neo-maghi una nuova opportunità e lo voglio fare”.
Questo fu, credo di poterlo affermare con certezza, l’ultimo miracolo del comandante Stipwell, l’inizio della guarigione di Astoria e della nostra amicizia.
Sorrisi: “Ti darò una mano”.
 
 
 
Quell’agosto fui io la comparsa silenziosa a Diagon Alley, (ovviamente ero lì per puro caso): le due donne, dopo un primo imbarazzo, s’intesero bene e Astoria la aiutò a procurarsi tutto il necessario con i pochi soldi a disposizione (quelli li tenga per la bacchetta. La bacchetta è la cosa più importante per un mago. Per il calderone e alcuni libri di testo, se per lei va bene, vorrei donarle questi: erano dei miei figli, a loro non servono più, preferisco che non restino a prendere polvere, sono ancora in condizioni così buone…).
Astoria lasciò abilmente la madre in mia compagnia così che potessi presentarla a un folletto di fiducia e spiegarle le insidie burocratiche e il sistema di cambio della valuta babbano-magica e prese da parte i due neo maghi a cui spiegò in modo breve e succinto la prima guerra magica e le sue implicazioni. Forse, come avevo già fatto io a suo tempo, aveva valutato che l’ingenua e dolce signora Smith andasse protetta il più possibile o forse pensava che sapere cosa aspettarsi e dove colpire avrebbe reso la vita molto più facile ai due piccoli lupi.
 
I gemelli furono assegnati entrambi a Grifondoro, Arthur urlò la notizia a tutto l’ufficio, facendo i complimenti ad Astoria a gran voce perché la prima casa non si scorda mai.
Lei si voltò e mi ringraziò di sottecchi: nessuno, ufficialmente, sapeva della nostra collaborazione.
 
I due fratelli diventarono due ottimi spezzincantesimi- si dice che essere gemelli aiuti in un quel tipo di magia- e fecero effettivamente molti soldi: non comprarono mai la casa sulla collina, ma una villa più moderna e confortevole, lontana dal paese, in cui loro madre poté vivere agiatamente senza sentirsi giudicata per un amore di gioventù. Astoria e i gemelli ancora si scrivono e si proteggono a vicenda dalle ombre dei rispettivi passati.
 
 
Note: Potete conoscere dettagliatamente il passato di John Tokai durante la guerra, ossia del suo esilio babbano, leggendo “A nessuno piace parlare della prima guerra magica” là potrete capire anche perché il mago non vuole più avere a che fare con i baristi babbani.
  
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