Fanfic su artisti musicali > Mika
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Autore: ValeriaLupin    16/10/2018    2 recensioni
Raccolta di one-shot ispirate da canzoni, interviste, sguardi, riflessioni, fantasie.
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1. Love you (even) when I am drunk
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«Le due e quaranta» gli rispose. Mika lo guardò confuso poi riportò l'attenzione sul suo cellulare e notò che in effetti l'orario era scritto anche lì, come sempre.
Perché Andy lo chiamava a quell'ora? Sentì una morsa allo stomaco che, questa volta, poco riguardava tutto l'alcol che aveva ingurgitato.
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2. Over my shoulder
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«Ragazzi» lo sentì dire poi ai suoi amici «mai toccare la ragazza del frocio». Il tremolio d'astio nella voce di quel ragazzo suonava come un presagio. Gli fece entrare un gelo nelle ossa che aveva assaggiato già tante volte.
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3. Ocean eyes
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Quale magia possedevano quegli occhi per poter leggere così a fondo nello sguardo di un altro uomo? Come poteva somigliare all'atto di dipingere quel suo modo di esprimersi?
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4. Invisible
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Dopo anni, scopriva che nulla era cambiato: giocava ancora a nascondino, questa volta con i sentimenti, e pareva fosse destinato a vincere.
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5. Make you happy
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S’imbatté, fra mille di quelle memorie delicate, in una più fragile delle altre: un segreto.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Andy Dermanis
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Over my shoulder

 
Un fascio di luce ancora timida incontrò il suo volto, interrompendo l’inquieto dormiveglia in cui era piombato da solo un paio d’ore.
Aspettò qualche minuto prima di alzarsi, abbandonando il confortante tepore delle coperte. Lo fece di slancio, senza pensarlo, credendo per un brevissimo secondo che gli avrebbe strappato via anche quella fedele stretta al petto.
Nonostante le poche ore di riposo, non aveva sonno, non si sentiva neppure stanco, anzi avvertiva già l’adrenalina in circolo, naturale reazione di una preda che scorge il predatore.
Michael si sentiva troppo spesso preda.
Preda di giochi crudeli, preda di parole di scherno, preda di quel mondo, preda di quel naufragare che lentamente l’affogava nell’inerzia del suo vivere.
Una volta in piedi, si trascinò di fronte alla finestra per spalancarla. Alzò le persiane, squarciando la penombra e accogliendo nella stanza un frammento d’uggiosa mattinata di novembre a cui diede il benvenuto con una smorfia inquieta. Le nuvole inghiottivano il cielo con tanta celerità che si stupì anche un solo raggio di luce fosse riuscito a destarlo, un dolce colpo di revolver a dare il via ad una corsa a perdifiato.
Andava avanti da un po’ quella sensazione di soffocamento, di mancanza d’ossigeno nei polmoni, di dolore alle costole, imprigionato egli stesso nella propria opressiva gabbia toracica. Sapeva bene cosa riguardasse, ma volgeva sempre lo sguardo: era tutto ciò che poteva permettersi. Ci conviveva da tanto a lungo che non riusciva a portare alla mente le sue prime reazioni; arrossiva, forse, di rabbia o d’imbarazzo.
Il tempo, comunque, gli aveva presto insegnato a lasciare che le parole lo trafiggessero in silenzio, senza macchiare il suo volto, in modo da non donare loro la soddisfazione d’averlo ferito davvero. Allora, mentre ancora affinava l’abilità d’apatia, s’era scoperto abbandonato in una caduta infinita. Precipitava e precipitando s’inoltrava in un marciume che gli tingeva lo sguardo di pece, timoroso di trovare una mattina il fondo di quel nulla e speranzoso di tastarlo, al tempo stesso.
Sospettava che se non avesse avuto la musica, la sua famiglia, l’avrebbe già trovato, ma non seppe se esserne felice.
Non si guardò dentro oltre. Era doloroso, pericoloso come poche cose nella sua monotona vita e prima di vestirsi di maschere (una divisa smeraldo cupo) sentirsi vulnerabili era una pessima scelta, soprattutto se lo eri davvero.
La sveglia cominciò a suonare, senza che lui la prendesse in considerazione.
Smise di scrutare il cielo, smise di scrutarsi dentro, spense la sveglia sul comodino e si preparò il più velocemente possibile, scendendo in cucina mentre ancora s’infilava una scarpa. Saltellò verso il tavolo, salutando i presenti, spento. Yasmine gli fece un sorriso mentre si versava del te caldo alla vaniglia, Paloma gli rispose ancora assonnata portando alla bocca un cucchiaino di yogurt magro, sua madre si avvicinò per lasciargli un lieve bacio sulla guancia, senza aggiungere altro.
La guardò, riconoscente, accennando un sorriso dritto dalla sua bella infanzia parigina. Tenero ed infantile, ma con una pennellata di verità.
Sua madre, quella sua capacità di capire intimamente qualunque persona su cui posasse il suo sguardo caldo e materno, lo spaventavano immensamente. Aveva un’intelligenza emotiva che spesso lo metteva a nudo, sviscerando ogni sua emozione con una singola occhiata tanto breve che sarebbe potuta apparire distratta, non fosse che dinnanzi a quelle iridi color caffè era totalmente esposto. Le sue maschere cadevano in un battito di ciglia.
Joannie sapeva pazientare e conosceva i demoni di suo figlio, pur non sapendo i loro volti. Joannie attendeva un gesto, una parola, una lacrima. Aspettava perché consapevole che domandare non era il modo giusto di chiedere spiegazioni a Mika.
D’altra parte troppo spesso si trovava a gridargli addosso le sue paure, le lacrime che gli cadevano copiose sulle guance. “Cosa ne sarà di te?”, “Perché butti via la tua vita?”, gli vomitava addosso quando tornava dalle discoteche alle cinque del mattino, sudato e inebriato dall’anarchica gioia del ballo, dai baci cremisi d’uno sconosciuto, più che dall’alcol.
“Non lo riesco a vedere, non ci riesco, a vedere il tuo futuro” sussurrava, l’angoscia che prendeva posto fra i suoi lineamenti.
E, a dire il vero, non lo vedeva neanche lui.
Diede un veloce sguardo alla sua casa, alla sua famiglia: erano il suo rifugio, un posto dove poteva essere davvero se stesso, dove poteva esprimersi liberamente, dove se fosse uscito di casa indossando una camicia rosa o pantaloni gialli nessuno avrebbe avuto da commentare. Si sentì particolarmente fortunato nel pensare che alla Westminster school era previsto l’uso di divise verde scuro.
Un motivo in meno per deriderlo, un modo in meno di annullarsi.
A volte era terrorizzato dall’idea che tutte quelle parole fossero riuscite a cambiarlo. Si aggrappava alla sua diversità con unghie ben affilate e voglia di combattere per preservarla. Era l’unica cosa autentica che gli era rimasta: l’amore per la musica, l’estetica stravagante, l’affetto profondo che lo legava alla famiglia.
Gli sovvenne il ricordo di un bambino con i capelli pettinati come Lucky Luke e dei coloratissimi papillon. Cos’era rimasto di quel bambino?
Ricordava con dovizia di particolari ogni scuola in cui avesse messo piede: una minuta scuola parigina, un grande lycèe francese a Londra, una piccola scuola pubblica londinese. La prestigiosa e storica Westminster school era solo il suo ultimo approdo; l’abilità di suonare era stata la chiave del suo accesso.
In ognuna di queste avevano trovato modo di sputargli veleno, d’intossicarlo di ghigni, risatine, sibilii. Per chi si faceva portavoce di quell’odio non era altro che divertimento, senza conseguenze, senza colpe alcune. Poi quel passatempo si era lentamente trasformato in cruda violenza.
Quell’istituto, frequentato da ragazzi e ragazze di famiglie più che benestanti, non era altro che il covo di ragazzini arroganti e viziati e d’altronde l’immensità dell’intero complesso pareva dar loro l’impressione di gettare un infantile pugno di briciole in un lago d’acqua torbida.
Non lasciava traccia, se non in chi subiva e celava i tagli nelle rughe dell’anima, quelle che rivelano la vera età di una persona. Il preside aveva acconsentito a chiunque ne fosse vittima di entrare con qualche minuto di ritardo a lezione e fingeva, con intima indifferenza, che questa fosse la soluzione.
Mika cominciava a credere che se davvero tutti trovassero sempre qualcosa di sbagliato in lui, allora lo era.
 
Era sbagliato.
 
Ricordava con particolare chiarezza quando, dopo appena qualche settimana nell’istituto, all’età di undici anni, commentavano con soddisfazione il suo peso, preoccupandosi con cura che quei malevoli bisbigli raggiungessero le sue orecchie. Non sarebbe mai riuscito a dimenticare i volti di quel gruppo di quindicenni che aveva proclamato divertente lanciargli addosso lattine di coca-cola mentre, a testa bassa, attraversava i giardini meticolosamente curati della scuola.
Mika addentò un pezzo di pane con marmellata, cercando di non sporcare la divisa e una volta terminata la colazione attese le sorelle più grandi per recarsi a scuola assieme a loro.
Come se non potesse più abbandonare quel corso di riflessioni, nel tragitto, si ritrovò a meditare sugli anni successivi, quando il suo fisico era cambiato. Questo non gli aveva risparmiato il costante sogghignare dei suoi compagni. C’erano state e c’erano ancora allusioni e patetiche imitazioni, insulti, umiliazioni. Ancora lambito dall’innocenza dell’infanzia, o perlomeno della preadolescenza, non s’era mai neanche posto domande sulle proprie preferenze sessuali, eppure spesso nei corridoi si sentiva chiamare “frocio”, “ricchione”, “presoinculo”.
Vi aveva quasi fatto l’abitudine, quasi ne era diventato indifferente quando, d’improvviso, un intenso sguardo nei cortili della scuola, uno sguardo che per un secondo gli aveva intrappolato il respiro fra le labbra schiuse, si era fatto beffe di ogni sua certezza. Quel breve intrecciarsi di speranze, di fiamme, di storie gli aveva insinuato il dubbio che non avessero tutti i torti.
 
Aveva quattordici anni e la vergogna nello sguardo.
“Mai, mai lo dirò” da quei giorni di tre anni prima non aveva mai smesso di ripeterselo.
 
Era giunto ad un passo dal perdere la testa: cosa gli assicurava allora che non avessero ragione anche sul resto?
Era stupido? Brutto? Ridicolo?
Scosse la testa, tentando di sfuggire a quelle grida troppo forti per essere contenute dalle sue fragili pareti mentali. Non sapeva come darsi un nome, non sapeva se voleva. Non si conosceva e, in quell’esatto momento, realizzò che non sapeva se volesse farlo.
Lasciò vagare la sua mente su note di musica, s’immaginò al piano ad accarezzarne i pulsanti bicromatici, ripassò le parole di Cherubino da “Le Nozze di Figaro” cui fortemente era legato poiché era stata la sua prima esibizione sul palco della Royal Opera House. L’aveva interpretato un paio d’anni prima, finalmente immerso nel mondo in cui aveva ottenuto il rispetto che a scuola pareva essergli precluso.
Un piccolo fastidioso ricordo gli rimase impigliato alla mente.

Un paio di labbra che si sfiorano, ingenue, impacciate, gli occhi chiusi a suggellare l’atto e un po’ anche per sfuggire alla paura. Non passa molto che Mika si scosta, mal celando una smorfia di disgusto. “Ha un brutto sapore” si trova a pensare. La ragazza lo guarda, le folte sopracciglia si nascondono sotto la sua frangetta ed il gesto palesa una richiesta di spiegazioni nonostante lei avesse ignorato la sua alla strana domanda con cui aveva esordito.
«Mi baceresti?» aveva detto, pochi minuti prima.
Lei che gli rivolgeva la parola solo da qualche giorno, lei che guardava i suoi amici con sufficienza, lei il cui passatempo prediletto era disprezzare, ora gli chiedeva di baciarla. «Perché?» aveva risposto, spaventato. Forse era stato lo sguardo ancor più sbigottito di Jody che lo aveva spinto ad esaudire la sua richiesta.

Mika storse il naso e recuperò le cuffie da dentro la cartella scolastica mentre camminava verso il campus. Ormai erano quasi arrivati. Infilò gli auricolari nelle orecchie, sperando avrebbero fatto desistere chiunque dal rivolgergli la parola. Non voleva problemi, soprattutto quella mattina: aveva un test di matematica che aveva la netta sensazione di non poter passare.
Si sedette nei giardini verdi dell’istituto, gettando di fianco a sé la cartella dal peso di un paio di libri e poggiandosi alla corteccia umida e farinosa del platano; era garantita un po’ di riservatezza grazie alla sua ampia chioma sangue e caramello, appena sfoltita dall’imminente gelo. Le tonalità erano solo più sporche di quelle che aveva in pieno autunno. Attese come sempre che tutti entrassero nelle classi e, una volta suonato l’inizio delle lezioni, si avviò verso la sua dove lo attendevano due insostenibili ore di verifica.
Giunto in classe e privatosi delle cuffiette, rivolse un timido sorriso ai pochi compagni con cui aveva legato in quel corso infernale: Alex, un ragazzino di origini cinesi dal viso tondo e gli occhi timorosi, Erika con i suoi fini capelli rossi che sempre le nascondevano il viso, Karissa accompagnata dal consueto sguardo morbido, come un vento estivo a Londra. L’intera classe si voltò ad esaminarlo, tentò di ignorare quanto taglienti fossero i loro occhi. Andò dalla docente e prese il proprio foglio per poi iniziare il compito, sedendosi nell’unico posto libero.
Fece appena in tempo a posare la punta della sua biro sul foglio che udì il primo commento della giornata.
«Lo vedi che sai scrivere» sibilò quello con un falso tono rassicurante. Qualche risatina si levò tutt’intorno e una voce più acuta si unì alla prima.
«Ogni tanto anche lui è come noi comuni mortali» commentò in un sussurro aspro la ragazza, come a voler rivendicare l’ingiustizia nei loro confronti, ma senza perdere un mezzo sorriso.
«Sì, farsi diagnosticare la stupidità è un’idea geniale» rincarò, divertito, il ragazzo, scatenando altri bisbigli e risate più forti che la professoressa mise velocemente a tacere. “Certo, perché voi sareste in grado di fare oralmente tutte le verifiche scritte che copiate” pensò, amareggiato.
Non rispose. Doveva solo concentrarsi sui numeri, cercare di fermarli, di afferrarli e metterli nel giusto ordine. Il peso del giudizio lo affaticò ulteriormente.
“Concentrati”.
 
 
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«Com’è andato il test?»
Mika si limitò ad alzare le spalle, incassandovi la testa mentre addentava una mela, consapevole di non essere stato sufficientemente bravo, o preparato. «A te?» le chiese di rimando, osservando Erika aprirsi in un sorriso mentre rispondeva felice alla domanda, abbandonando il cibo della mansa nel piatto.
Per un attimo la ragazza si scoprì un po’ di più il volto, illuminato dal momento di gioia. Solo uno dei suoi penetranti occhi azzurro cielo lo fissava. L’altro pareva invece assorto a scrutare oltre di lui, come attirato da un cielo diverso, carico di grigio. Mika non ci aveva messo molto a farci l’abitudine. D’altronde sua sorella Paloma aveva delle deficienze fisiche che la costringevano a zoppicare, seppur non in maniera troppo evidente, dunque si poteva ritenere avesse una sensibilità naturale nel mettere al proprio agio le persone che, come Erika, nascondevano con fin troppo zelo le proprie imperfezioni, giungendo a sparire completamente, ad annullare la propria presenza.
Michael le sorrise, di un sorriso vero nonostante le invidiasse la costanza e la perspicacia.
«Mi dispiace che a te non sia andata bene» si fece seria lei, in qualche secondo, mentre sul tavolo della mensa li raggiungevano altri. C’erano Karissa e Alex, c’erano i ragazzi della compagnia teatrale, il gruppo di outsider che aveva radunato mr. Rice. Attorno a quel tavolo Mika poteva affermare che sedevano alcune delle persone per lui più importanti, di sicuro tutti gli amici che possedeva. Mika lasciò cadere il discorso, lasciandole uno sguardo zeppo di spiegazioni: nonostante sovrastasse di molto la maggior parte dei suoi compagni, era facile non sentirsi alla loro altezza. Soprattutto in una scuola come quella che faceva dell’eccellenza il suo marchio distintivo.
Mika salutò gli amici con qualche sorriso e un paio di abbracci in cui era stato inaspettatamente stretto da Adele e Christian, mentre lo oltrepassavano per sedersi alla sua sinistra. I due facevano parte assieme a lui della compagnia teatrale e sapevano essere affettuosi quanto bastardi. In un modo bello, giusto, s’intende.
«Mika!» cinguettò la ragazza, accomodandosi accanto a lui e sistemando la lunga chioma nera dietro le spalle. Era di una bellezza disarmante e questo non era certo passato inosservato. Tuttavia pareva più una condanna che un privilegio: Adele era maggiormente se stessa quando poteva essere qualcun altro. La sua passione per la recitazione permeava anche le sue azioni del quotidiano, i suoi gesti, le sue riflessioni, il modo di enfatizzare la parola, di costruire una connessione con i movimenti dello sguardo. L’intensità di quest’ultimo sapeva pesare come centinaia di macigni, inchiodandoti e facendoti morire ogni pensiero.
Adele si sentiva parte di innumerevoli vite eppure chiunque posasse gli occhi sulla sua avvenenza infausta era propenso a darle il valore d’un oggetto da poter commentare a proprio piacimento. I più stolti agivano nella convinzione di poterla persino maneggiare, al pari di una pallina da baseball passata di palmo in palmo, senza cautela né premura.
Checchè se ne potesse dire (ché la gente ama ripetere gli stessi preconcetti), era una ragazza arguta ed era riuscita a crearsi un ambiente protetto, per quanto possibile, a circondarsi di persone latrici di positività con cui potesse coltivare rapporti sani e sinceri.
Mika le passò un braccio attorno alla vita, stringendola a sé con affetto. Lei era decisamente una delle poche persone con cui a scuola si sentiva libero di lasciarsi andare a contatti fisici. E, forse era la sua esuberanza, forse l'abilità di guardargli un po’ dentro, ma con lei non provava una briciola d’imbarazzo a prendere parte a gesti tanto plateali.
Qualcosa di duro gli colpi con forza la nuca. Si voltò e arretrò, sottraendosi a quel dolore. Incontrò lo sguardo di un ragazzo biondo ossigenato che lo superava, sorridendo. Mika si massaggiò la parte lesa, osservando il ragazzo allontanarsi con risatine a mo’ di cornice e l’arma fra le mani: il vassoio blu scuro dagli spigoli smussati. “Almeno” pensò, lievemente sollevato. La ragazza che, come chiunque li circondasse, aveva assistito alla scena, carezzò la nuca di Mika e gli lasciò un delicato bacio sulle labbra chiuse, sorprese. Parve fraterno.
In fine, si allontanò con un’espressione del tutto invariata a quella di qualche minuto prima e spostò la sua attenzione su altro; una conversazione cui diede facilmente inizio. Mika rimase impalato a fissare dinnanzi a sé, consapevole che tutti lo stessero fissando, cogliendo ogni sua reazione. Se c’era qualcuno che non li avesse visti, lo avrebbe saputo entro la fine della pausa pranzo, in tutta probabilità, e di quel bacio così autenticamente privo di passione tutti avrebbero fatto qualcosa di molto diverso.
Michael era avvolto come da l’aurea onirica che ti avvolge appena ti desti da un sogno e la testa gli fluttuava a qualche metro dal corpo, tanto era sorpreso e turbato da quel bacio. Tanto v’era dentro che non si accorse del mormorio attorno a loro, qualche sprazzo di risatina, l’atmosfera tesa di quando si è spettatori di un evento sovrannaturale. Si alzò, abbandonando il piatto ancora pieno per metà e dirigendosi lontano da lì, sotto lo sguardo curioso dell’intero istituto. In quello di Adele c’era preoccupazione.
 
Raggiunto il bagno fece per entrarvi.
«Aspetta!»
Si fermò, sorpreso, voltandosi a guardare Adele che gli correva incontro. Riprese il respiro, fermandosi dinnanzi a lui e tendendo una mano verso la sua spalla.
«Scusa» sospirò senza fiato e poi lo ripetette con voce più corposa, due, tre volte ancora. «Non so come farmi perdonare… so cosa si prova e non so cosa mi…». Il suono della campanella la interruppe, il rumore delle sedie che fischiavano sul pavimento alle loro spalle diede vita ad un boato.
«Tutto a posto, tranquilla» scosse la testa lui. Gli occhi della ragazza si strinsero e il verde bosco delle sue iridi divenne sensibilmente più cupo.
«Perché sei scappato, allora?» chiese lei, sospettosa che nelle rassicurazioni di Mika ci fosse traccia di menzogna.
«Avevo gli occhi di tutti addosso» rispose, sincero solo in parte.
Lei lo incitò a continuare e lui raccolse il suo coraggio.
«Co-cos’era per te?» le domandò, un velo di preoccupazione sul volto. Adele ne fu stupita.
«Mika tu mi piaci…», sentì un tuffo al cuore «ma come amico» terminò, tentando di non ferirlo. Mika sospirò.
Di sollievo, però. Adele lo notò e per la prima volta in quella conversazione riuscì a incontrare lo sguardo del ragazzo. Si guardarono per un paio di secondi poi scoppiarono in una risata liberatoria. Quella condivisione fece bene ad entrambi. Adele lo abbracciò di slancio, continuando a ridere di sé e di quella situazione assurda che era riuscita a creare. Gli altri alunni stavano di nuovo riempiendo i corridoi, le aule e i laboratori con lentezza pari alla volontà di arrivare a destinazione.
«Non farlo mai più!» quasi gridò Mika, rilassato, senza neanche accorgersi della gente che li circondava. L’amica s’allontanò di qualche centimetro, sorridente.
«Perché? Non ti è piaciuto?» fece lei, fingendo insicurezza e risultando fin troppo credibile. Mika la conosceva abbastanza da sapere che scherzasse e dunque si limitò a una smorfia eloquente. Lei rise ancora.
«Devo scappare adesso, ci si vede!» terminò la frase mentre già si allontanava.
Nonostante sapesse che avrebbe avuto l’attenzione di tutti per un paio di settimane, Adele era riuscita a lasciare sulle sue labbra un sorriso sereno.
S’incammino verso la lezione di biologia dopo aver preso il libro di testo nell’armadietto e non appena fece i primi passi si infilò gli auricolari con cui sperava avrebbe attraversato il campus al riparo da qualche stupido commento. Tenne la testa bassa, non voleva vedere le loro facce.
Era quasi giunto a destinazione – vide la porta dell’aula e accelerò il passo – quando qualcuno gli afferrò un braccio. Sussultò, spaventato, portandosi una mano al petto e cercando di divincolare il polso stretto nella morsa di una mano decisamente più forte. Gli disse qualcosa, soffiandogli il suo alito sul viso, ma la musica coprì il suono delle sue parole.
Mika non fece in tempo a rallegrarsene che il ragazzo gliele tolse. Attorno a lui c’erano tre dei suoi amici, di cui una ragazza. Sembravano tutti equamente curiosi di cosa stesse facendo il loro compagno.
«Dicevo, ti è piaciuto il bacio?» gli chiese con una prepotenza insita più nel ghigno che nella voce.
Mika non seppe se rispondere, cosa rispondere, non capì cosa stesse succedendo. «Lasciami» si limitò a biascicare debolmente.
«Ah certo, tu sei ricchione!» fece, come se gli fosse appena balenato in mente, scatenando le risate dei compagni. «Certo che magari con una zoccoletta come lei un po’ etero ci diventi perfino tu…» ipotizzò, ridendo anche lui.
«Invidioso?» gli sibilò contro, pervaso dalla rabbia. Ne furono sbigottiti, tanto che la presa del ragazzo divenne leggermente più debole, abbastanza per liberarsene e allontanarsi da loro a passo svelto.
«Ragazzi» lo sentì dire poi ai suoi amici «mai toccare la ragazza del frocio». Il tremolio d’astio nella voce di quel ragazzo suonava come un presagio. Gli fece entrare un gelo nelle ossa che aveva assaggiato già tante volte.
Mika entrò nell’aula di biologia accompagnato da risate di disprezzo dal suono stridente e volgare, una melodia suonata da un pianoforte scordato che gli trafisse i timpani. Sperimentò un dolore lancinante, pulsante sulle tempie, premeva sulla fronte. Era spaventoso che tutto quell’odio, tutta quella rabbia stesse cercando una via d’uscita, rompendo ogni sua difesa, ogni suo controllo.
Ritrasse le lacrime che premevano dietro gli occhi: le pianse in un cassetto dove custodiva un mare.
 
 
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Al suono della lezione successiva Mika aspettò che l’aula si svuotasse. Sapeva cosa l’attendeva fuori di lì.
Sarebbe rimasto lì seduto, immobile, al sicuro con la professoressa finché quel ragazzo non fosse stato costretto ad abbondonare i propri propositi, qualunque essi fossero. Magari erano solo sue paranoie, ma non seppe evitarle.
«Penniman» lo richiamò la donna «Forse è ora che tu vada».
Mika si alzò, recuperò la sua cartella e rimase impalato ad attendere che lei uscisse.
«Forza!» lo spronò «Dai che devo chiudere».
«Merde» si lasciò sfuggire in francese con un sussurro.
«Come?»
«È l’ultima lezione?»
«Sì, l’ultima di biologia» precisò Miss Dixon, confusa. Mika annuì e si mosse con poche falcate verso l’uscita.
Forse aveva guadagnato abbastanza tempo da sfuggire a brutti avvenimenti.
La cartella stretta nella mano destra con forza eccessiva, la testa bassa, le cuffiette dimenticate, calpestate nel corridoio dov’erano state gettate, si diresse verso il suo armadietto dove recuperò il materiale per la lezione successiva e lasciò quello che non gli serviva più.
Loro l’aspettavano lì; gli stessi con un paio di aggiunte. Chiacchieravano tranquilli nel corridoio quasi deserto.
«Eccoti» fece lui. La sua voce lo fece rabbrividire. Cercò di ignorarli.
«Dove vai?» chiese, retorico, un brunetto. Non rispose e continuò per la sua strada, dando loro le spalle. «Hai paura? Stai un po’ con noi!» insinuò, lanciandogli la sfida. Avevano toni plastificati, ma pacifici.
«Non ho paura» rispose, senza voltarsi.
«Perché non stai qui un po’?» aggiunse la ragazza, amichevole. «Abbiamo qualcosa per divertirci».
Brunetto estrasse dalla cartella una bottiglia di superalcolico, scuotendola con un sorriso. «Scommetto che non l’hai mai assaggiato» sogghignò.
Il ragazzo di prima si fece una risata leggera. Le buffe orecchie a sventola stridevano con il suo sguardo. «Non ne ha le palle questo, che ti aspetti da uno come lui?» diede ragione all’amico, scatenando qualche ghigno.
«Non sono gay» mentì.
«Non ho detto questo» ribatté, divertito, Orecchie-a-sventola, alzando le mani e mostrandogli i palmi. «Coda di paglia?» fece, inclinando il sorriso.
Mika sentì una morsa al petto, i battiti del cuore fino allo stomaco, le mani gelide. Di nuovo l’adrenalina lo pervadeva.
«Ne bevi solo un goccio» intervenne per la prima volta un ragazzo dalla pelle olivastra. Aveva occhi più sinceri, ai quali credette.
«Devo andare a lezione» rispose flebilmente «sono già in ritardo».
«Assaggialo e puoi tornare in classe» fece Orecchie-a-sventola. Nelle sue parole era abilmente occultata una minaccia.
Mika annuì e si rimangiò tutti i “perché?” che gli giungevano sulle labbra. Sapeva che volessero solo divertirsi: lui era uno sfigato, asociale, frocio, senza amici e non aveva mai messo piede fuori casa oltre le nove di sera. Ai loro occhi, almeno, era così, seppure la realtà era a tratti ben diversa.
Tuttavia il massimo dell’alcol che aveva ingerito era stato un paio di drink nei locali di Londra. Già quelli bastavano per sentire la testa un po’ leggera.
Il gruppo di amici, con rinnovata allegria, lo accompagnò in una stanza che pareva un ripostiglio, ma era ben illuminata e anche fin troppo capiente per essere destinata a magazzino. Si sedettero chi a terra e chi su qualche mobiletto basso o scatolone pieno di chissà cosa. Mika li imitò e prese posto fra Orecchie-a-sventola e la ragazza, lì dove il primo gli aveva fatto segno di accomodarsi. Cominciarono a passarsi la bottiglia e a bere un sorso ciascuno.
Quando arrivò fra le sue mani, Mika esitò per un secondo prima di inghiottirne poco. Gli bruciò la gola e si trattenne dal tossire.
«ah, ah… troppo poco!» rise Olivastro, rimproverandolo scherzosamente.
«Fallo abituare un attimo, James» venne in suo soccorso la ragazza, ridendo.
A Mika sfuggì un piccolo sorriso del quale si pentì immediatamente. «Un assaggio, fatto, io vado…»
«No, dai, ti sei solo bagnato le labbra!» si lamentò Orecchie-a-sventola. «Bevine un po’» gli disse, trattenendolo con una mano sulla spalla. Mika s’irrigidì, rimase immobile, paralizzato. Fece un lungo sorso alla fine del quale, gli altri si spesero in un’ovazione condita da risate.
La bottiglia fece altri due giri, Mika altri due sorsi. Poi Brunetto ne estrasse una seconda dalla cartella. «Questa è l’ultima, però» informò i presenti.
A quel punto Mika non riusciva a tenere gli occhi ben aperti, vigili. La testa galleggiava e lui si sentiva a suo agio, un piccolo sorriso sulle labbra. Gli altri parlavano, non sapeva dire di cosa, non riusciva a seguire l’intero discorso. Il ragazzo che più di tutti era stato silenzioso era spalmato sulla ragazza affianco a lui. Le loro bocche si confondevano.
«Tu lo baceresti mai un ragazzo, Sam?» fece James a Orecchie-a-sventola. Quest’ultimo sembrò pensarci.
«Non so, tu?» chiese di rimando.
«Baciarlo… forse me lo scoperei, dipende».
Sam rise di gusto. «Da cosa?». Mika non si accorse di tremare, troppo attento alla conversazione.
«Dal culo, ovviamente» tuonò, scoppiando a ridere, dopo aver bevuto fino all’ultimo goccio d’alcol presente nella bottiglia di vetro. Sam si unì a lui e Mika fu costretto ad imitarli, facilitato dalla sottigliezza dei suoi pensieri.
Sam si rivolse a lui, riprendendo fiato. Gli mise una mano sul fianco, facendo una leggera pressione per voltarlo.
«Girati un po’» rise, rivelando parte della sua schiena, fasciata dalla divisa smeraldo. In un attimo di lucidità, si scostò da quel tocco, da quel gesto. Recuperò la cartella e fece per andarsene. Si sentiva sporco.
«Ma dove vai?» si alzò anche lui, sorreggendolo quando lo vide barcollare. «Non ti reggi neanche in piedi». Dietro di lui, la risata di James pareva un latrato di dolore. O forse erano solo le sue urla, quelle che gli gridavano dentro.
«Sì, invece» ribatté stupidamente. Sam gli prese i polsi, ridendo.
«Guarda, Michael» esordì uno dei due ragazzi che avevano passato il tempo accanto alla finestra a fumare. «James ti sta facendo una dedica» annunciò con tono indifferente, indicandolo mentre accucciato su una cartella scolastica stava scrivendo una frase a caratteri cubitali con un pennarello nero.
Mika aveva la sua nella mano destra. No, si rese conto. Non c’era nulla nella sua mano destra. «Ma… è la mia?» chiese al fumatore, confuso, agitandosi e liberandosi dalla stretta di Sam. Quello sbuffò fumo dal ghigno, annuendo appena.
«Che cazzo fai?!» urlò con voce stridula, gettandosi sulla sua cartella e sfilandola dalle mani del ragazzo. Le risate aumentarono. «Che cazzo hai scritto?» sbottò poi lanciando uno sguardo perso alle parole che ne marchiavano la superficie. Se aveva difficoltà a leggere da sobrio, non poteva pretendere che andasse meglio adesso. Le lettere fuggivano in ogni direzione, ancor più velocemente.
«Non riesce neanche a leggerlo». Altre risate.
«Quanto puoi essere stupido». Sghignazzate più forti.
«Tesoro» intervenne poi il colpevole, imitando una voce effeminata e gridando per sovrastare le risate «Ho scritto: “Al mio frocetto preferito, ti scoperei se fossi abbastanza ubriaco”».
Michael sentì un lucchetto frantumarsi, qualcosa spalancarsi, un cassetto svuotarsi di getto, un maremoto scontrarsi violento contro ogni protezione, ogni argine sicuro. Non sentì neanche l’ultima campanella trillare.

Tutto si sgretola, ogni cosa preme per essere buttata fuori, il veleno si riversa nel sangue, denso come fango. Fa fatica a respirare. Prende a correre senza sosta, la cartella stretta al petto, il petto stretto in una morsa, il respiro che corrode la gola. C’è gente nei corridoi.
“Dovunque, dovunque ma non qui”.

Avrebbe voluto tornare a casa, nel suo rifugio, ma non poteva inquinare anche quel mondo puro, non ancora toccato a pieno dalla sua realtà.
Come le avrebbe spiegate poi quelle parole alla sua famiglia. Si catapultò nel primo posto che vide isolato: un bagno.
 
Fu come essere schiacciati dal peso intero del mondo. Il livore, la rabbia cieca avevano spazzato via l’ebbrezza dell’alcol. Sentiva il cuore martellare sulle tempie, la mascella dolorosamente serrata. Non voleva che lo trovassero, ma le urla gli sfuggirono comunque dalle labbra, soffocate come sospiri. Il viso deformato, la giacca gettata a terra in un gesto feroce, Mika lasciò che vivessero solo dentro di sé. Il solo suono udibile era il chiacchiericcio e tramestio di passi, oltre la porta.
Si abbandonò a terra, lanciando, violento, dinnanzi a lui la cartella scolastica. Tentò di portare via la scritta con gli occhi, poi con le mani, la saliva, l’acqua dei rubinetti. Era tutto inutile, gli portava via solo le forze.
Vide di sfuggita una spazzola per capelli abbandonata su uno dei lavabi e realizzò di essersi rifugiato nel bagno delle donne. L’afferrò di scatto e la sfregò all’ecopelle con tutta la forza che aveva; la scritta non sbiadì affatto, il materiale si graffiò appena.  Non si arrese, usò tutto il peso del suo esile corpo. Immaginò che fra le mani avesse una striglia, dai denti di ferro, affilati, e che la usasse sul volto dei suoi aguzzini con la stessa ferocia di cui gli avevano fatto dono. Gli occhi gli si tinsero di cremisi, il tremito giunse fino alle ossa, il sangue raggiunse le sue mani, fiottando da quelle facce distorte dal dolore.
A quella visione si fermò. I brividi non gli diedero tregua, invece.
Ebbe un tale ribrezzo di sé che non riuscì ad alzare lo sguardo; le pareti coperte di specchi gli avrebbero rimandato il riflesso di un bambino rannicchiato su se stesso, pervaso d’odio, asfissiato dall’ira, con occhi da assassino. L’unica cosa che fu in grado di fare per quei pochi minuti fu fissare ciò che solo un briciolo della sua esplosione era riuscito a generare: brandelli di pelle finta pendevano dalla cartella, i dentini di plastica della spazzola erano tutti intorno, uno stormo di uccelli neri nel cielo grigio su cui era inginocchiato. Respirava con affanno.
S’alzò in uno slancio di estrema energia, strappò un pezzo di carta asciugamani, frugò nella cartella, entrò in una delle cabine wc, sbattendosi la porta alle spalle e chiudendola a chiave, e sedette a terra, posando la cartella sulle gambe. La usò come scrittoio e, penna fra le dita, iniziò a buttare giù ogni cosa gli tuonasse nelle membra.

Il gelo dentro, la mente offuscata, la nebbia nello sguardo, le notti carbonizzate, senza sogni, il terrore, la voglia di fuggire dalla vita, di correre senza ritorno, di toccare il fondo di quella caduta eterna.

 
Dov’è che sta andando? Dove si trova?
Perché non riesce a piangere?

 
Il tremito accompagna la mano in una scrittura svelta e rabbiosa. La punta della biro buca la carta, le parole gli graffiano la gola quando la canta, un filo di voce che echeggia nell’aridità della stanza.
 
Una volta terminata, il tremore l’aveva abbandonato, la mente era più leggera, il dolore sulle tempie sparito, restava solo una stanchezza infinita. Persino respirare sembrava faticoso.
 
È passato.

Le parole sul foglio erano impossibili da decifrare, distorte e lacerate com’erano, ma non gli importava. Erano impresse così nel profondo che Mika aveva la certezza di non potersi liberare del loro ricordo.
Chiuse gli occhi, vinto dalla spossatezza. Prima di cadere in un sogno, dedicò un pensiero alla canzone che teneva stretta fra le mani.
“È bella”, sorrise al silenzio.





Note: 
Ciao a tutti! 
Sono tornata con un'altra storia breve (che poi tanto breve non è ahahah). Spero vi sia piaicuta :) Grazie a chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite, ma grazie soprattutto a chi si è preso un minuto di tempo per scrivere una piccola recensione!  
Ora qualche breve precisazione: molto in questa storia è frutto della mia immaginazione, ma molto altro è frutto di cose dette da Mika stesso. Le cose di mia totale invenzione sono solo ed esclusivamente il personaggio e la vicenda di Adele, il luogo dove è stata scritta la canzone e la vicenda che l'ha ispirata in sé. Del luogo dov'è stata scritta, che io sappia, ha detto solo che si trovava nella sua scuola. Ho pensato alla cosa più probabile. Sulla vicenda le informazioni sono poche e ho voluto rispettarle: doveva essere ubriaco e si stava nascondendo. Fra i personaggi, tutti inventati, Alex è un suo reale amico di scuola che in un concerto cantò come corista proprio in Over my shoulder (basta cercare su youtube immagino).
Tutto il resto sono sue dichiarazioni nelle interviste :) Lasciatemi qualche commento per farmi sapere se vi è piaciuta.

Bacioni e alla prossima :*

 
   
 
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