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Autore: swimmila    12/10/2018    6 recensioni
Bui, saranno i tempi.
In cui un assassino fallirà il suo lavoro. Quando lo sguardo servile scuoterà le viscere del suo signore e un’ancella gli giulebberà ostinata il piloro.
Bui, saranno quei tempi. In cui una moglie si sfila da sola il marito dal dito.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Una cosa inaudita      

Il Generale sorrideva, dissimulando nella piega benevola delle labbra il turbamento che lo attanagliava. Oscar, ritrovata la sua silenziosa compostezza, si attardava al fianco del padre, restia ad uscire da quella stanza tappezzata di una prognosi rosea. Come se al di fuori, negli antri del palazzo, la attendessero le brume appiccicose dell’incertezza. Come se la certezza, lì fuori, avesse il volto della tragedia.

E poi, erano rari i momenti in cui i toni del Generale apparivano così rilassati, quasi stessero discorrendo di leziose vacuità. Nessuno, osservandoli senza udirli, avrebbe indovinato dalla distensione dei loro visi che le parole, invece, si attardavano attorno ad intenti assassini. Che pur tale rimaneva, quel gaglioffo incapace di uccidere un uomo a distanza ravvicinata. Pur criminale restava, una libera scelta in un’augusta prigione.

Giurava vendetta, Oscar, assicurandogli che avrebbe braccato il suo attentatore fino a fargli rimpiangere il suo imperdonabile ardire. Il Generale rispondeva affossando il suo fervore nell’incrollabile intento di saperla maritata e in un’alcova sicura. Della sua vita non gli importava, che ormai da un pezzo aveva superato la cima della gibba. Oscar, invece, era troppo giovane per scivolare giù dal crinale. Avrebbe voluto abbandonarsi a malinconiche nostalgie, quell’uomo scosso dal boato della paura. Cullarsi nel ricordo vibrante dell’eco sicura dei suoi tacchi graduati sul sontuoso impiantito di marmo venato; della rassicurante familiarità di tortuosi corridoi, dello scintillio affrescato di dorati salotti; del suono di un minuetto di Lully strimpellato incerto su un clavicembalo annoiato; del mormorio incessante del gioco perpetuo di pettegole fontane; della variopinta vividezza delle aiuole svelata da un sole spigoloso come le geometrie dei giardini. Ma indole e urgenza spazzarono incertezza e indugi da voce e pensieri: questo matrimonio il Generale doveva combinarlo al più presto. Che la Francia non era più la stessa.

Oscar non voleva contraddire suo padre, cagionandogli turbamenti non raccomandabili nel suo stato di salute. Asseriva convinto che non era lui l’obiettivo da colpire. Rideva leggero sorvolando su un episodio di gravità inaudita. Dal letto convalescente pensava al matrimonio della figlia, piuttosto che alle sue ferite. Avrebbe scomodato le Erinni per lui, quella figlia guerriera. Si accontentava di un’ara sacra e di un abito bianco, il padre stratega. Alla fine Oscar capì che il silenzio si sarebbe dimostrato più resiliente di qualunque diversiva esternazione. E tacque. Sull’inedita dolcezza del sorriso del Generale; sul suo sguardo errante in uno scorcio sponsale. Scese un oblio armato sul suo cuore di donna. Pianse nell’anima il suo amore sciupato da un tempo sbagliato.

Assorti ognuno nella propria disperazione, non si accorsero dell’arrivo di André. Oscar volgeva le spalle alla porta della stanza e il passo di André sapeva essere impercettibile sul pavimento. Un tocco leggiadro con cui avanzava, invisibile, senza che nessuno se ne accorgesse. Per poi d’improvviso ritrovarselo nel cuore, nelle vene, nella testa, nelle lacrime.

“Domani sera ci sarà quel ballo di cui ti ho parlato. Voglio che tu vi prenda parte.” Stava dicendo il Generale.

Sostava sotto l’uscio, fermo di morte vivente. Il vassoio in mano, la tisana fumante.

“Certo.” Assentì Oscar.

Gli implose dentro il petto, il cuore straziato da quella risposta bruciante.

André avrebbe voluto gettare per terra in un renitente fragore la porcellana di Sèvres in cui Marie aveva versato la sua obbedienza. Invece avanzò nella stanza, facendo tintinnare lievemente il coperchio della teiera. Depose tutto sul ripiano del mobile di legno lucido, sotto il quadro dai colori pastello che interrompeva l’azzurro della parete. Mentre i suoi gesti esplodevano di calma rabbiosa. Mentre i suoi pensieri articolavano epiteti irriguardosi. Che non gli sarebbe mai stato possibile opporsi con le parole a quell’idea balzana. Neanche Oscar aveva osato. Raccolse i cocci, dentro di sé, e si apprestò a fuggire da quella camera urente.

Il richiamo del Generale lo costrinse a voltarsi. Lo obbligò a sorridere. Gli piegò la voce in un risvolto di arrendevole subordinazione.

“André, devi assolutamente accompagnarla al ballo che sarà dato in suo onore, domani. Tutti i nobili di Versailles dovranno ammirare la nostra bellissima Madamigella Oscar”.

Suo padre si era sollevato sui cuscini, puntellando sui gomiti e sulle gambe l’impeto del suo ordine. Oscar non si era accorta della presenza di André. Lo aveva sentito nella voce del Generale. Lo aveva visto brillare negli occhi del padre. Si voltò di scatto, di nuovo col cuore a un galoppo furioso. E la vide, a pochi passi da lei. La distanza infinita che li separava. Sentì espandersi nel cuore uno sconfinato amore per l’uomo che il padre voleva l’accompagnasse a scegliersi il marito.

André la guardava. Per un attimo il suo occhio si dilatò in un guizzo. S’incontrarono nel dolore. Si rincorsero nel cuore. Si strozzarono di inebetite parole.

Lo vide morire, in quel bagliore disperato e composto. Si sentì mancare, nel suo cuore di moglie persino a lui nascosto. Che quel sentimento l’aveva sorpresa come pioggia al risveglio. Non gli aveva ancora trovato di che parole vestirlo. Era solo rimasta ad ascoltare, arresa, il suo discreto bisbiglio.

Una contrazione nella mascella. Un lampo negli occhi. Poi la resa obbediente. Il suo cuore avvezzo a vivere di niente. Nella voce una nota stanca, di sofferenza trita, di malinconia profonda, di assuefazione ribelle a un intimo dolore.

“Agli ordini, signore”.

Mentre si calava nei costumi nel suo rituale a tutti nascosto.

§§§§§§

Il valletto richiuse l’uscio sulla camera e sulle lacrime che incontenibili solcavano il volto del padrone.

Il Generale Jarjayes appariva minato nella sua determinazione, sfibrato nella sua energia, piegato nella volontà. Allungò una mano sul comodino accanto al letto, alla ricerca della sua tabacchiera. Iniziò il suo rituale. Accarezzò il legno laccato di rosso inciso con lo stemma del suo casato. Aprì lento il coperchio come su un disvelante segreto. Con mano tremante caricò la pipa in schiuma; pressò esperto il tabacco; tirò dalla cannella nivea; ne fu soddisfatto. Tirò ancora con ansia. Si calmò nella testa agitata. Le ferite si indignarono per tutta l’operazione di caricamento. Se lo sentiva addosso come una mignatta da salasso quel dannato buono a nulla che non sapeva uccidere ad un palmo di distanza, ch’eppure si arrogava la presunzione di manovrare le armi della ribellione.

Marguerite era già tornata a Versailles. Era giunta a palazzo Jarjayes a notte fonda. Il Generale dormiva già sulla sua inaudita giornata. Al risveglio, quella mattina, aveva trovato un premuroso biglietto con cui la consorte lo informava di averlo vegliato quasi tutta la notte. Poi, continuava nella vergatura, dopo un breve riposo era tornata ad intrattenere gli umori della sovrana, l’animo rinfrancato dalle sue non gravi condizioni. Sarebbe tornata a palazzo Jarjayes non appena i suoi impegni glielo avessero consentito, assicurava con la sua minuta e nervosa grafia, incaricando frattanto un corriere di tenerla quotidianamente al corrente sul suo stato di salute. Infine, gli lasciava un bacio e un paio di libri per scacciare la noia della convalescenza. Per rialzarsi dal suo stato ozioso come un Don Chisciotte della Francia.

Sul comodino lastronato in legno di palissandro intarsiato la tisana lasciata dal servitore aveva smesso di alitare aulenti sospiri. Con nuova irritazione delle sue ferite, il Generale si protese a prendere la tazza. Il fumo gli aveva seccato la gola. Il pianto gli aveva infiammato i polmoni. Gli avvenimenti delle ultime ore gli avevano incenerito lo spirito. Sorbì con raffinata bramosia il liquido ambrato, odoroso di more, maculato di malva. Quasi si strozzò nel trattenersi dallo sputarlo con disgustata violenza, che quella brodaglia era un imbevibile giulebbe. Quante volte doveva ricordarlo, a Marie, che tutto quello zucchero lui non lo voleva! Che tutto quello zucchero costava un sogno nella testa. E in quella Francia che correva, la testa pencolava e il sogno svaniva.

Oscar, gli era appena stato riportato, si era presentata in uniforme al ballo organizzato in suo onore. Aveva disatteso davanti a tutti un ordine di suo padre. Aveva imposto la sua volontà in aperta sfida con quella del Generale Jarjayes. Una cosa inaudita. Quasi quanto il suo starsene ferito nel letto a grondare un pianto sottomesso. Che non c’era altra definizione per quel suo giacere lì come un vigliacco accidioso invece di precipitarsi giù in salotto ad attendere quella figlia sventata. Che non c’era ragione alcuna per tremare al ricordo fremente del lampo che per un attimo aveva visto brillare nello sguardo di André. Non fu un brivido ad attraversagli la schiena. Ma il sussulto improvviso con cui Oscar si era voltata a guardarlo, quell’uomo tranquillo dagli occhi infuocati. Quell’uomo a cui, in un silenzio assordante, aveva detto qualcosa. Si era sentito rintronare, il Generale, in quel vuoto di parole. Per poi affrettarsi a darsi dello stupido, dopo quel sissignore.

Dello stupido. Sissignore. Qualche giorno prima, nel suo studio, Oscar gli aveva confessato in un soffio profumato di rosa che il suo cuore di donna si era innamorato. Lo aveva spiazzato, figlia imprevedibile, con quell’inattesa confessione; ma il Generale non aveva ritenuto necessario chiederle chi fosse quell’uomo. Che le regole del lignaggio sua figlia le conosceva bene. La sua uniforme, al ballo di questa sera, era solo apparente insubordinazione in un granitico senso del dovere. Senza dubbio eccezionale doveva essere l’uomo che era riuscito ad arrivare al cuore di sua figlia. Forse un impedimento lo aveva tenuto lontano dal ballo, questa sera. Forse per questo. Forse, Oscar. In quell’uniforme.
Un tremolio piegò la scia lineare del fumo della pipa in un mostro gibboso. La mano del Generale traballava di ferma illusione. Posò sul comodino la tazza con la stucchevole tisana quasi intatta e nel frettoloso impatto qualche goccia traboccò dal bordo per bagnare la carta profumata con cui Marguerite aveva preso congedo dalle sue coniugali apprensioni.

Mala tempora.

Negli occhi della mente gli balenò improvviso il lampo assatanato di un folle. Il barbaglio disperato di una follia.

Mala tempora currunt.
   
 
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