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Autore: NPC_Stories    16/10/2018    2 recensioni
“Holly... come si dice in elfico?”
Holly sollevò un angolo della bocca in un lievissimo sorriso. Era quasi invisibile, ma era il primo sorriso sincero che vedevo da quando era morto.
“L'amicizia non genera debiti” si corresse, recitando la frase che gli avevamo attribuito nel corso della cerimonia in cui lo avevamo nominato Amico degli Elfi. Ogni Ruathar ha una sua frase personale in lingua elfica, intrisa di una nota magica che lo identifica infallibilmente come Ruathar davanti a qualunque elfo.

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[Jolly Adventures, capitolo L'altra mia tomba è sempre un albero (Parte 3)]
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Quando Johel ha portato il suo strano amico (all'epoca vivo e vegeto) a conoscere la sua famiglia, inizialmente non è andata molto bene.
Questa non è la storia di come è cominciata, ma è la storia di come la più improbabile delle creature è diventata un Ruathar, aiutando un elfo che era stato rapito e preso prigioniero. È una storia di gesta eroiche, manipolazioni a fin di bene, gente morta e sensi di colpa, ma anche di amicizia e rapporti familiari, insomma come tutte le loro storie.
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Warning: più avanti si parla di tortura, sesso e violenza non descrittivi; si sconsiglia la lettura ad un pubblico troppo giovane.
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1289 DR: Il loro amico (Parte 2)


Ogni lavoro prima o poi ha una fine, e dopo due anni e quattro mesi di esplorazioni, misurazioni, mappature e crisi isteriche, finalmente Wilhik dichiarò che quel lavoro era finito.
Daren aspettava quel momento con un misto di anticipazione e di ansia. Era contento che quella che lui giudicava la parte noiosa del lavoro fosse terminata, e per il bene della foresta era ansioso di passare alla fase successiva. Se doveva soffermarsi sui suoi sentimenti e timori, però, scopriva di non essere poi così ansioso. In quei due anni aveva avuto poche occasioni di legare con gli elfi di Sarenestar, ma talvolta lui e lo gnomo avevano passato dei brevi periodi in Superficie, e in quei giorni era sempre stato ben accolto ovunque andasse. Aveva iniziato a considerare gli elfi dei boschi una presenza positiva - e non troppo invadente - nella sua vita quasi solitaria, e ora comprendeva un po’ meglio la loro cultura. Quello era stato un bel lavoro, dopotutto; lo aveva posto all'interno della foresta pur non essendolo, consentendogli di lavorare per gli elfi e di farli abituare alla sua presenza ma senza essere costantemente sotto i loro occhi, e allo stesso tempo aveva potuto evitare le situazioni sociali troppo intime (come quando Pilindiel e Nelaeryn l’avevano invitato al loro matrimonio) con la scusa che aveva preso un impegno e ora doveva lavorare. Era un buon compromesso, un punto di transizione fra la freddezza con cui l’avevano accolto all'inizio e l’amicizia invadente che riservavano gli uni agli altri.
Adesso però avrebbe dovuto andarsene, cambiare completamente ambiente, inserirsi con un’identità fasulla in mezzo ai suoi simili, e solo gli dèi sapevano cosa avrebbe dovuto dire o fare per conquistare la loro fiducia e scoprire l’entità della minaccia.
Il futuro lo preoccupava. Non è esatto dire che lo spaventasse, non aveva paura per se stesso o per la sua sopravvivenza, ma il piano lo preoccupava perché temeva di… non lo sapeva. Temeva tante cose. Empatizzare troppo? Regredire? Il guerriero scosse la testa, impegolato in quei pensieri che sembravano un labirinto di strade chiuse.

Daren ricordava perfettamente cosa volesse dire essere un drow; lo era stato per un secolo e mezzo, anzi, lo era ancora. Non aveva mai smesso di considerarsi un drow e non aveva mai rinnegato nel suo cuore le cose che aveva fatto, la persona che era stato.
Certo, era facile pensarla così. Non aveva mai avuto occasione di far del male a persone buone. Era un soldato semplice, aveva soltanto protetto i suoi padroni, ucciso altri drow, e nemmeno tanto spesso. Talvolta aveva scelto volontariamente di uccidere, per vendetta o perfino per capriccio. Era cresciuto in una società basata su paura, invidia, rancore, desiderio di potere… anche se in fin dei conti qualsiasi sentimento nasceva dal primo e onnipresente, la paura. Daren era stato giovane, ma mai stupido; nei suoi primi decenni di vita era una semplice guardia di palazzo e non aveva mai desiderato ascendere ad un rango troppo elevato. Sapeva che un grande potere non sempre rappresenta una maggiore possibilità di sopravvivenza, al contrario. Molti altri invece lo pensavano. Chissà, magari loro partivano da una condizione migliore, magari avevano alle spalle una famiglia o degli alleati che li aiutassero a conquistare o mantenere una posizione, ma Daren all'inizio era da solo nella sua corsa verso il futuro e quindi era stato attento a non correre troppo veloce. Però, come tutti i drow di Menzoberranzan, anche lui aveva dovuto trovare un modo per mettere una toppa alla sua paura. Il metodo che aveva trovato era l’assassinio.
Uccidere per capriccio, anziché per ricerca del potere. Essere giudice e boia di qualcuno decidendo chi doveva morire, solo per vendicarsi di un piccolo screzio, o nemmeno di quello… gli aveva dato soddisfazione. Lo aveva fatto sentire bene, lo aveva fatto sentire potente e al sicuro. Non lo avrebbero mai scoperto, perché non avrebbe potuto beneficiare di quelle morti, quindi perché sospettare di lui? Un soldato semplice, una nullità? Nessun comune cittadino avrebbe rischiato la vita uccidendo un nobile, o un mago, senza avere in cambio un pagamento o un vantaggio.
Questo pensavano i nobili, ma loro erano sempre troppo concentrati sui loro giochi di potere e invischiati nelle loro ragnatele di inganni, per capire i viscerali sentimenti di odio e di rivalsa dei loro servi, dei loro schiavi.
Se Daren si guardava alle spalle con gli occhi della memoria riusciva a rivedere tutto questo con estrema chiarezza, e non aveva ancora trovato un motivo per pentirsene. Quel mondo non lo aveva solo generato, lo aveva anche plasmato, e aveva meritato quella reazione. Menzoberranzan aveva meritato la sua follia e i suoi omicidi capricciosi, e lui non aveva fatto niente di speciale per gli standard della città.
Quando aveva mosso le armi contro la persona sbagliata, recidendo la vita dell’unico drow che per i suoi criteri non meritava di morire, solo allora aveva capito. La rivelazione gli era piovuta addosso come una secchiata di acqua fredda. Aveva capito quanto fosse tutto sbagliato. Tutto. Lui, la società in cui viveva, il circolo vizioso di dolore che tutti i drow si infliggono a vicenda e riversano anche sugli altri popoli.
Ma nonostante ora comprendesse questa verità, Daren non condannava nulla di ciò che aveva fatto, tranne quell'ultimo omicidio gratuito. Aveva superato i suoi limiti etici, limiti che non sapeva nemmeno di avere: aveva ucciso qualcuno che non lo meritava, in un mondo in cui credeva che tutti lo meritassero.
Be’, non proprio tutti. Aveva avuto un amico, nella città oscura. Un drow come gli altri, con l’eccezione che a Daren non aveva mai fatto torti, e questa era l’unica cosa che gli importasse. Ma all'epoca non immaginava che potesse esistere una seconda persona in tutto il mondo che non meritasse un coltello nella schiena. A quei tempi era giovane e ignorante, tra l’altro: pensava che tutte le società fossero come quella drow, e che ogni persona di qualsiasi razza si sarebbe comportata come un drow. Ai suoi occhi tutto il mondo era composto di nemici.
Adesso conosceva la verità e sapeva che la sua razza era più un’eccezione che la regola.
Adesso conosceva gli elfi di Superficie, ed era convinto che anche quel sé stesso più giovane, se non fosse stato indottrinato dalle menzogne sugli elfi chiari, avrebbe potuto riconoscere che nemmeno loro meritavano il suo odio. Il suo criterio era sempre stato così semplice, animalesco: se non vuoi danneggiarmi, non sei mio nemico. Un basilare dettame di sopravvivenza, seguito da un principio molto più degno di un drow: ma se sei mio nemico, ti farò così tanto male da farti implorare di morire.
Ricordava benissimo tutto questo, era totalmente consapevole di che cosa era stato e perché, e di che cosa aveva scoperto in seguito ampliando i suoi orizzonti; ma ora doveva mettere da parte la persona che era diventato e tornare ad avere a che fare con altri drow.
Il pensiero era… disturbante.
Non aveva più intrattenuto rapporti con altri drow ad eccezione di alcune sacerdotesse di Eilistraee, ma loro erano diverse. I seguaci di Eilistraee volevano vivere in pace sulla Superficie al fianco delle altre razze elfiche, non erano esattamente dei veri drow, anche se alcuni di loro lo erano più degli altri.
In realtà Daren non aveva una definizione esatta di veri drow. Sospettava che l’identità della sua razza fosse soprattutto una cosa di origine sociale, culturale, e non naturale. Dopotutto la sua stessa sorella era cresciuta in mezzo agli umani e lui non riusciva a considerarla una vera drow, era più come un’umana con le orecchie a punta e la pelle nera. Quindi non sapeva bene cosa pensare dei seguaci di Eilistraee. Alcuni di loro, sia le femmine che i maschi, erano nati all'interno di normali società drow, sotto la cappa soffocante del culto di Lolth. E com’erano facilmente distinguibili dagli altri! I “fuoriusciti”, gli “apostati”, avevano quella cosa negli occhi… lo spettro del dolore che si erano lasciati alle spalle. I traumi e gli abusi e le ideologie sbagliate di cui si erano liberati, ma che ogni tanto potevano ancora uscire allo scoperto, in una parola, un atteggiamento del tutto inconsapevole.
La seconda generazione non era così. Gli elfi scuri cresciuti da madri che non li frustavano, educati da maestri che non li picchiavano, avevano uno spirito diverso. Più leggero, più… elfico. Un tempo Daren non aveva una parola per descrivere quella differenza, ma ora sì, e quella parola era elfico. Non avevano mai conosciuto la paura, quella vera, che ti fa dormire con un occhio aperto e ti fa diffidare anche degli amici e dei fratelli. Senza quella paura, non avevano mai sviluppato l’odio, il rancore, la brama per il potere. Erano come ibridi, non del tutto drow, non del tutto non-drow.

E adesso, con questo bagaglio di conoscenze che pesava sulle sue spalle, Daren doveva infiltrarsi in una comunità di drow e scoprire se li odiava o no.
Se li odiava come prima, era un segno del fatto che non era cambiato? O forse li avrebbe odiati per motivi diversi? E li avrebbe davvero odiati, sapendo che probabilmente erano come lui, semplici figli delle conseguenze? Sapendo che se avessero avuto una possibilità, o maggiore fortuna, sarebbero potuti essere elfi?
Daren non lo sapeva, temeva quelle risposte, ma conosceva i suoi doveri.
Forse… poteva mirare a distruggerli anche se non fosse riuscito ad odiarli?
Un tempo Daren era stato un drow del tutto conforme agli stereotipi, malvagio e sadico. Aveva pianificato omicidi con grande pazienza e astuzia, a mente fredda… ma sempre a sangue caldo. Non aveva mai ucciso qualcuno senza odiarlo. Anche quando due anni prima era sceso nelle gallerie per salvare Filvendor, aveva ucciso per autodifesa e per aprirsi una via di fuga, ma non per calcolo.
Era ironico pensare che solo adesso, guidato da questi nuovi valori di bontà e nobiltà d’animo, avrebbe fatto qualcosa di canonicamente malvagio come pianificare la distruzione di qualcuno solo perché era nel posto sbagliato.
No, non devo vedere le cose in questo modo. Noi stiamo preparando una difesa. Vado lì per spiarli, non per distruggerli.
Non accadrà nulla di male se loro non ci attaccheranno per primi.


“Daren? A cosa stai pensando?” Lo chiamò Johel, vedendolo così assorto e taciturno.
Il drow si riscosse dai suoi pensieri tetri.
“Al passato. E al futuro.” Rispose stringatamente. Non voleva parlare con Johel di quelle cose. Non credeva che l’amico avrebbe capito.
“Oh. Non va bene. No, non va affatto bene, sono pensieri che avvelenano la mente. Hai bisogno di vivere il presente, specialmente in questo momento!”
Lo prese per un braccio e lo invitò a seguirlo con uno strattone poco gentile.
“Dove andiamo?”
“Prima di tutto in cucina.” Johel gli fece strada fuori dalla sua camera, dove Daren era ospite, e gli indicò di scendere sul ramo inferiore della casa sull'albero della sua famiglia. “E non atterrare sul tetto come l’ultima volta, è estremamente maleducato.”
“Un giorno capirai che non è normale vivere sugli alberi.” Si difese il drow.
“Sarà normale vivere sottoterra come le talpe. Fatti due domande sul perché siete tutti così bassi.”
“Ehi! Sono alto per la mia razza!” Protestò l’elfo scuro, scendendo lungo il tronco e stando attento a non saltare sul tetto dell’edificio sottostante. Anche se sarebbe stato molto più pratico.
“Sì, è vero. Finalmente posso dire, avendone visti degli altri, che è vero e che è l’unica cosa su cui non hai mai mentito da quando ti conosco.”
“Oh, no! La mia perfetta media, rovinata!” Recitò Daren, mettendosi una mano sul cuore.
Johel rise, e il drow sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto, pensando che una risata così libera e leggera non l’avrebbe mai sentita sulle labbra di un suo simile.
“Perché stiamo andando in cucina?”
“Mia madre ha fatto i biscotti.”
“Va bene, ma perché stiamo andando in cucina?”
Johel lo guardò in modo strano, come se stessero parlando due lingue diverse.
“Come dicevo, devi rimanere nel presente. I biscotti sono ottimi per ancorare qualcuno al qui-e-ora.”
“Ah, di sicuro mi ancoreranno da qualche parte.” Commentò il guerriero, facendo segno che gli sarebbe venuta la pancia.
Johel lo guardò storto.
“Puoi mangiarne due o tre, devi finir di crescere.” Gli rispose in tono fintamente offeso. “E dopo i biscotti, andiamo a casa di zio… di Lord Fisdril, che ti deve parlare.”
Daren gli rivolse un’occhiata in tralice. Se Lord Fisdril voleva parlargli era una questione ufficiale, quindi perché a casa sua e non in qualche luogo pubblico?
Avrebbe voluto chiederlo, ma aveva la sensazione che l’avrebbe scoperto molto presto.

Lord Fisdril li attendeva ai piedi della sua magnifica casa arborea, vestito con i suoi paramenti ufficiali. Daren gli rivolse un mezzo inchino, perché sapeva che in quel momento stava parlando con il capoclan, non con lo zio di Johel.
“Ben trovato, Daren.” Lo salutò al suo arrivo. “E anche tu, nipote. Siete arrivati in città ieri sera, vero?” Attese il loro cenno di assenso prima di continuare. “Wilhik ha consegnato al Consiglio il vostro lavoro. Impressionante.”
“È stato principalmente il suo lavoro. Lui è il cartografo, io ero bassa manovalanza.” Scherzò il drow.
“Non sminuirti… non sarebbe riuscito a fare nulla senza le tue esplorazioni e la tua protezione. Penso che per i drow, gli esploratori delle gallerie rivestano un ruolo sociale simile ai ranger nelle foreste. Mi sbaglio?”
Daren sussultò per il paragone. Sì, l’elfo era in errore, ma poteva capire le ragioni del suo errore.
“Sì e no. Gli esploratori delle gallerie sono utili, ma non sono rispettati come i ranger delle foreste. Sono solo… servitori con una competenza preziosa, ma sostituibili.”
Lord Fisdril accettò la correzione, ma l’idea sembrò rattristarlo.
“Qui non sei sostituibile. Sei l’unico che ha questa competenza, ma soprattutto sei una persona. Nessuno è sostituibile.”
Daren annuì, ma non aveva bisogno di sentirselo dire. Le differenze fra gli elfi e i drow gli erano ormai molto chiare.
“Lo so, e apprezzo la compagnia di voi elfi dei boschi molto più di quanto apprezzi quella dei miei simili.” Commentò con un sorrisetto.
“Tu non sei proprio capace di fare un complimento, vero?” Lo punzecchiò Johel.
Daren aprì bocca per ribattere, ma Lord Fisdril s’intromise abilmente nella conversazione prima che ricominciassero a bisticciare come al solito.
“Volevo fare una passeggiata.” Fece un ampio gesto con il braccio ad indicare una direzione casuale. “Siate così gentili da accompagnarmi.”
Lo seguirono in silenzio. Date le premesse, nessuno dei due si aspettava che fosse davvero una semplice passeggiata.

Attraversarono insieme la città, raccogliendo benevoli cenni di saluto da ogni persona che incontravano. Daren si rese conto che non conosceva quasi nessuno di quegli elfi, non avrebbe saputo dire i loro nomi. Al contrario, tutti sembravano conoscere lui.
Ovvio. Avranno sentito parlare di me e del lavoro nelle gallerie, anche se non metto piede in questa città da due anni. Magari per loro sono ancora una curiosità… anche se spero di essere qualcosa di più.
Il drow non conosceva la città e non sapeva dove stessero andando, ma Johel capì che si dirigevano verso la Porta dell’Acqua, a sud. Lungo la strada passarono davanti alla Casa degli Scapoli, e come accadeva quasi tutti i giorni, la cameriera era fuori dalla porta e chiamava il figlio con tono ansioso e affranto.
“Amaryll.” Daren le fece un cenno di saluto. Ricordava almeno il suo nome, e siccome questo rappresentava un’eccezione in mezzo a tutti quei volti sconosciuti, trovò un certo sollievo nel pronunciarlo. “È scomparso di nuovo?”
Lei agitò le mani in modo inconsulto, quasi sulla soglia di una crisi isterica.
“Sono venti minuti che lo cerco e nessuno lo ha visto.” Piagnucolò. “Stavo servendo ai tavoli, mi sono distratta un momento, è uscito… se gli fosse successo qualcosa, io...”
Daren colse un movimento con la coda dell’occhio. Niente di che, una corda basculante. Solo che non c’era vento.
“Calmati, Amaryll. Hai solo un bambino molto intelligente e precoce, che ormai ha più di tre anni e non sa stare fermo. Hai un bambino ancora vivo, che non vuole chiedere aiuto per non farsi sgridare. Non si è fatto male, altrimenti avrebbe urlato e tu l’avresti sentito perché è vicino.” Così dicendo, le indicò ciò che aveva visto poco prima: un pozzo, proprio accanto alla locanda.
L'elfa non capì, guardò il pozzo come se non lo vedesse, sempre più vicina al panico.
Johel e Fisdril invece compresero al volo, videro tutti quei dettagli che Amaryll era troppo spaventata per notare. Un pozzo dal muretto basso, a misura di gnomo. La corda tesa, che oscillava. Una piccola cassa di legno accanto al pozzo… perfetta perché un bambino piccolo, che non sapeva arrampicarsi, potesse usarla come scalino.
Corsero subito al pozzo e ci guardarono dentro. Un piccolo elfo stava in piedi nel secchio, tenendosi alla corda, immerso nell'acqua fino alla vita.
“Il tecioro di folletti!” Esclamò con voce allegra, sollevando un sasso che aveva trovato laggiù.
Johel afferrò subito la manovella e tirò su il secchio, Fisdril si sporse nel pozzo per prendere in braccio il bambino non appena fu a portata. Si infradiciò completamente la veste prendendolo in braccio, ma non gli importava. Non era mai stato il tipo di capoclan che rimane lontano dal suo popolo, la sicurezza di uno dei loro piccoli era di importanza capitale.
Amaryll era già corsa accanto ai due elfi e praticamente strappò il figlio dalle braccia di Fisdril non appena lui si girò verso di lei. Era preoccupata a morte che il piccolo avesse preso freddo e non smetteva più di ringraziare i due elfi e il drow per il loro aiuto.
I tre si allontanarono in fretta, visto che un po’ di gente si era girata a guardarli.
“Ma seriamente, un incantesimo di tracciamento sarebbe una brutta idea?” Buttò lì Daren, dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato.
“Non credo che esista Individuazione dei Bambini” scherzò Johel, ridacchiando. “Ma sei tu l’esperto.”
“Esiste Individuazione del Male, dovrebbe servire allo scopo.” Il drow rispose con un’altra battuta, guadagnandosi una pacca sul gomito dall’amico e un’occhiata in tralice da lord Fisdril, che non aveva ancora familiarità con il suo senso dell’umorismo. “Mia nipote ha lo stesso carattere e da piccola ha fatto le stesse idiozie. Mia sorella è una strega, ha creato un incantesimo di tracciamento per ritrovarla sempre, quindi non stavo scherzando sull'usare la magia.”
“È strano che tu te ne venga fuori con queste soluzioni assurde,” osservò Johel “quando la più semplice è sotto gli occhi di tutti: da sola non ce la può fare. Potrebbe trovarsi un compagno.”
Il drow lo guardò per un momento come se non capisse la correlazione, poi pensò alla famiglia di Johel. “Ah, già. Famiglia bigenitoriale. Non sono abituato a pensarci, ma per voi è la norma.”
L’elfo ranger stava per fargli una domanda, ma la ricacciò indietro e chiuse la bocca. Dopotutto non voleva sapere.

Arrivarono alla Porta dell’Acqua, facendo il resto della strada in silenzio.
Usciti dalla città svoltarono a sinistra, verso est, costeggiando l’ammasso di rovi e alberi fitti che nascondeva magicamente quell'antico insediamento elfico.
Ad un certo punto Lord Fisdril si fermò di colpo, in un luogo che ai due giovani sembrò simile a tutti gli altri angoli della foresta.
Vicino a loro c’era una quercia, uguale a moltissime altre anche se di notevoli dimensioni. Non c’erano molte querce a Sarenestar, le conifere erano più comuni, ma non era nemmeno uno spettacolo strano. L’unica particolarità era che qualcuno aveva appeso nastri colorati ad alcuni rami. Johel fu il primo ad accorgersene, perché sapeva cosa stava vedendo.
“Quella è… una Quarlamne?” Domandò, con voce spezzata. “Ma… non sapevo… chi era?”
Daren gli rivolse un’occhiata interrogativa, perché non aveva mai sentito quella parola.
Fisdril si avvicinò alla quercia e poggiò una mano sulla corteccia, con un sorriso tenue colmo di affetto e malinconia.
“Il suo nome era Arrik. Era un mezz'umano, vissuto molto prima che tu nascessi. Io ero un bambino quando è morto, combattendo per proteggere la nostra foresta. Non ricordo nemmeno chi fossero i nemici, ero troppo piccolo, nessuno me lo aveva detto. Ma ricordo lui. Gli amici vanno ricordati.” Affermò con solennità. “E Arrik lo era. Un Amico degli Elfi, un Ruathar. Aveva meritato questo titolo salvando la vita a mio padre, alcuni decenni prima. È merito suo se io e Tazandil siamo potuti venire al mondo. Per me era come uno zio, e quando è morto ne ho sofferto molto. Ogni anno, anche a distanza di secoli, nell'anniversario della sua morte, io e alcuni altri che l’abbiamo conosciuto veniamo qui e appendiamo un nastro ai rami della sua Quarlamne, come ringraziamento. Merildil riesce anche a parlargli. Una piccola scintilla della sua coscienza è ancora lì dentro, anche se in una forma più semplice ed elementare. La sua anima, ovviamente, è libera ed è stata accolta nella grazia di Arvandor.” Raccontò, come se fosse una spiegazione.
Per Johel lo era. Lui era un elfo dei boschi, conosceva le tradizioni legate agli Amici degli Elfi e sapeva con quale rispetto venissero trattati dal loro clan, ma Daren si stava facendo un'idea solo per intuizione.
“È sepolto sotto quest’albero?” Domandò, per conferma.
“È più di questo.” Lo corresse Johel. “Quando un Ruathar muore, viene sepolto nella terra insieme ad una ghianda. Quella ghianda cresce rapidamente, diventando una Quercia Benedetta, o Quercia-Anima come la chiamiamo in lingua elfica. Non c’è veramente la sua anima, lì, ma ne rimane una pallida impronta. Abbastanza perché l’albero sia quasi-senziente. La leggenda dice che le Querce Benedette abbiano poteri soprannaturali, con cui possono ancora venire in aiuto degli elfi in caso di bisogno.” Si avvicinò alla quercia e posò anch'egli una mano sulla corteccia. “È così strano pensare che mio padre, e quindi anche io, siamo qui grazie a un mezz'umano che non ho mai conosciuto. Zio, avresti dovuto dirmelo. Verrò anch'io alla commemorazione, il prossimo anno.”
“Se ti fa piacere, nipote...”
“Perché?” Li interruppe Daren, incapace di tacere. “Scusate, non voglio mancare di rispetto, ma… perché? Voi elfi vi salvate la vita a vicenda in continuazione, ma non vi ringraziate per questo.”
“Sì… ma lui non era nato come uno di noi. Non ci doveva niente.” Tentò di spiegare Johel. “Per questo il suo aiuto, la sua amicizia, hanno un valore diverso. Non era… tenuto.”
“È un discorso un po’ razzista. L’amicizia non è un legame saldo quanto la famiglia? Vi ho visti interagire fra voi, siete così uniti, anche con chi non condivide il vostro sangue…”
Johel e Fisdril si scambiarono un’occhiata.
“Il clan è come la famiglia.” Spiegò il giovane ranger. “Non importa se non condividiamo il sangue, ogni elfo Arnavel per me è come un cugino, siamo cresciuti insieme ed io appartengo a questi luoghi come loro. Ci apparteniamo a vicenda. Per quanto ne so, tutte le società elfiche sono molto chiuse. Una persona esterna, se riesce a diventare così intima con un qualsiasi clan elfico, dev'essere molto speciale.”
“Va bene, questo lo capisco.” Riconobbe il drow. “Ma se ha salvato il vostro parente è perché voleva farlo, se è morto difendendo la vostra foresta è perché era vostro amico. Trattarlo in modo diverso da come trattate gli altri è una cosa che non comprendo. È come rimarcare che non era uno di voi.”
Johel e Fisdril si guardarono di nuovo a vicenda.
“Non lo era.” Confermò Fisdril. “So che è difficile da capire. Lo era… ma non lo era. Un Ruathar è qualcuno che diventa importante per la comunità come un elfo, ma proprio perché non lo è, riceve allo stesso tempo un trattamento diverso. Meno intimo, in un certo senso, ma più onorifico. Ci sono stati casi di Ruathar umani o mezz'umani che fungevano da diplomatici con le popolazioni non-elfiche. Mettono la loro diversità al servizio della comunità, sono risorse preziose, e questo è riconosciuto come qualcosa di non dovuto, quindi da ricompensare.”
“Capisco quasi tutto.” Disse Daren, dopo un lungo momento. “Ma non sono d’accordo. Ecco cosa non è dovuto: aiutare un amico. Aiutare… una persona che ha bisogno, anche se è uno sconosciuto. Non è dovuto. Ma non è nemmeno una questione di dare e avere. È una cosa che si fa e basta. Si può fare, quindi si fa. Non è un obbligo, ma se non lo fai non puoi certo definirti un amico. E se vedi qualcuno che può essere aiutato e non lo fai, che cosa stai facendo della tua vita? Se al contrario lo aiuti, serve un ringraziamento? L’alternativa era la non-azione, e quella non è mai un’alternativa. Ringraziare qualcuno perché si è comportato da amico… è svilente. Ringraziare qualcuno perché si è comportato da persona decente, significa implicare che non è una persona decente, che poteva anche non farlo, girarsi dall'altra parte, ma ha fatto uno sforzo e ha fatto qualcosa di buono. È offensivo già verso uno sconosciuto. Verso un amico è… più che offensivo, è come dirgli che sotto sotto non ti fidavi, è una pugnalata.” Parlò tutto d’un fiato, incespicando un po’ sui concetti più complessi perché ancora non conosceva parole abbastanza raffinate in elfico. Sperò che comunque avessero capito. “Se io avessi una tomba e qualcuno venisse a ringraziarmi, ritornerei in spirito solo per dirgli di andare a farsi fottere con una picca.”
Johel era diventato sempre più pallido man mano che il suo amico continuava nel suo monologo, e Fisdril alla fine aveva un’espressione indecifrabile.
“Be’... sei stato eloquente.” Commentò infine, in tono stranamente tranquillo. “Ma non vederla in questo modo. Ognuno ha i suoi mezzi e i suoi limiti, anche nel mostrare amicizia. Tu ci hai dimostrato la tua amicizia con le azioni, e noi lo abbiamo capito, anche se sei del tutto incapace di sostenere una conversazione civile o di comunicare le tue buone intenzioni. Anche noi elfi abbiamo dei limiti. La nostra amicizia segue sempre dei sentieri un po’ paternalistici, perché nessun’altra razza è noi. Hai visto come siamo uniti, come clan. Far entrare un elemento estraneo nel clan è spaventoso e destabilizzante, quindi potrà solo essere come uno di noi, ai nostri occhi, ma mai perfettamente uno di noi. La gratitudine, che tu tanto aborri, è il nostro modo per canalizzare l’affetto e il dolore per la perdita di un non-elfo nell'unica direzione che sappiamo gestire: attraverso il distacco. Rendere l’altro Altro è l’unico modo in cui noi elfi lo possiamo inquadrare, comprendere e amare. Se tu avrai la forza di sopportare il nostro distacco e capire che è il nostro modo di mostrare affetto, noi potremo accettare il tuo distacco, questo muro di maleducazione che hai alzato per tenere fuori quasi tutti. Vedo bene che entrambi i nostri atteggiamenti sono… imperfetti. Ma nessuno è perfetto, non esiste una cultura che non abbia delle inutili rigidità, dei difetti e dei punti deboli. E se accetterai la nostra offerta di amicizia, prometto che non ti chiederemo mai di vestire il ruolo del diplomatico.” Concluse con una mezza battuta, riuscendo a risollevare un po’ quel clima teso.
“Mi stai… mi stai chiedendo…?” Sussurrò il drow, senza parole.
“Ti sto chiedendo se accetteresti di diventare un Ruathar, un Amico degli Elfi.” Chiarì Lord Fisdril.
Daren rimase in silenzio per molti secondi, sbalordito.
“Perché?” Riuscì a chiedere infine.
“Per tutto quello che hai fatto, dimostrandoci amicizia e meritando la nostra amicizia. Ma soprattutto, per quello che ti accingi a fare. Vorrei che tu partissi per questa missione di spionaggio sapendo che qui hai un posto dove tornare, un popolo che ti ha accolto. Mi rendo conto che non si tratta di un’accoglienza completa, noi non abbiamo bisogno di dirci a vicenda che siamo amici, mentre tu devi essere nominato Amico per essere al pari di uno di noi… ma questo è il massimo che possiamo offrire, e onestamente è la prima volta che qualcuno mi fa riflettere così a fondo sul fatto che non sia abbastanza. Tradizionalmente è considerato un onore.”
“Da parte di una società chiusa, è un onore.” Ammise Daren. “Perdona la mia irruenza, sono ancora capace di contestualizzare. In realtà… questa missione mi spaventa. Non per i suoi pericoli, sono immune a quel tipo di paura. Mi spaventa perché temo che mi metta davanti al fatto che non so chi sono, cosa sono. Non appartengo a nessuno. Appartengo a me stesso e in certa misura alla mia dea, ma non è… abbastanza. Non ho alcun punto di riferimento, né dei limiti entro cui definirmi.”
“Ti sentiresti più sicuro, sapendo che sei un Amico degli Elfi del clan Arnavel di Sarenestar?” Propose il capoclan. “Ti darebbe quel senso di appartenenza che cerchi?”
Daren non aveva parole per rispondere, una condizione più unica che rara. Guardò Johel come per chiedere conferma, ma l’amico era sconvolto quanto lui.
Alla fine, con un nodo alla gola, riuscì ad annuire.

           

   
 
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