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Autore: NPC_Stories    08/10/2018    2 recensioni
“Holly... come si dice in elfico?”
Holly sollevò un angolo della bocca in un lievissimo sorriso. Era quasi invisibile, ma era il primo sorriso sincero che vedevo da quando era morto.
“L'amicizia non genera debiti” si corresse, recitando la frase che gli avevamo attribuito nel corso della cerimonia in cui lo avevamo nominato Amico degli Elfi. Ogni Ruathar ha una sua frase personale in lingua elfica, intrisa di una nota magica che lo identifica infallibilmente come Ruathar davanti a qualunque elfo.

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[Jolly Adventures, capitolo L'altra mia tomba è sempre un albero (Parte 3)]
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Quando Johel ha portato il suo strano amico (all'epoca vivo e vegeto) a conoscere la sua famiglia, inizialmente non è andata molto bene.
Questa non è la storia di come è cominciata, ma è la storia di come la più improbabile delle creature è diventata un Ruathar, aiutando un elfo che era stato rapito e preso prigioniero. È una storia di gesta eroiche, manipolazioni a fin di bene, gente morta e sensi di colpa, ma anche di amicizia e rapporti familiari, insomma come tutte le loro storie.
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Warning: più avanti si parla di tortura, sesso e violenza non descrittivi; si sconsiglia la lettura ad un pubblico troppo giovane.
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1287 DR: La loro casa


Johel e Daren era fermi davanti alla porta del pub noto come La Casa degli Scapoli.
“Dici che mi faranno entrare?” Domandò il drow, esitante.
“Be’... c’è un cartello che proibisce l’ingresso ai cani, alle scimmie - anche se lo sa il cielo che qui non ci sono scimmie - e agli gnomi in monociclo. Non dice nulla sui drow.”
“Per quale motivo solo gli gnomi non possono stare su un monociclo?”
“Non penso che il punto sia l’essere gnomi. Dev’essere il monociclo in sé.”
“Allora la regola non è scritta molto bene. E gli elfi?”
“Daren, so che tu non ci conosci ancora bene, ma nessun elfo farebbe mai una cosa così stupida.”
Il drow fece una faccia perplessa che esprimeva tutti i suoi dubbi.
“Va bene, togliamoci il dubbio.” Poggiò la mano sulla maniglia, ma poi esitò. “Però se dentro ci troviamo un elfo in monociclo, mi paghi da bere.”

Nella Casa degli Scapoli non c’erano monocicli. Né scimmie. C’era un cane, però. O almeno qualcosa di simile a un cane. Assomigliava ad un grosso husky con la coda arricciata all’insù, il suo manto era verde a macchie marroni. Una creatura del genere doveva essere capace di mimetizzarsi molto bene nella foresta, ma non dentro a un edificio di terra e pietra.
Il cooshee se ne stava acciambellato davanti a un caminetto acceso. Alzò a malapena il capo al loro ingresso, ma cominciò a sbattere la coda per terra in segno di benvenuto.
L’ambiente assomigliava a una classica taverna. C’era un bancone sulla destra. In realtà era un doppio bancone, per metà a misura di elfo e per metà a misura di gnomo. Un piccoletto stava pulendo il bancone basso; sarebbe potuto passare per un bambino, se non avesse avuto la barba e una pipa in bocca.
C’era anche un bambino vero, un bambino elfo. Trotterellava in giro per il locale, sulle corte gambette instabili. Daren era sicuro di aver già visto quel bambino, ma ne ebbe conferma quando quello si diresse con decisione verso la porta ancora aperta alle loro spalle. Stava tentando di nuovo la fuga? Johel se ne accorse e richiuse in fretta la porta. Il piccolo arrivò lì davanti, guardò la porta chiusa con aria desolata e cadde seduto all’indietro. Dopo un momento di sconforto, si mise a gattonare nella direzione opposta.
“Non c’era nessun divieto sui bambini?” sussurrò il drow al suo amico.
“Finché non sono in monociclo… giusto? E poi credo che la cameriera sia sua madre.” Ipotizzò, indicando con un cenno del capo l’elfa che si muoveva affaccendata fra i tavoli.
Daren le rivolse una mezza occhiata e decise subito che sembrava un po’ troppo giovane.
C’erano pochi avventori quel pomeriggio alla Casa degli Scapoli. Erano soprattutto maschi, elfi e gnomi, ma c’erano anche un paio di femmine. Molti sguardi si girarono verso di loro, alcuni incerti o vagamente spaventati, ma la maggior parte degli avventori si limitò ad un cenno di saluto.
Una ragazza elfa era salita in piedi su una sedia e stava tenendo banco. Daren riconobbe la ranger che era scesa nel sottosuolo per salvare Filvendor.
“E quindi, capite, io e Nelaeryn non potremo più venire alla Casa degli Scapoli.” Stava dicendo, in tono un po’ ubriaco. “O dovremo farlo uno alla volta!” Questo suggerimento scatenò un coro di risate cordiali.
Gli elfi intorno a lei, che dovevano essere suoi amici, alzarono i calici per congratularsi. Anche la donna alzò il suo - per la verità era un boccale a misura di nano - e metà del contenuto le si rovesciò addosso.
“Pensavo che gli elfi facessero festa in modo un po’ più… più…”
“Pilindiel è un po’ rozza.” Ammise Johel. “Ma è strano per un’elfa, quindi fa parte del suo fascino!”
“Ha sempre avuto due mani?”
Johel gli diede una gomitata nelle costole.
“Certo! Era rimasta ferita durante il combattimento, ma adesso i chierici l’hanno sistemata. Non essere scortese.”
“Regole, sempre regole.” Il drow sospirò con mestizia, massaggiandosi la botta. “Stai diventando come tuo padre.”

Johel e Daren presero posto ad un tavolo un po’ defilato, e dopo pochi secondi la cameriera elfa si avvicinò a loro.
“Buonasera. Io sono Amaryll. Sarò la vostra cameriera per stasera. E… volevo scusarmi per oggi pomeriggio.” Aggiunse, abbassando gli occhi. “Per aver gridato in quel modo. Avrei dovuto capire che… ogni persona invitata in città è una persona degna. Non ho scuse, ma è stato più forte di me.”
Il drow capì che Johel doveva averci azzeccato: la ragazza era la madre della piccola peste. Il bambino l’aveva individuata e ora stava barcollando nella sua direzione, tendendo le braccine in avanti.
“Io sono Daren. Non è necessario che ti scusi, Amaryll. È normale essere apprensivi vedendo il proprio figlio vicino ad un drow.”
L’elfa arrossì leggermente e non rispose, ma il tono tranquillo di Daren non rivelava alcun tipo di rancore.
“Specialmente il primo figlio.”
“Cosa? Come sai che è il primo?” Domandò, stupita.
“Lo so perché sei molto giovane, e perché…” mise una mano contro lo spigolo della sedia, con il palmo rivolto verso l’esterno “non ti viene ancora automatico fare questo.”
Questo cosa?” Rimase a guardarlo perplessa, con il blocchetto degli appunti in una mano e un carboncino fermo a mezz’aria nell’altra.
Il suo prezioso pargolo un momento dopo si appese alla sua tunica, tutto contento di aver raggiunto la madre. Quell’appiglio però non era stabile come pensava, e cadde in avanti. La sua presa sul tessuto gli impedì di rovinare a terra, ma causò un effetto altalena che lo avrebbe portato a sbattere la testa contro lo spigolo della sedia. Invece sbatté contro il palmo della mano di Daren, limitando il danno.
“Oh… oh, no, Navar! Per tutti gli dèi, non riesci a stare buono per cinque minuti?” Si chinò e raccolse il cucciolo ancora scombussolato, tenendolo con un braccio mentre con la mano reggeva il blocchetto di fogli e con l’altra provava a scriverci sopra. Navar vide il carboncino e decise che doveva averlo.
“Non darti pena per le ordinazioni.” Le propose Johel, che aveva pietà di lei. “Vado io a parlare con il signor Tippet al bancone.”
Amaryll rivolse ad entrambi uno sguardo di profonda gratitudine e annuì. Aveva gli occhi un po’ lucidi e l’aria stanca, anzi, sfinita.
Si allontanò verso una porticina secondaria, forse per portare il figlio in qualche altro posto, ma Johel notò che prima di arrivarci molti altri avventori la chiamarono in disparte per farle qualche discreta domanda. Probabilmente sul loro ospite così inusuale. Le loro voci non arrivarono fin lì, ma Daren aveva un’espressione mezza divertita e mezza rassegnata, come se sapesse cosa stava accadendo alle sue spalle.
“Sedie tonde, Johel.” Disse invece, in tono serio. “Sedie tonde. Sono il futuro, te lo dico io.”

C’erano delle stanze alla Casa degli Scapoli, per gli avventori che volevano prolungare la vacanza dalla famiglia per tutta la notte. Daren prese alloggio in uno stanzino pensato per ospitare un elfo; anziché un letto, conteneva una comoda poltrona per la reverie. Era all’ultimo piano, nel sottotetto, perché gli gnomi preferiscono invece restare a contatto con la terra.
In una credenza c’erano alcune boccette che contenevano rimedi per la sbornia, ma Daren era ben lungi dall’essere ubriaco. Il mattino dopo doveva incontrarsi con il capoclan e con Mastro Wilhik, lo gnomo che l’avrebbe accompagnato nelle sue esplorazioni nei cunicoli sotto la foresta. Dovevano decidere gli ultimi dettagli, e poi mettersi in cammino nuovamente verso nord. Johel non l’avrebbe seguito nelle gallerie; il sottosuolo non è posto per un elfo. La razza dei drow aveva impiegato secoli per adattarsi completamente a quella vita. Però l'amico sarebbe rimasto nella zona nord della foresta per le sue regolari perlustrazioni da ranger, e quindi ogni tanto si sarebbero visti. Era previsto che Daren e Wilhik riemergessero a intervalli regolari per fare rapporto… inoltre lo gnomo era una creatura di Superficie, non sarebbe riuscito a rimanere sotto terra per più di qualche giorno.
Questa è una seccatura. Pensò fra sé e sé, infastidito perché quei pensieri gli impedivano di scivolare nella reverie. Non amava ammetterlo, ma era preoccupato. Avrebbe dovuto esplorare zone sconosciute, in compagnia di qualcuno che sapeva a malapena difendersi. Inoltre, esplorare i cunicoli profondi avrebbe richiesto più di qualche giorno. Non sapeva se sarebbe riuscito a collaborare fruttuosamente con il mago.
Alla fine, decise che non avrebbe trovato pace in quella piccola stanza, quindi aprì la finestra e ne uscì, arrampicandosi fino al tetto.

La locanda sorgeva ai piedi di un grande albero, ma non grande quanto gli altri che aveva intorno. Non abbastanza grande da reggere un’abitazione elfica. Ad ogni modo la sua chioma era abbastanza maestosa da coprire il cielo, e come quasi ovunque nella foresta, nemmeno dal tetto della Casa degli Scapoli si vedevano le stelle.
Daren non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma gli piacevano le stelle. La loro luce tenue non lo infastidiva, ed era affascinato dal loro lento movimento. Più del sole e della luna, davano l’impressione che ci fosse molto altro oltre a quella vita, a quel mondo sconfinato su cui camminava. La vita a Menzoberranzan era molto diversa, molto più limitata. Forse le piccole questioni meschine di ogni giorno erano così importanti, prima, perché non aveva idea di quanto fosse vasto l’universo. Forse la mancanza del cielo stellato era uno dei motivi per cui i drow erano così tanto focalizzati sulle loro vite, sulla posizione sociale e sul loro piccolissimo mondo. Perfino i teletrasporti funzionavano male, nel Buio Profondo. Era come se tutto quanto cospirasse per fare di quel luogo una prigione, anche per la mente.
Tuttavia non c’erano stelle da ammirare, quella notte, solo alberi.
Anche questa è una casa. Realizzò, grazie a un’illuminazione improvvisa. Anche questa è una volta, solo diversa da quelle di pietra che si vedono nel Buio Profondo. È un tetto di foglie, perché mi trovo… nella loro casa.
Forse questa sera è un bene non vedere le stelle. Ho bisogno di rimanere concentrato sul qui-e-ora. Mi hanno lasciato entrare nella loro città sacra, e in cambio devo soltanto fare bene il mio lavoro. Dopotutto è per questo che sono sceso sotto terra in primo luogo: questa è la foresta del mio migliore amico, la sua famiglia. L’idea che ci fosse un simile pericolo proprio sotto i loro piedi…
Non era solo per Filvendor. Era soprattutto per scoprire cosa stesse succedendo, era per Johel. Adesso avrò l’opportunità di indagare a fondo, e proprio dietro richiesta degli elfi. Non poteva andare meglio di così.

Daren sospirò, alzandosi dalla sua posizione sdraiata. Rimase un attimo seduto sul tetto, ponderando le sue prossime mosse. Non sapeva quanto mancasse all’alba, la foresta era troppo fitta per vedere se il cielo si stesse schiarendo ad est (e per dirla tutta non aveva idea di dove fosse l’est). Forse sarebbe stato meglio tornare in camera e basta.
In quel momento avvertì un lievissimo rumore alle sue spalle. Avrebbe potuto essere il vento tra le fronde, o un uccello che si posava su un ramo. La Superficie era sempre così piena di rumore, anche di notte. Il suo istinto di guerriero però gli disse di voltarsi.
Dietro di lui, sul tetto della locanda, c’era un elfo.
All’inizio Daren pensò che fosse uno dei ranger che lo tenevano discretamente d’occhio. Non avrebbe dovuto sapere che c’erano, ma ovviamente se li aspettava e li aveva anche intravisti, prima della riunione con i capiclan.
Poi però l’elfo si avvicinò, e nel poco chiarore emanato dalle sue lucine fluttuanti Daren riconobbe i suoi lineamenti.
Era quasi un’altra persona rispetto a pochi giorni prima, ma era Filvendor.

Rimasero fermi a fissarsi in perfetto silenzio per alcuni secondi, l’elfo chiaro e l'elfo scuro, come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
Filvendor fu il primo a riemergere da quella strana immobilità; girò intorno a Daren come se avesse paura di lui, e andò a sedersi a circa un metro di distanza, alla sua sinistra.
“Dovevo parlarti.” Prese la parola, infine, rompendo il silenzio.
Il drow scosse la testa, con un sorriso mesto.
“E chi ti ha obbligato a venire a parlarmi?”
L’elfo dei boschi esitò solo un attimo. “Nessuno mi ha obbligato, ma te lo dovevo.”
Daren odiava quell’espressione. Te lo dovevo. Nella sua idea, un’azione volontaria non implicava debiti, e lui era andato volontariamente a cercare l’elfo rapito.
“Non devi parlarmi per forza. Non devi vedermi per forza. Il tuo senso del dovere è… segno di grande cortesia, ma è mal riposto.” Tacque un momento, perché non voleva dire chiaramente So che vedermi ti mette a disagio, quindi decise di dirlo con altre parole. “Farò in modo di stare lontano dal territorio del tuo clan, per quanto possibile.”
“Non ha importanza. Io non vivrò più lì. Sono in partenza per… un luogo sicuro.”
Oh, è vero. Evermeet, ricordò Daren. L’ex-capoclan, quello che lo detestava, aveva asserito di voler andare a Evermeet con Filvendor.
Ad ogni modo non rivelò che lo sapeva ma si limitò ad annuire.
“Questa foresta… è la casa che io ho sempre amato. Mi ha dato tanta gioia e io le ho dato il mio cuore e la mia vita. Ma adesso mi riporta alla mente solo brutti ricordi, e una costante sensazione di pericolo. Però… non è colpa della foresta. È tutto nella mia mente. Questo disagio che provo, è… è… incontrollabile.”
“Lo capisco.” Il drow chinò la testa in segno di accettazione, perché aveva colto il messaggio fra le righe. Filvendor provava sentimenti simili anche verso di lui, tollerava a stento di stare in sua compagnia, era chiaramente sulle spine. Però era anche ben consapevole che non era colpa sua. Infatti, poco dopo riprese.
“Per questo sono venuto a parlarti. Per scusarmi. Non è giusto. Quello che provo… per te… non è giusto. Tu mi hai salvato la vita, eppure non riesco neanche a guardarti.”
“Hai tutto il diritto di sentirti così, invece.” Lo contraddisse Daren, in tono pacato ma con grande convinzione. “Lo sanno gli dèi cosa hai passato in questi mesi. Io so benissimo che non hai niente di personale contro di me, quindi non sono offeso dal tuo… disagio. Non hai nessun dovere di parlarmi o di scusarti. Se stare qui ti fa sentire in pericolo, allora vai per la tua strada, perché non voglio spaventare nessuno.”
Filvendor abbassò gli occhi, guardandosi con ostinazione i piedi.
“...non è giusto comunque.” Mormorò, cocciutamente.
Nemmeno quello che ti è successo è giusto. Obiettò l'elfo scuro, ma solo nella sua mente.
“Perché ti preoccupi così tanto di quello che è giusto o sbagliato in senso assoluto? Le persone non sono assoluti. I sentimenti non hanno niente a che fare con la giustizia.” Il drow rifletté su quello che stava per dire, perché non aveva una gran voglia di inoltrarsi in quel discorso, ma questa era di certo l’ultima volta in cui lui e Filvendor si sarebbero rivolti la parola. “Sai, ci sono individui che ci tengono a rimarcare di essere brave persone. Come se le parole fossero qualcosa più che vento. In verità, solo le azioni possono rivelare qualcosa sulle intenzioni della gente. Quindi che cosa ti dovrei dire? A volte capita di incontrare una vittima, come sei tu ora.”
“Sono una vittima?”
“So che non è bello sentirselo dire, ma non ha senso negare la realtà. Adesso sei una vittima, almeno finché non sarai guarito nella mente e nello spirito. E non è strano che chi ha subito grandi traumi non riesca ad approcciare in modo normale chiunque gli ricordi i suoi carnefici. Le nostre razze sono nemiche da millenni, ma è una cosa che succede anche in altri casi. Ogni schiavo prova questi sentimenti verso i suoi carcerieri e chiunque glieli ricordi. Ora io mi trovo davanti una vittima della crudeltà del mio popolo, e ho due strade davanti a me: posso riconoscere il tuo dolore e la validità dei tuoi sentimenti, lasciarti in pace mentre gestisci il tuo percorso di guarigione, e fare del mio meglio perché simili tragedie non accadano ad altre persone. Che è tutto quello che ho intenzione di fare a partire da domattina.” Chiarì, tanto per essere esplicito. “Oppure posso recriminare che io personalmente non ti ho fatto del male e che, trattandomi come un criminale, tu, che sei appena uscito dall'inferno, mi stai discriminando e stai urtando i miei sentimenti.” Be’, non lo farei comunque, perché vorrebbe dire ammettere di avere dei sentimenti, pensò in tono scherzoso. Ma Filvendor non era abituato al suo tetro umorismo drow, quindi continuò con la sua linea di pensiero. “Peccato che se assumessi un simile atteggiamento mi verrebbe voglia di prendermi a calci nelle palle da solo. Chi si comporta così nel migliore dei casi è soltanto puerile, nel peggiore dei casi ha un interesse personale e malizioso. Sono un drow, non mi aspetto l'amicizia di un elfo, la tua avversione per me non mi fa né caldo né freddo.”
Il ranger rimase in silenzio a riflettere per un lungo momento, ma quando parlò di nuovo nella sua voce c’era una punta di antico orgoglio.
“Tu mi compatisci.”
“Certo che sì.” Ammise il drow, apertamente e tranquillamente. “Ti rispetto profondamente per la forza che hai dimostrato; qualunque cosa volessero da te, sei riuscito a non dargliela e questo è stato veramente eroico. Però ti compatisco anche, perché conosco la crudeltà del mio popolo. Preferirei morire piuttosto che subire quello che è stato fatto a te. Se le mie parole ti danno fastidio, cerca di guarire la tua anima, allora smetterò di provare compassione perché sarai tornato in te. E se mai ci rivedremo, quel giorno ti dirò…” Filvendor alzò lo sguardo su di lui, e nei suoi occhi Daren lesse più curiosità che rifiuto “...che la tua opinione comunque non mi fa né caldo né freddo.”
Quest’ultima rivendicazione arrogante riuscì davvero a strappare un sorrisetto all’elfo sfortunato.
“Sono già in via di guarigione.” Assicurò, in tono serio. “Mi è rimasta questa irrazionale paura, sono rimasti gli incubi… ma sto già molto meglio, meglio di quanto avrei sperato, e ricominciare da zero in un posto nuovo mi aiuterà a tornare alla vita.”
Daren non sapeva che intendesse farlo insieme alla sua famiglia morta, altrimenti avrebbe colto una certa ironia nella situazione.
“Buon per te.” Disse invece, accennando un saluto con il capo. “Dunque addio, Filvendor del clan Gysseghymn. Le nostre strade si separano, e come dite voialtri… possa il tuo cammino essere verde e dorato.”
L’elfo dei boschi non riuscì a nascondere un’espressione di stupore.
“Ti ha insegnato il tuo amico Johlariel?”
“Mi ha insegnato tutto quello che ora so sulla vostra cultura.” Ammise con una scrollata di spalle. Comprese alcune cose che secondo me sono baggianate che si è inventato di sana pianta, come quella regola sui bambini piccoli.
“Allora questo dev’essere suo, vero?” Domandò Filvendor, estraendo da un fodero il pugnale magico che Daren gli aveva dato giù nelle caverne, quello capace di emettere luce con una semplice parola magica in elfico.
“Sì. No. È mio. Johel me l’ha tirato in testa più di trent’anni fa, il pomello mi ha colpito proprio qui.” Si massaggiò la sommità del capo, come se avesse ancora il bernoccolo. “Ho deciso di tenermelo, perché gli servisse da lezione per la sua pessima mira.”
Il ranger lo guardò stranito per un momento, incapace di stabilire se parlasse sul serio o per scherzo.
“Non… certamente non voleva ucciderti, ti avrà colpito con il pomello di proposito.”
“Sì, è la stessa scusa che ha usato lui. Voi elfi non avete fantasia.”
In condizioni normali Filvendor avrebbe riso, ma non ci riusciva davanti ad un drow. Però riconobbe il desiderio di farlo, e questo gli sembrò un buon segno.
“Lo affiderò a Johlariel, allora. Domattina, prima di partire.” Promise con aria solenne.
Daren annuì, approvando quell’idea. Erano anni che pensava di restituirlo, ma farlo avrebbe significato ammettere con Johel che lui sapeva che l’elfo non aveva cercato davvero di ucciderlo, e quindi sarebbe stato come confessare che già all’epoca era consapevole che c’erano le basi per sviluppare la loro amicizia. Questa era una cosa che Daren si era sempre ostinatamente rifiutato di ammettere, e ora Filvendor gli stava offrendo una buona scappatoia.
Sì, la sua amicizia con Johel era quantomeno complicata. L’amicizia di un drow non può mai essere semplice.
“Ottima idea, tanto io non ho il permesso di portare armi a Myth Dyraalis.”

La mattina dopo, due gruppetti di persone lasciarono la città in direzioni opposte.
Daren, Johel, Valni Wilhik, Tazandil e alcuni altri ranger oltrepassarono la Porta delle Spade, diretti a nord.
Filvendor e lord Llaemryl uscirono dalla città dalla Porta dell’Acqua, a sud.
Dopo poche miglia di cammino, Visne e Mavael si unirono a loro. I due spiriti non avevano osato entrare nella città protetta, perché sapevano che le scelte della loro famiglia non sarebbero state approvate dagli altri elfi. Lord Llaemryl invece non ebbe il cuore di muovere obiezioni. Filvendor e i suoi sfortunati parenti erano elfi del suo clan, e lui li sentiva particolarmente vicini. Non era stato in grado di proteggerli in precedenza, non aveva potuto impedire che la donna e il bambino morissero avvelenati e non era riuscito nemmeno a trovare il ranger quando era stato rapito. In seguito non aveva preso parte al salvataggio, cosa che ancora gli bruciava. Era un capoclan, ma era stato ignorato con la scusa dell’emergenza. E adesso, oh, adesso non avrebbe potuto proteggere più nessuno. Aveva abbandonato il suo clan, e nonostante tutto non rimpiangeva quella decisione. I tempi stavano cambiando, e troppo in fretta per un vecchio elfo come lui. Sentiva di non essere più la persona giusta per guidare il clan Gysseghymn verso il futuro, un domani incerto che forse avrebbe richiesto di rivedere molte delle loro convinzioni e consuetudini.
Però avrebbe protetto e aiutato Filvendor e la sua famiglia, per quanto poteva. A cominciare dal rispettare le loro scelte e il loro segreto, anche ad Evermeet.
Prima di sera raggiunsero un avamposto di ranger del clan Arnavel a sud della città, e si fermarono presso di loro per passare la notte in sicurezza. Entro poche miglia sarebbero entrati nel territorio del terzo clan elfico della foresta, che pattugliava la regione meridionale. Da lì fino al mare era una lunga strada, ma non l’avrebbero percorsa a piedi. Il primo villaggio del clan Teasen'aear sorgeva lungo un piccolo fiume, nel primo tratto in cui esso diventava navigabile. Quegli elfi erano famosi per la loro capacità costruire canoe eleganti e resistenti, adatte a cavalcare i capricciosi corsi d’acqua della foresta. In pochi giorni il gruppetto avrebbe raggiunto la strada che separava orizzontalmente la Foresta di Mir, come la chiamavano gli umani, dalla Palude dei Ragni. Prendendo la strada in direzione est, la città portuale di Almraiven non era molto distante. Era il porto più importante della regione e gli elfi avrebbero sicuramente trovato un passaggio verso il grande oceano ad occidente.
Certo, non sarebbero giunti ad Evermeet su una nave calishita; ma sulla Costa della Spada era più probabile trovare qualcuno dei rari mercanti che avevano ottenuto un permesso speciale commerciare con l’isola elfica. O magari addirittura una nave di elfi. Altrimenti, avrebbero dovuto cercare qualche Portale magico che conducesse direttamente ad Evermeet. Forse ce n’era uno nella favoleggiata città di Evereska, nel nord. Così dicevano le leggende.
Ad ogni modo, a nessun elfo di Superficie era precluso l’accesso ad Evermeet. Prima o poi anche quei quattro esuli avrebbero trovato il loro porto sicuro. La loro nuova casa.

           

   
 
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