Fanfic su artisti musicali > System of a Down
Segui la storia  |       
Autore: Soul Mancini    17/10/2018    4 recensioni
[Storia momentaneamente sospesa.]
Hoginery, anime in armeno.
Quante anime avete incontrato durante il tour della vostra vita? Eppure con alcune ci si sente immediatamente a casa, ci si avvicina e ci si conosce inevitabilmente. Ci si scontra anche, perché le anime sono tutte diverse e non possono essere sempre d'accordo.
E allora che importanza ha far parte di una famosa metal band losangelina?
DAL TESTO:
«Serj e John stavano intrattenendo una conversazione con una ragazza dai capelli castano chiaro legati in una crocchia.
Un'altra, quasi identica a lei ma leggermente più bassa e più formosa, girovagava per la stanza come una trottola, aggirando i divanetti disseminati sul pavimento con un vassoio di polistirolo in mano.»
Piccole note sulla storia:
- In ogni capitolo troverete una colonna sonora; potrà trattarsi di una canzone dei SOAD o dei progetti paralleli dei componenti.
- Nella storia appariranno alcuni membri di un'altra band, ovvero i Dub Inc, gruppo reggae francese. Non considero comunque questa storia una multiband perché i Dub Inc non saranno protagonisti e appariranno solo in alcuni capitoli. Comunque potrete trovare anche delle loro canzoni nei capitoli.
- Cambierò spesso POV all'interno dei capitoli, ovviamente specificandolo.
Buona lettura :3
Genere: Comico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
ReggaeFamily

Before you know


System Of A Down - Spiders




♫ Sako ♫


Vedere Melanie in quelle condizioni mi faceva male. Cercavo di restare concentrato sulla strada che si srotolava davanti a me; se l'occhio mi fosse caduto sulla ragazza accanto a me, sui suoi occhi gonfi e cerchiati di rosso, sulla sua espressione sofferente, avrei potuto frenare in mezzo al niente solo per stringerla a me e rassicurarla.

Non piangeva più e io non sapevo se interpretarlo come un segno positivo o negativo.

Quel pomeriggio l'avevo accompagnata alla clinica e le ero stato accanto mentre, in sala d'attesa, versava fiumi di lacrime e si accarezzava il ventre, dando l'addio al suo bambino; io avevo provato il forte desiderio di scappare, di rifugiarmi in un bar e bere fino a dimenticare tutta quella faccenda, ma non potevo e non volevo abbandonare Melanie.

L'avevano chiamata e lei non si voleva alzare. Io la rassicuravo, le dicevo che sarebbe andato tutto bene, le accarezzavo i capelli. Dopo circa un minuto, Melanie si era asciugata le lacrime con il dorso della mano e aveva detto: “Vado, tu aspettami qui. Non muoverti, ti prego”.

Ero rimasto su quella sedia per un tempo interminabile, senza guardare né il cellulare né l'orologio. Attendevo e basta. E fantasticavo: mi immaginavo come sarebbe stato avere un figlio, cos'avrei potuto fare insieme a lui, i regali che gli avrei potuto comprare per Natale. Nel mio cervello cominciò a comporsi un film, talmente preciso da sembrare reale: avrei fatto lunghe passeggiate con il passeggino e avrei spiegato al piccolo ciò che lo circondava, gli avrei fatto conoscere il mio lavoro e fatto provare vari strumenti musicali, l'avrei portato in tour con me, l'avrei aiutato a fare i compiti una volta cominciata la scuola, lo avrei aiutato a capire le sue inclinazioni...

E Melanie ci sarebbe stata? Certo, ci sarebbe stata eccome. Sarebbe stata una madre fantastica, bella e dolce.

Forse non mi rendevo conto di quanto stessi soffrendo.

Quando la ragazza mi aveva raggiunto nuovamente in sala d'attesa, non piangeva più. Era debole e stanca, ma si reggeva in piedi e camminava con un coraggio e una dignità spiazzanti.

Da allora aveva pronunciato solo tre parole: “Mi sento vuota”.

Ora la stavo accompagnando a casa sua; la musica veniva sparata dalle casse dell'auto perché Melanie aveva deciso così. Non le piaceva il silenzio.

Una volta giunti sotto il suo condominio, spensi il motore e mi precipitai giù dalla macchina per aiutare Melanie a fare lo stesso.

Ehi, non ti preoccupare, ce la faccio” mi rassicurò lei con un mesto sorriso.

Sei molto debole” commentai preoccupato.

Macché, sto bene.”

Ti accompagno fino a su” decisi.

Lei non rispose.

Il palazzo in cui abitava si trovava in un quartiere modesto e tranquillo; si trattava di una palazzina dalle pareti giallo sbiadito, composta da appartamenti piccoli e anonimi.

Oltrepassammo un portone grigio e ci trovammo in un minuscolo ingresso, sul quale si affacciava soltanto una porta e una ripida rampa di scale. Ci misi un po' ad abituarmi alla penombra; nel frattempo constatai che l'aria là dentro era fredda e umida, e tutti i suoni rimbalzavano sinistramente tra le pareti spoglie.

Ovviamente non si può sperare in un ascensore” borbottai alzando gli occhi al cielo.

Melanie ridacchiò. “Per l'affitto che pago, è già tanto che ci sia il tetto.”

Quando giungemmo al secondo piano, dove si trovava l'appartamento di Melanie, notai che la ragazza era piuttosto affaticata e barcollava leggermente. La sorressi mentre inseriva la chiave nella serratura e apriva la porta d'ingresso.

Vieni, dai, ti offro qualcosa” mi invitò, facendomi strada nel minuscolo ingresso – in realtà si trattava di un angolo del piccolo soggiorno.

Non è il caso che ti lasci riposare?”

Se ti sto invitando, è perché mi fa piacere” ribatté con un'alzata di spalle.

Nella stanza faceva caldo, ma dalla finestra socchiusa filtrava un leggero vento tiepido.

Melanie mi fece accomodare sul piccolo divano in tessuto verde e mi domandò: “Cosa ti porto? Acqua, birra, coca-cola, succo di frutta, tè freddo...? Sono più fornita di un bar”.

Battei sul cuscino morbido accanto a me. “Siediti.”

Ma non sono...”

Siediti, non ho bisogno di niente” ribadii, osservandola con attenzione. I capelli neri e mossi erano stravolti e tenuti insieme da alcuni fermagli colorati, mentre i suoi lineamenti marcati erano contratti e deformati dalla stanchezza.

Dopo qualche secondo di esitazione, si arrese e mi raggiunse sul divano con un sospiro. Lasciò cadere la testa contro lo schienale, poi parve ripensarci e si accoccolò accanto a me, posando il capo sulla mia spalla.

La strinsi a me. Non sapevo bene che dire; forse la cosa giusta era stare in silenzio e rispettare il suo lutto. O avrei dovuto chiederle come si sentiva? Non ci capivo più niente.

Sako?”

Dimmi.”

Me ne sto facendo una ragione.”

Rimasi in silenzio ad assimilare quelle parole. Melanie lo diceva solo per non farmi preoccupare o era sincera?

Adesso sto male e mi chiedo se quello che ho fatto sia la cosa giusta, però non ho voglia di buttarmi giù. Il bambino – o quell'entità che lo sarebbe diventato – ha smesso di vivere, ma io no. E io voglio continuare a vivere: per me stessa, per i miei amici, per te e per il figlio che verrà, quando sarà il momento.”

Ero basito. Non potevo credere che Melanie fosse già giunta a quella conclusione, che si stesse già rialzando dopo quella brutta caduta. Avrei tanto voluto avere la sua forza: più pensavo a ciò che era successo quel pomeriggio, più mi intristivo.

Riflettei bene sulle parole da utilizzare; non ero mai stato particolarmente bravo a parlare ed esprimermi. “Ma è bellissimo, Mel. Cioè, è questo il modo giusto di pensare: farti forza grazie al pensiero di chi ti circonda e di ciò che verrà.”

Tu come stai?” mi domandò lei. Cercò la mia mano con la sua e la strinse.

C'è una domanda di riserva?” bofonchiai. La verità era che non lo sapevo nemmeno io.

Lei non rispose, si limitò a rafforzare la stretta sulla mia mano.

Trascorsero all'incirca un paio di minuti in cui nessuno dei due osò rompere il silenzio: si sentivano soltanto i nostri respiri leggeri, i nostri cuori e i rumori ovattati della città.

Sai Sako, io non sono sempre stata così” disse a un certo punto Melanie, sollevando appena il viso per potermi scrutare.

Inarcai un sopracciglio. “In che senso?”

Sei pronto a sentire una storia non proprio allegra?”

Liberai la mano dalla sua e feci scorrere le dita sul suo braccio con delicatezza. “Se te la senti...”

Lei si schiarì la gola.


I miei genitori si sono separati quando avevo solo due anni; non erano sposati e in realtà la loro relazione non era tanto seria. Mia madre era mezzo pazza, le venivano certe idee bizzarre in testa e allora doveva raggiungere i suoi obiettivi. In quel periodo si era convinta di voler diventare un'attrice di teatro e trasferirsi in Francia. Mio padre, molto più sedentario e abitudinario, non aveva nessuna intenzione di assecondare il suo folle piano; così quell'idiota partì da sola in cerca di fortuna, lasciandomi senza una madre.

E per questo poco male, non ci ho mai sofferto. Avrei preferito essere orfana piuttosto che crescere con una disagiata del genere come madre.

Mio padre allora pensò bene di tornare assieme a me a casa di sua madre, in modo che lei mi potesse crescere e lui se ne potesse lavare le mani. Probabilmente mi voleva bene, ma era rimasto da solo nel ruolo di genitore e non aveva la più pallida idea di cosa fare, così decise di infischiarsene.

Essere allevata da mia nonna è stato un incubo. Sosteneva di essere una donna all'antica, ma per me era soltanto un mostro: mi obbligava a seguire la sua rigida routine, mi abbaiava dietro in continuazione, mi insultava e mi diceva che ero una poco di buono. Mi obbligava a usare i vestiti che diceva lei: non troppo corti, non troppo scollati, non troppo appariscenti... altrimenti sarei sembrata una prostituta. Io ero ancora una bambina, cosa ne potevo sapere?

Quando iniziò la scuola, fu un dramma. Dovevo prendere il massimo dei voti in tutte le materie, studiare come una pazza anche quando stavo male, e contemporaneamente aiutarla nelle faccende domestiche e nelle commissioni. Non riuscivo mai a giocare con i miei amici, non potevo uscire.

Ho un ricordo tremendo legato a ciò. Quando avevo otto anni non mi andava giù la matematica, prendevo giusto la sufficienza; questo a lei non andava bene. Una volta non avevo capito un argomento e non riuscivo a fare degli esercizi. Sai cosa fece lei? Mi tenne seduta al tavolo con il quaderno davanti tutta la notte, fino all'alba, poi mi obbligò ad andare a scuola il mattino seguente. Le pagine del quaderno si erano riempite, sì, ma solo delle mie lacrime.

Lei continuava ad abbaiarmi contro ogni giorno senza pietà, mi raccontava delle storie tremende per spaventarmi e dissuadermi dal fare certe cose. E mio padre se ne infischiava: si era accorto che qualcosa non andava, ma preferiva ignorare la situazione.

Più crescevo, più le ossessioni di mia nonna aumentavano. Sapeva a che ora passava il mio autobus per tornare a casa da scuola, sapeva quanto tempo impiegavo per fare a piedi il tratto dalla fermata a casa, e si era fatta il calcolo dell'orario entro cui dovevo tornare; se tornavo un po' più tardi, mi urlava contro per tutta la sera. Ho cercato di spiegarle tante volte che il bus era rimasto bloccato in mezzo al traffico, ma non mi credeva. Mi diceva: “Chissà cosa combini quando io non ti guardo! Sei una puttana!”.

E io piangevo.

Una volta accadde una cosa che mi traumatizzò. Avevo dodici anni e vedevo sempre le mie amiche che, dopo la scuola, facevano un giro per i negozietti dei dintorni o semplicemente si fermavano in gelateria per fare merenda tutte assieme. Mi chiedevano ogni giorno di unirmi a loro e io rifiutavo sempre perché sapevo di essere cronometrata da quel mostro di mia nonna; ma un giorno, quando mi dissero che nella piazza in cui si recavano sempre avevano allestito delle bancarelle, decisi di trasgredire e accettai. Passeggiai con le mie amiche per circa un'ora e mezza, mangiammo il gelato e spesi tutti i soldi che avevo per comprare ciò che mi piaceva nelle bancarelle e nei negozietti. Fu uno dei pomeriggi migliori della mia vita.

Ma quando rientrai a casa, l'entusiasmo lasciò il posto alla paura. Mia nonna esplodeva di rabbia. Mi diede due schiaffi ben assestati sul viso e mi disse: “Brutta troia, dimmi dove sei stata! Con quanti ragazzi hai fatto sesso, eh? Sei una vergogna, una vergogna! Spogliati!”.

E io, tremante e con le lacrime agli occhi, la assecondai. Non avrei dovuto, lo so.

Quel mostro mi costrinse ad aprire le gambe perché voleva controllare che fossi ancora vergine. E, mentre mi umiliava in quel modo e io piangevo tutte le lacrime che non pensavo di avere, continuava a insultarmi e mi diceva che ero una troia come mia madre.

Da quel giorno divenni un'altra persona: anche quel briciolo di ottimismo che possedevo si era dissolto nel nulla. Mi allontanai da tutte le mie amiche, eseguivo ordini e basta, dalla mattina alla sera. Non ho mai disubbidito a mia nonna, non mi sono mai ribellata e ho fatto a testa bassa tutto quello che mi diceva, sperando di soddisfarla e che mi lasciasse in pace; ma lei continuava a ripetermi che ero cattiva, che sbagliavo tutto, che ero una vergogna e una poco di buono. Mi diede anche della drogata una volta.

Poi, quando avevo quattordici anni, accadde una cosa che non mi sarei mai aspettata. Un giorno tornai da scuola e trovai mio padre seduto in silenzio sulla poltrona, con lo sguardo perso nel vuoto. Disse: “Stamattina nonna è morta”.

In quel momento provai una gioia indescrivibile. Non dissi una parola: mi chiusi in camera mia e per la prima volta piansi di felicità.

Di sera la casa si riempì di parenti, vicini e persone care: tutti addolorati, tutti inconsapevoli. Io rimasi rintanata in camera mia e mi preparai: indossai l'abito più corto e scollato che possedevo – comprato di nascosto –, delle scarpe dal tacco vertiginoso che trovai in casa – forse erano di una qualche zia –, mi truccai pesantemente e scappai. Volevo godermi per la prima volta la mia libertà, fare tutte quelle cose irresponsabili che facevano i miei coetanei. Quella sera volevo essere davvero una puttana, una drogata e tutto quello che mi diceva mia nonna, proprio per fare un dispetto a lei.

Raggiunsi la discoteca dove i miei compagni andavano sempre a ballare e li trovai quasi tutti lì. Erano allibiti, non mi riconoscevano più. Non mi avevano mai visto così.

Quella fu la sera delle prime volte: per la prima volta ballai fino all'alba in discoteca, mi ubriacai per la prima volta, fumai per la prima volta. E sì, feci anche sesso per la prima volta, per ben due volte con due ragazzi diversi.

In quel momento, in quel periodo della mia vita, era quello che volevo.

Smisi di studiare, cominciai a uscire tutte le sere e mi immersi a capofitto nella mia nuova e sregolata vita.

Solo quando conobbi Ellie e Johanna, all'età di quindici anni, mi diedi una calmata. Loro mi aiutarono molto in quel periodo, furono le uniche che potessi davvero considerare amiche.

Ma con i ragazzi la situazione non è cambiata: sono sempre rimasta così, incostante e incoerente. Mi sono sempre voluta divertire: le relazioni fisse non mi sono mai interessate, e le poche volte che mi sono legata a un ragazzo mi sono stufata dopo un paio di mesi. Mi sono imposta di vivere con leggerezza, perché per anni è stato tutto fin troppo pesante.


Ero sconvolto e sconcertato. Non potevo credere che quella ragazza così apparentemente spensierata e allegra potesse aver vissuto un trauma del genere.

E non potevo credere che esistessero degli esseri talmente infimi da maltrattare una bambina e non accorgersi della sua sofferenza.

Osservai Melanie negli occhi: non vi lessi rabbia o tristezza, ma semplicemente disgusto.

Cazzo” commentai. Mi sorpresi di essere ancora in grado di farlo.

Non te l'ho raccontato perché sono in cerca di conforto o di compassione, okay? Ormai è passato.”

Non è giusto. Ma ci rendiamo conto di quello che hai vissuto per colpa sua?” sbottai. Ero arrabbiato, avrei voluto poter prendere a schiaffi quell'anziana donna – se così poteva essere considerata.

Ehi, rilassati! È vero, l'ho odiata e continuo a odiarla, ma ho ancora la possibilità di riprendere in mano la mia vita e diventare quello che voglio e che lei non mi avrebbe mai concesso. Invece lei no, si è dissolta nel nulla e decomposta. Ciao, fine.” Melanie mi rivolse un occhiolino e sorrise.

Vedere le sue labbra distese, le fossette sulle guance e gli occhi leggermente socchiusi mi scaldò il cuore. Neanche un paio d'ore prima era stata privata di suo figlio e ora sorrideva dolcemente, sincera e positiva.

Oddio, Mel, tu... sei un mito. Sei incredibilmente forte e coraggiosa” mormorai.

Se lo dici tu...” borbottò in risposta, con le guance leggermente imporporate.

La scrutai per qualche istante e passai le dita tra i suoi capelli, prima dietro l'orecchio e poi sempre più giù, fino alle punte. Poi, istintivamente, le posai un leggero bacio sulla fronte.

Ehi!” esclamò lei, gettandomi le braccia al collo. Si premette su di me; io le feci posare la testa sul mio petto. Sentire il suo calore addosso era confortante.

Sento il battito del tuo cuore” sussurrò dopo un po'.

Ridacchiai. “Ci mancherebbe altro!”

Calò il silenzio. Io continuavo a cullare e coccolare Melanie; non riuscivo proprio a staccare le mani da lei, dai suoi capelli, dal viso e dalla sua schiena.

Abbassai lo sguardo: si era addormentata.

Non sapevo che mi stava succedendo, non sapevo se fosse normale, ma ero felice di poter vegliare sul suo sonno.



♫ Daron ♫


Oh, cazzo, ma così non è giusto! Che palle!” sbottò Shavo agitandosi sulla sedia.

Così si gioca a scacchi, amico” ribatté John in tono pacato.

Io osservavo bassista e batterista sfidarsi tra loro. Shavo aveva voluto imparare da quando i ragazzi dei Souls avevano regalato a John una bellissima scacchiera in legno lucido, incisa e decorata. Però il mio amico era ancora piuttosto inesperto e si inalberava sempre quando l'altro lo incastrava e riusciva a vincere.

Io lo osservavo in silenzio, bicchiere di birra in mano e auricolare a un orecchio.

Serj e Sako erano spariti.

Vaffanculo, hai vinto anche questa volta!” esclamò Shavo in tono deluso, spingendo indietro la sedia e mettendosi in piedi. Si stiracchiò e mi si rivolse: “Daron, come va? Sei taciturno”.

Sbuffai, poi gettai un'occhiata al display del mio cellulare. “Sono le otto e mezza, andiamo?”

Non hai risposto” mi fece notare John mentre riponeva con cura al loro posto i pezzi del gioco.

I ragazzi ci stanno aspettando al locale” insistetti.

Perché dovevo per forza parlare di come mi sentivo, se non ne avevo voglia? Entrambi sapevano bene cosa mi stava passando per la testa, perché lo dovevo ripetere? Meglio non pensare al problema prima di trovarselo di fronte.

Quel giorno non ero tanto in vena di festeggiare, ma Jacob ci aveva invitato al GrinPub per il suo compleanno e quello di Serj e noi ormai avevamo accettato, non ci potevamo tirare indietro. Mi dispiaceva non essere al massimo proprio in quella ricorrenza, in fondo il chitarrista era stato carino a organizzare quella sorta di festicciola.

Lasciai John e Shavo che parlottavano tra loro in soggiorno, uscii e scesi controvoglia le scale che mi separavano dal cortile. Detestavo il fatto che la casa del batterista fosse al primo piano e non ci fosse un ascensore; io non ero abituato.

Serj e Sako fumavano e parlavano tra loro appoggiati all'auto del cantante. Li raggiunsi e battei un'amichevole pacca sul braccio del tecnico. “Ehi.”

Ehi” rispose Sako lanciandomi un'occhiata stralunata.

Mi offrite da fumare?”

Ce lo stai chiedendo, quindi la nostra non sarebbe un'offerta” precisò il cantante in tono divertito.

Amico, questa roba ha un costo!” aggiunse Sako fintamente indignato.

Per oggi sarete i miei pusher. Vi siete per caso dimenticati delle mie innumerevoli opere di carità?” li apostrofai, incrociando le braccia al petto e mettendo su un'espressione da cerbiatto.

Serj sospirò e Sako scoppiò a ridere fragorosamente.

Vedere il tecnico ridere e scherzare mi fece sorridere. Si stava riprendendo da un brutto periodo, ma ce la stava facendo alla grande e ormai era tornato a essere il Sako allegro ed esuberante di un tempo. Certo, qualcosa in lui era cambiato: nei suoi occhi si poteva leggere una maturità che prima non possedeva, l'esperienza con Melanie lo aveva certamente segnato. Ma era sempre lui, sempre mio fratello, e questo mi rassicurava.

E poi io mi lamentavo della mia situazione...

Fumai e riflettei finché Shavo e John non sopraggiunsero, annunciando che erano pronti a partire.

Salii nei sedili posteriori della macchina del batterista, pervaso da una strana e sorda ansia; per quanto cercassi di scacciarla, non riuscivo in nessun modo a tenerla a bada.

Ormai il momento stava per giungere e io non avrei potuto rimandarlo: stavo per rivedere Ellie.


Una volta giunti al GrinPub, uscii dall'abitacolo con uno sbuffo. Ero agitato e sfogavo questa sensazione nel modo più sbagliato: borbottando, lamentandomi, sbuffando e facendo spazientire i miei amici. Fortuna che mi ero trovato a viaggiare con John, una fonte inesauribile di calma e razionalità.

Ci siamo parcheggiati troppo lontani. E poi nel locale c'è molta gente. E se ci riconoscono? Io non ne ho voglia” brontolai.

John mi affiancò e mi lanciò un'occhiata ammonitrice. “Stammi a sentire: ti sei lamentato per quasi un'ora di fila e la mia pazienza ha un limite. Potresti farmi il favore di chiudere il becco?”

Grazie, molto comprensivo. Ma vaffanculo” conclusi, poi mi avviai a passo di marcia verso il locale; attraversai la strada nel tentativo di seminarlo, senza badare troppo alle macchine che mi sfrecciavano davanti e rischiavano di investirmi.

Non appena misi piede nel locale, mi resi conto che quello di Jacob non era stato un invito per gli amici più stretti: il tavolo del festeggiato, infatti, era circondato da gente che non conoscevo.

Oh no.

Daron!” strillò Jacob non appena mi avvistò; cominciò a sbracciarsi per attirare la mia attenzione e, inevitabilmente, tutti gli sguardi si posarono su di me.

Detestavo tutto ciò.

Mi avviai al tavolo strascicando i piedi a terra. Dietro di me comparvero anche gli altri quattro e tutti li accolsero calorosamente.

Io evitai gli sguardi e i saluti di tutti: mi scaraventai su una sedia e non rivolsi la parola a nessuno. Feci gli auguri a Jacob solo quando si avvicinò a me per chiedermi cosa volessi ordinare.

Amico, sembri di ritorno da un funerale!” commentò.

Ho vissuto momenti migliori” ammisi.

Dai, non fare il depresso! È la mia festa, il mio compleanno!”

Feci spallucce. “Cercherò di fare il possibile.”

Trascorse una buona mezz'ora in cui non mi mossi dal mio posto e scambiai solo qualche parola con chi conoscevo già. Johanna venne a salutarmi e tentò invano di tirarmi su di morale, poi ci si avvicinarono Melanie e Sako e io ne approfittai per chiedere alla ragazza come stava. Apparentemente sembrava essere tornato tutto alla normalità: anche lei aveva ripreso a ridere, scherzare, cantare e ballare come prima, come la cara vecchia Melanie che conoscevo. E non erano passate neanche due settimane dal terribile avvenimento.

Invidiavo la sua forza.

Dal canto mio, non mi ero neanche guardato attorno per cercare Ellie. Sapevo che avrei dovuto farlo: in fondo le dovevo delle scuse e delle spiegazioni, non era certo lei a dover elemosinare una conversazione con me. Ma non ce la facevo, non sapevo che dirle e forse sarei stato troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato.

Ma, com'era prevedibile, non potei evitare la ragazza per tutta la serata.

A un certo punto me la ritrovai vicino, a un paio di metri di distanza. Mi dava quasi completamente le spalle e conversava con Noah e altre persone che non conoscevo. Non si voltò nemmeno per un secondo a guardarmi.

Io invece la scrutavo di sottecchi. Osservavo il modo in cui il suo vestito verde di cotone leggero scendeva lungo i suoi fianchi perfetti, evidenziando le sue forme dolci. Osservavo la sua immancabile crocchia e il fermaglio con le coccinelle che adornava i suoi capelli castano chiaro. Osservavo la sua pelle chiara, leggermente più abbronzata del solito.

E d'un tratto mi ritrovai a osservare il suo viso. Ecco: si era sentita il mio sguardo addosso e si era voltata.

Mi si avvicinò con calma e disinvoltura. “Ciao Daron.”

Ciao... come va?” buttai lì in tono indifferente.

Tutto bene, grazie. Mi accompagneresti fuori? Avrei bisogno di una boccata d'aria.” Il suo tono non lasciava trapelare nessuna emozione.

Proprio adesso?” cercai di temporeggiare.

Hai da fare in questo momento?” ironizzò.

Mi alzai e la seguii verso l'uscita, mentre lo stomaco cominciava a torcersi. Volevo fuggire.

Una volta all'esterno, accesi una canna che avevo preparato qualche ora prima. Non dissi una parola, non sapevo come cominciare una conversazione.

Allora?” mi interpellò la ragazza.

Guardai dritto di fronte a me. “Allora... come te la passi in questi giorni?”

Daron, non tergiversare.”

Non sto tergiversando! Cosa ti devo dire? Cosa vuoi sapere?” sbottai.

Ecco, appunto: smettila di fare il finto tonto, sappiamo entrambi perché siamo qui.”

Presi una boccata di fumo. “Perché non hai risposto al mio messaggio?”

Perché non mi andava. Ce l'avevo con te – ancora adesso in realtà – e non mi è piaciuto il tuo modo di scrivermi... come se non fosse successo niente.” Risposta concisa e precisa. La ragazza aveva le idee ben chiare, a differenza mia.

Io... senti Ellie, quel giorno alla festa... abbiamo sbagliato entrambi” me ne uscii totalmente a caso. Non sapevo quel che dicevo, accampavo un mucchio di frasi fatte.

Cos'hai sbagliato?”

Sollevai lo sguardo su di lei, esterrefatto. “Perché ho come l'impressione che tu voglia farmi da psicologa? Che razza di domanda è?”

Lei scrollò le spalle. “Se non ti va di rispondere, pace. Posso anche tornare dentro.”

No, aspetta, resta qui! Okay, ho sbagliato... ad attaccarti sena motivo. In realtà io sbotto spesso, cioè, cambio umore facilmente: un momento sono allegro, dopo un secondo mi incazzo, dopo un altro secondo divento appiccicoso... e penso che questa cosa ti abbia un po' destabilizzato.”

Ma davvero sapevo tutte queste cose di me stesso e di Ellie? Perché quei pensieri stavano venendo fuori solo in quel momento? Mi sorpresi di me stesso.

Ecco, visto? Quindi tu sai benissimo quel che è successo, i tuoi errori, le mie impressioni... Daron, tu hai capito tutto. Perché non hai mai posto rimedio? Sii sincero: non ti interessa avere un bel rapporto con me, o è semplice orgoglio?” mi incalzò ancora la ragazza, stavolta in un tono più dolce.

Mi fissai le mani, il viso in fiamme, scombussolato dal fatto che lei riuscisse a leggermi dentro.

È proprio la paura di sbagliare con te che mi porta a sbagliare ancora di più.

Orgoglio. Fottuto, inutile orgoglio” ammisi.

Anche io voglio essere sincera. Ti rivelo una cosa: il tuo modo di fare mi ha sempre spaventato e lasciato perplessa. Insomma, questo tuo cambiare umore, il modo di fare invadente... non so come prenderti, Daron.”

All'improvviso mi riscossi. Ero lì, insieme a Ellie, e lei mi stava dando la possibilità di porre rimedio ai molteplici errori che avevo commesso. Tutto dipendeva da quella conversazione: riconquistare un'amica e perderla per sempre. Cosa volevo? Quanto tenevo a lei? Avrei potuto combattere orgoglio e imbarazzo per salvare quel rapporto?

Buttai la mia stecca d'erba a terra, sollevai lo sguardo e puntai i miei occhi in quelli di Ellie. “Sai che ti dico? Mi sono stancato di me stesso. In questi mesi sono riuscito a mostrarti solo la parte peggiore di me; da oggi, 27 agosto 2011, mi impegnerò per farti conoscere la migliore. Le cose positive in me sono molto poche rispetto alle negative, emergono saltuariamente e durano per poco, ma ci sono. Certo, magari non cambierò di punto in bianco, sarò sempre il solito Daron, ma cercherò quantomeno di comportarmi meglio con te. Ci stai?”

Da dove avessi pescato quelle parole, proprio non ne avevo idea. Ancora meno riuscivo a spiegare tutto il coraggio che avevo tirato fuori. Forse qualcosa era scattato in me quando mi ero reso conto che rischiavo di allontanarla per sempre.

Ellie sorrise – uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto – e mi tese una mano. “Ricominciamo tutto da oggi, va bene.”

Gliela strinsi e ricambiai il sorriso. Era come se avessimo suggellato un taciturno patto.

Ero al settimo cielo in quel momento. Ma mentre rientravamo nel locale, un dubbio mi assalì e mi rabbuiai di nuovo: sarei stato in grado di mantenere quella promessa?



♫ Johanna ♫


Sentiamo.” Incrociai le braccia al petto e scrutai con fare critico il ragazzo che mi stava di fronte.

Quando Ellie era rientrata nel locale insieme a Daron, avevo trascinato lei e Miles in un angolo appartato e tranquillo della sala. Ero troppo curiosa di sapere cosa quell'idiota avesse da dirci, così l'avevo tenuto d'occhio tutta la sera fino a trovare il momento giusto per catturarlo.

Mia sorella, accanto a me, si torceva le dita in silenzio.

Ragazze, per me non è facile, potrete di sicuro capire che...” cominciò il biondo, in difficoltà.

Avanti, saltiamo le cerimonie e arriviamo al dunque” lo interruppi.

Ellie mi diede di gomito. “Lascialo parlare.”

Dicevo...” riprese lui, facendo vagare lo sguardo tra la gente che festeggiava inconsapevole alle nostre spalle. “Questa è una cosa un po' complicata per me, ma ve lo devo dire perché avete il diritto di saperlo.”

Sbadigliai teatralmente e mi sventolai una mano di fronte al viso con fare annoiato.

Johanna” mi rimproverò ancora la ragazza di fianco a me,

io mi stavo divertendo un sacco!

Miles sembrava davvero a disagio. “Ecco, Jo...”

Johanna” lo corressi.

Johanna, sì... devi credermi quando ti dico che non ci proverei mai con te e nemmeno con Ellie, questo è semplicemente il mio modo di fare e... insomma, negli anni ho cercato di correggermi ed essere meno invadente, un po' ci sono riuscito ma ho ancora tanto da...”

Non ci interessa la tua storia, la tua infanzia eccetera” cercai di frenare quel fiume di parole superfluo e noioso. “Voglio sapere solo una cosa: c'è una ragione valida, una sola, per cui ti dovrei credere?”

Miles deglutì a fatica; aveva gli occhi sgranati e la fronte imperlata di sudore nonostante l'aria fresca del locale. “S-sì... il fatto è che... non mi piacciono le ragazze, sono gay.”



♪ ♪ ♪



Ehilà!!!

Ultimamente mi sto sbizzarrendo con capitoli pieni di colpi di scena, rivelazioni shock e... momenti dolciosi ^^

Spero che il capitolo, nonostante la sua lunghezza, non sia risultato scarno! Ho deciso di inserire un bel po' di cose e di chiarire un po' di questioni in sospeso!

Vi annuncio che probabilmente questo è il penultimo capitolo prima della partenza per il tour! Pubblicherò un altro capitolo di assestamento e poi, se tutto va bene, i nostri eroi si recheranno in Europaaaa!

E CONOSCERANNO I MIEI AMATI DUB INC!!!! ♥

Ok, la pianto ^^”

Ma ditemi: cosa ne pensate del passato di Mel? Del rapporto tra lei e Sako? Del chiarimento tra Ellie e Daron? E avevate sospettato che Miles avesse “altri gusti”? :P

Sono curiosa di sapere il vostro parere!!! :3

Grazie a tutti voi che ancora siete qui a sostenermi, spero che la storia continui a piacervi e appassionarvi ♥



   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > System of a Down / Vai alla pagina dell'autore: Soul Mancini