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Autore: RadCLiff_    23/10/2018    3 recensioni
Quando la società è divisa per caste genetiche, solo i migliori possono arrivare a realizzare i propri sogni.
In un mondo dove solo i migliori tra i migliori potevano vivere, dove ogni rapporto era basato sulla genetica di appartenenza, lei non avrebbe rinunciato al suo sogno. Nonostante la sua classe genetica fosse la più infima, Clarke voleva arrivare disperatamente alla fonte della sua luce, alle stelle.
Sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa, anche a morire.
Clexa Slow Burn
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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VII





«Normalmente ti direi che non mi devi nessuna spiegazione perché siamo adulti, ma qui mi obblighi a fare la ficcanaso e chiedertelo» si girò verso Clarke, «Allora da dove vogliamo incominciare?»

«Da dove posso iniziare…» ripeté.

Ad essere sincera, non le andava di proprio di spiegare nulla ma la scelta era stata obbligata tra il minor male, e quello era Raven.

Da dove poteva iniziare? Si poteva iniziare da qualunque parte e procedere da lì per arrivare al cuore della questione. Alla fine, ogni cosa è connessa, ogni cosa è legata, ognuna inevitabilmente conduce all’altra.

Di fatto non importava da dove iniziasse a spiegare dato che aveva mentito spudoratamente dall’inizio fino alla fine.

Le passò un braccio sulle spalle ridacchiando, «Sai che alla tua fidanzata puoi dire tutto, ora che la terza incomoda ha levato le tende, puoi raccontarmi tutti i tuoi più oscuri segreti» le fece un occhiolino, «Magari inizia nel dirmi qualcosa che non so» le sorrise Raven.

Risero.

«Ho un cane… ogni tanto» disse girando lo sguardo, quasi dubitasse lei stessa di quell’affermazione.

«Questa sera sei piena di sorprese. Mi piace».

Clarke ordinò un altro giro nel frattempo.

«Raven, grazie mille per avermi coperta con Lexa. Tra l’altro sei stata fenomenale, se fallisci nel campo aerospaziale datti alla recitazione.»

«Ehi, non spostiamo l’attenzione su di me, i riflettori sono tutti puntati su di te stasera. Hai per caso avuto una tresca con Lexa? La stessa Lexa rompicoglioni Woods, che uccide tutti con lo sguardo al lavoro?» sottolineò l’ultima parte, «Fammi sognare con i vostri drammi.»

Clarke con disinvoltura disse, «Abbiamo avuto una super tresca al lavoro, ora è innamorata pazza di me e io cerco di scaricarla senza ferirla.»

«Davvero???» era rimasta a bocca aperta a mezz’aria. Sopracciglia alzate, lo sguardo incredulo dalla sorpresa.

«Ma certo che no. Cercavo di darti dramma» fece spallucce mentre prendeva un sorso, «Un paio di giorni fa è capitato che ero a passeggio e senza volerlo sono finita all’AMI-»

«L’AMI?» chiese perplessa, interrompendo.

«No, non la amo. La trovo una bella donna, ha uno sguardo davvero magnetico, per non parlare dei suoi maledetti bellissimi capelli sempre perfetti» i suoi occhi si persero un momento nel vuoto mentre cercava di ricordare mentalmente la morbidezza che suscitava quella chioma insieme al quel taglio verde che le caratterizzava lo sguardo, «L’hai mai notato?»

Raven la guardava con un sopracciglio alzato, «Sam, mi riferivo alla sede, non volevo sapere quanto sbavassi dietro Lexa. E no, non ho mai fissato così a lungo Lexa da notare l’intensità dei suoi occhi o… i suoi fantastici capelli perfetti» concluse scimmiottando le ultime parole che aveva detto l’amica.

«Io non sbavo dietro Lexa» rispose corrucciata.

«Se ti fossi vista mentre lo dicevi non mi risponderesti così»

«Ha ragione» intervenne la voce di Murphy, mentre ripuliva un tavolo adiacente alle due ragazze.

Si era fatto molto tardi e il locale aveva iniziato a svuotarsi pian piano. Rimanevano piantati solamente ubriachi e veterani etilici, impegnati a bere e ridere come fossero solo alla prima birra. Murphy aveva già iniziato a pulire e riordinare il locale in attesa che gli ultimi clienti decidessero di concludere la serata per tornare a casa.

Senza nemmeno guardarlo, Raven gli urlò di smettere di origliare e tornare a lavorare.

Clarke ignorò i due e continuò con la spiegazione, «Tornando al discorso, quella sera ha incontrato il mio… tutore quando mi ha dato un passaggio a casa. Lui era molto arrabbiato perché avevamo avuto dei diverbi e quella notte era venuto a sistemare le cose, ma quando ha visto Lexa ha pensato che avessi ignorato tutte le cose che mi ha sempre detto di non fare.»

«Come portarti a casa il tuo capo? Non ha tutti i torti, potrebbe risultare piuttosto equivoco.»

«Qualcosa del genere…» sospirò, «Si preoccupa che potrei perdere il lavoro se fossi cacciata nei guai con i miei superiori» cercava di spiegarlo meglio, «Diciamo che, quando mi hanno assunta, non tutto quello che hanno saputo e sanno sul mio conto è vero, e se le cose andassero storte potrebbero essere guai molto seri. È complicato. Vorrei solo chiederti di fidarti di me» l’ultima frase lo disse con un filo di voce.

Clarke aveva optato per mentire anche a Raven, costruire un’altra versione di sé stessa da presentarle per giustificare quello in cui l’aveva trascinata, ma alla fine forse la versione più semplice e credibile era la verità stessa. Certo, con qualche piccola omissione e qualche dettaglio in meno.

Puoi ingannare poche persone per molto tempo, puoi ingannare tante persone per poco tempo, ma sicuramente non puoi ingannare tutti per sempre. La verità viene sempre a galla. Sempre. Tanto vale abbracciarla. Anche quando si mente a sé stessi, il cervello presto o tardi si ribella, inizia a comunicare, attraverso sintomi e disagi.

In un modo o nell’altro, la verità riesce ad emergere incondizionatamente, meglio anticiparlo fornendo una versione più vicina alla realtà possibile. Dopotutto, la verosimiglianza era qualcosa d’intermedio tra la verità e la bugia. Non le stava mentendo ma non si stava nemmeno esponendo completamente.

Ed infine, nessuno può ricordare alla perfezione le proprie menzogne se adeguatamente sollecitate e messe in discussione, e Raven non era certo stupida. Oltre a essere più facile da ricordare, per qualche ragione non voleva mentirle più dello stretto necessario.

«Beh», fu l’unica cosa che uscì inizialmente dalla bocca di Raven, «Sai, sono tante le cose che mi sto chiedendo in questo momento ma non te le porrò. Credo che tu abbia avuto le tue buone ragioni per fare ciò che hai fatto ma tutto è questione di equilibrio e così anche la bilancia tra verità e menzogna. Da amica ti vorrei raccomandare solo di stare molto attenta a quello che fai» le strinse le spalle con una mano, «E ovviamente quando vorrai potrai raccontarmi tutto quanto».

Clarke si allungò e abbraccio Raven, «Grazie.»

«Non fare la sentimentale, puoi sempre contare su di me, cosa ti aspettavi che ti dicessi eh?»

Di tutta quella serata forse quel Grazie era stata l’unica cosa vera e genuina, dall’inizio fino alla fine, che era uscita dalla bocca. La sua voce non era strozzata perché era commossa dalle parole di Raven ma lo era perché la disponibilità e gentilezza della ragazza avevano provocato in lei un fastidio.

Un senso che le risaliva dalle interiora e si aggrappava fino alla sua gola, un turbamento di energia negativa.

Senso di colpa probabilmente, perché sapeva che la ragazza seduta davanti a lei non si meritava un’amicizia basata sulla menzogna, eppure eccola lì che continuava a mentire e mentire pur di proteggersi.

Sotto una facciata di perfezione si nascondeva la sua paura di essere rifiutata o abbandonata per quello che era. Un gesto poco coraggioso nonostante le scelte “coraggiose” che aveva fatto.

Sentiva che se quella notte avesse raccontato tutto a Raven, questa l’avrebbe accettata lo stesso ma in fondo aveva solo avuto paura perché era una codarda. Paura di ferirsi, paura di ferirla. Paura.

La voce calma e calda di Raven interruppe i pensieri di Clarke mentre ancora la teneva quell’abbraccio, «Cambiando discorso, lo sai che mi hanno riammessa per la prossima missione nello spazio?».

«Cosa? Ma è fantastico!» l’abbraccio si sciolse mentre l’entusiasmo di Clarke prendeva il sopravvento, «E dimmi quando parti?»

«Tra un paio di giorni, hanno dei problemi con la stazione in orbita. Serve un ingegnere molto ingamba che si occupi della faccenda» continuò a elogiarsi mentre Clarke roteava gli occhi, «E tu che ti preoccupavi, te l’avevo detto che non mi avrebbero ripresa in un batter d’occhio. Non possono farcela senza di me» ridacchiò.

«Non montarti la testa ora. Un giorno di questi potresti scoprire che sono persino più ferrata di te in meccanica.»

«È una minaccia questa?»

«Hai forse paura?» la stuzzicò.

«Ti farò rimangiare tutto quanto» disse accettando quella amichevole velata sfida.



 


 

 

È incredibile come alle volte le cose accadano. Ci si ritrova in mezzo a persone e situazioni che mai si avrebbe immaginato, eppure quei giorni arrivano per tutti.

Come semplici fantocci guidati dal caso, ci si ritrova con le gambe all’aria tra le stelle, e si ha soltanto il tempo di dire Wow, mentre il mondo che si è sempre avuto alle spalle scompare.
Basta un attimo, un solo sguardo, un solo istante e un’intera vita cambia, per sempre.

Non è mai facile tirare fuori dal nulla un inizio. I romantici amano il finale, il finale che in qualunque modo andasse a finire lasciava sempre un vuoto dentro e un senso di desolazione. Ma l’inizio, l’inizio è sempre un dramma, una parte da saltare o quanto meno da affidare al cieco destino. La strada però avanti, non si ferma. E alla fine siamo noi a inseguirla, non tanto per giungere alla meta, semplicemente per andare avanti, perché quel che conta realmente non è l’inizio né tantomeno la fine del viaggio, ma i singoli passi e le emozioni che ne accendono l’anima.

Era una mattina come tutte le altre. Il solo faceva fatica ad alzarsi, mentre Lexa si rigirava sudata fra le lenzuola bianche.

Una luce pallida s’insinuava nelle fessure della persiana riflettendo strane figure sul pavimento freddo, mentre il soffitto, squarciato dai sogni, restava muto a fissarla.

Aveva passato tutta la notte in compagnia dei suoi pensieri e, come capitava spesso, l’alba non aveva fatto che amplificare quelle preoccupazioni riciclate.

Si mise a sedere con un peso sul petto e il fiato smorzato, come se avesse corso per tutta la notte appresso al passato, e dentro di sé si diceva che aveva esagerato notte passata e avrebbe sicuramente smesso ma neanche il tempo di mettere un piede per terra e già aveva un’altra cartella tra le mani. «Non farò più notte in bianco a lavorare».

Purtroppo, la verità era che ogni singolo giorno c’era un motivo per non smettere, c’era sempre qualcosa da controllare e sistemare. Doveva e continuava a farlo.

Era brava in quello che faceva e lo faceva meglio degli altri. Il suo vantaggio comparato.

Era come se fosse nata per essere lì, per svolgere quel ruolo ed essere parte di quella grande macchina che era il sistema.

Un ingranaggio perfetto.

Quel giorno era un giorno come tutti gli altri, o avrebbe dovuto esserlo.

Era il giorno del grande lancio, grande per dire, perché sarebbe stato il lancio di una semplice missione di 2 giorni – seppur quei due giorni avrebbero pesato sulla bilancia della vita più di qualunque altro giorno già trascorso, e senza saperlo, avrebbe segnato una sorta di spartiacque fra ciò che era stato e ciò che sarebbe stato.

Quella mattina la radio parlava di un accoltellamento da qualche parte in qualche lontana città, la notizia non stupì minimamente la donna al volante.

La vita era una continua battaglia e purtroppo c’era chi perdeva. Non possono esserci vincitori senza vinti e purtroppo, a volte i vinti uscivano di scena nella maniera più ingiusta e tragica possibile.

La parola giustizia aveva mutato il suo significato nel corso degli anni, o forse era sempre stato quello, alla fine dei conti la giustizia era la legge di chi deteneva in pugno tutto quanto.

Spesso si chiedeva perché lei era nata per fare quello che faceva, era sempre stata dalla parte del giusto nel concetto più relativo del termine, ma non per questo le piaceva quella giustizia.

C’erano state volte che si chiedeva come sarebbe stato essere qualcun’altro, non dovere più essere quello che tutti si aspettavano che fosse. Non dover più fare quello che tutti aspettavano che facesse.

Forse tra la scelta di essere o non essere, dovere o fare, lei voleva semplicemente capire.

«Buongiorno Lexa» disse un uomo con un camice bianco e una cartella in mano, «Abbiamo ricevuto l’aggiornamento dello schema di lancio che ci hai mandato. È tutto pronto, stiamo ultimando gli ultimi preparativi.»

«Molto bene, grazie.»

Quel giorno, come tanti altri, tutti i membri dell’equipe sedevano alla lunga scrivania intenti a trafficare con i loro sofisticati calcoli ai computer. Lavoravano insieme e ognuno per conto suo, per occuparsi di un aspetto o un altro del lancio imminente.

I preparativi procedettero senza intoppi e presto una grande nuvola bianca avvolse interamente la rampa di lancio.

Il razzo iniziò la sua salita verso il cielo.

Lo schermo luminoso si focalizzava sul punto più alto della rampa, si vedeva il razzo passare rapidamente. La luce accecante generata dai potenti motori, non permettava di distinguere la parte sottostante che veniva avvolta da un’immensa nuvola di fumo mentre il razzo passava dentro le nuvole nel cielo.

«Grandi!»

«Evviva!»

Mentre il vociare per la riuscita del lancio alimentava la sala, Lexa si diresse verso l’esterno.

Una volta che osservi così tante volte la stessa identica cosa, perde il suo fascino naturale ma più tra tutte essa resuscitava un ricordo che cercava di lasciarsi alle spalle da troppo tempo.

La vista di una schiena ricurva, braccia incrociate e la testa rivolta verso l’alto catturò la sua attenzione.

«Se andavi nella sala di controllo potevi vedere meglio il lancio» disse mentre si avvicinava alla figura affacciata.

«Lexa, anche tu qua» rispose sorpresa Clarke.

«Avevo bisogno di una boccata d’aria fresca, è stata una giornata intensa» il suo sguardo si posò sul profilo della ragazza davanti a lei, mentre quest’ultima era come ipnotizzata da quella scia che pian piano scompariva nel cielo, «Lavori qui già da un bel po', non ti sei ancora stancata di vedere i lanci?»

«Ogni lancio è diverso, e non credo mi stancherò mai di guardarli» i suoi occhi brillarono per un momento, «Per tutta la vita li ho visti solo dietro un piccolo schermo, ora finalmente li posso vedere ogni volta che ci sono, dal vivo. Tutto questo rende sempre più vero il giorno in cui anche io sarò lassù.»

«Perché vuoi andarci? Non c’è niente lì» chiese, quasi con una nota di tristezza.

Clarke prese un momento per pensarci, «Molte volte mi hanno chiesto quale fosse il motivo e io ho sempre risposto che è stato da sempre il mio sogno fin da quando ero bambina» fece una pausa, «Ma la verità probabilmente è che lì puoi dimenticarti di chi sei.»

Partire per lo spazio era un po' come sparire, il nome della persona veniva anagraficamente sospeso, ufficialmente non risultava nemmeno partita ma nella pratica era sparita dalla terra.

Sulla terra ma irraggiungibile. Era lo strano e primitivo modo in cui si metteva rimedio al vuoto legislativo in materia di spazio.

Lexa aggrottò le sopracciglia davanti a una risposta tanto criptica, «Non ti piace essere chi sei, Sam?»

Clarke ridacchiò, le si formò un nodo in gola al pensiero di averle confidato quella mezza verità che metteva a nudo sprazzi del suo io, «Scusami Lexa, era solo una riflessione fuori luogo. Con tutte le cose che sono accadute, sono solo sovrappensiero.»

Una mano calda si posò sul braccio di Clarke, stringendolo delicatamente. «Anche Reyes era nel lancio di oggi. Le comunicazioni sono sempre attive nella sala di controllo, puoi seguire i suoi aggiornamenti da lì.»

«A-ah sì, certamente. Grazie Lexa» il tocco inaspettato della donna accanto a lei l’aveva colta alla sprovvista. Un battito le saltò alla gola.

«Ci tieni molto a lei» lo disse quasi più per sé stessa che per Clarke, «E lei tiene a te»

Onestamente, Lexa non sapeva nemmeno cosa stesse dicendo o perché lo stesse dicendo. Non le doveva riguardare cosa facesse o chi frequentasse Sam, ma stranamente le importava.

C’era una nota di fastidio in tutta quella situazione, aveva iniziato a rendersi conto che nutriva forse dell’affetto per Sam. Ma non aveva sempre imparato che i sentimenti erano meglio tenerli incatenati da qualche parte, così in profondità nel suo cuore da poter convincere persino sé stessa che cose simili non esistessero?

Eppure c’era qualcosa di quella ragazza che l’attirava a sé, sembrava diversa e sfuggente e la luce dei suoi occhi, che cercavano ogni volta le stelle più luminose, erano più determinate di qualunque altro sguardo avesse mai visto.

L’ultima frase di Lexa non sfuggì alla sua interlocutrice, per un istante sentì l’impulso di dirle la verità, di smettere di fingere e abbandonare la sua maschera ma tacque.

Aveva lavorato troppo duramente per abbandonare tutto ora.

«Lexa, io-»

Un flebile boato si sentì nell’aria in contemporanea a dei veloci passi che si facevano sempre più vicini. «Dottoressa Woods! Venga subito, abbiamo avuto un problema!»

L’attenzione di Lexa si diresse subito verso l’uomo con il camice bianco che affannosamente la stava chiamando appoggiato all’entrata. Corse subito incontro all’uomo, sperando che non fosse niente di grave.

«Dmitri, dimmi cosa succede?»

«Il lancio è fallito! Pochi minuti dopo la partenza abbiamo rilevato un problema ai propulsori. La navicella ha subìto un arresto dei motori ed 'è andato in stato di emergenza”

Una mano prese il polso di Lexa, «Lexa, che succede?» gli occhi visiblmente preoccupati, non aveva potuto fare a meno di sentire parole come lancio fallito ed emergenza.

«Scusami Sam, devo andare» scostò il braccio e la lasciò lì.

Si diressero in fretta nella sala di controllo, dove pochi minuti prima si sentivano solo frasi entusiaste, adesso regnava il caos più assoluto.

«Che n’è dell’equipaggio a bordo?» chiese preoccupata mentre si metteva una mano tra i capelli, «Ho detto che ne è stato dell’equipaggio!»

Una donna seduta accanto a lei rispose al posto di Dmitri, «Abbiamo perso i contatti quando hanno iniziato la discesa balistica. Forse i contatti si sono danneggiati nell’esplosione di uno dei motori.»

Perfetto. Praticamente il suo equipaggio era caduto dal cielo come una pera cotta, schiacciata dalla forza di gravità in seguito a un’esplosione. Nella migliore delle ipotesi Reyes e Richards erano disperi e feriti, nella peggiore...beh non voleva nemmeno pensarci. Oltre a tutto l’iter burocratico per chiudere la faccenda avrebbe dovuto pure occuparsi dell’ondata dei mass media. Lo sciacallaggio giornalistico era sempre un tema molto caldo.

«Secondo gli ultimi segnali satellitari, l’astronave deve essere caduta nell’oceano atlantico settentrionale. Abbiamo le coordinate»

«Che diavolo aspettate? Mandate una squadra di recupero, adesso!» gridò Lexa, «Voglio un resoconto dettagliato di tutti i controlli degli ingegneri al più presto.»

Doveva occuparsi della faccenda personalmente, con l’equipaggio disperso in mare e senza contatti, non sapeva nemmeno l’entità dei danni. Velocemente si diresse in mezzo a quei lunghi corridoi, doveva andare subito sul luogo dell’impatto.

A un certo punto la vide e non potè fare ameno di chiamarla «Sam! Vieni con me, si tratta di Reyes.»

«Lexa, cosa è successo al lancio?» le sue iridi azzurre la scrutavano preoccupate della risposta che avrebbe ricevuto.

Lexa non sapeva come dirglielo nel modo migliore, Raven poteva essere o dispersa o morta, o semplicemente morta dispersa.

«Forza andiamo.»


 





Come previsto i giorni successivi furono un inferno in mezzo alla stampa. La ricerca fu più difficile del previsto, i danni ai motori erano stati ingenti e l’impatto con la superficie dell’acqua non aiutò affatto. In pochi attimi la struttura interna della navicella era allagata e affondò in fretta, inghiottita dalle profondità marine.

Raven e Mike dovettero appoggiarsi a superfici di fortuna, staccatesi dalla navicella, per rimanere a galla. Inutile dire che furono in balìa delle correnti, erano come pupazzi nelle mani del destino.

I soccorritori ci misero un paio di giorni a ritrovarli. Disidratati e gravemente feriti, ma almeno erano vivi.

Entrambi furono ricoverati urgentemente nella sede dell’ospedale militare.

Clarke osservava attraverso il vetro il viso sereno e quieto di Raven. Qualche ciocca di capelli spuntavano indomati dalla leggera fasciatura sulla fronte. Una gamba ingessata, era davvero ridotta male.

Molti macchinari erano attaccati in un modo o nell’altro alla ragazza, mentre leggeri bip risuonavano entro le mura interne.

Da quando Raven era in quella stanza, Clarke aveva notato che spesso incrociava un ragazzo mentre veniva a trovarla, e anche quel giorno era lì.

«Ciao» disse Clarke, «Ho notato che ci incontriamo spesso. Sei un’amico di Raven?»

Il ragazzo le sorrise imbarazzato, «Piacere, mi chiamo Kyle. Sono un’amico di Raven, spesso lavoriamo insieme nella sezione di ingegneria.»

«È ingamba»

Una risposta infelice che fece voltare Kyle.

Fortunatamente il ragazzo ignorò la cosa, «Sì, non c’è persona più ferrata di lei in queste cose» ammise tristemente, «E tu sei...Anya!»

Una risata le risalì in gola, «No, non sono affatto Anya» la fantomatica storia con Anya non aveva proprio risparmiato nessuno, «Sono Sam, della sezione spaziale. Ma in realtà scaldo solo le scrivanie dell’ufficio» scherzò, «Raven non mi aveva mai parlato di te.»

«Voleva tenermi tutto per sè» rispose scherzando, ma l’ironia aveva lasciato la ragazza confusa. Possibile che Raven frequentasse questo tipo? «Non fraintendermi, sono solo un amico. Mi ha respinto tante volte perché è già impegnata con questa Anya, vedendoti spesso qui pensavo fossi tu. Ti prego non dirglielo se la conosci, mi ha detto che sa picchiare forte.»

Clarke rise tra sé e sé, pensò che aveva proprio ragione, Raven più di chiunque altro si divertiva ad alimentare questa storia per tenere lontani gli inconvenienti. Si lamentava per il puro gusto di farlo ma poi era la prima a farne le veci. «Tranquillo non le dirò niente»

Kyle si scostò come se fosse intimorito improvvisamente, imbarazzato si congedò in fretta. Il motivo era presto svelato.

«Come sta?» chiese Lexa.

«L'hanno messa in coma farmacologico. Inoltre non sanno i danni effettivi alla gamba fin quando non si sarà risvegliata.»

«Mi dispiace, se posso fare qualcosa...»

«Grazie Lexa»

Alla fine, l’unica cosa che sentì di fare fu di cingerla in un caldo abbraccio per cercare di alleviare quel momento «Starà bene vedrai.»

Clarke potè sentire tutto il calore della donna in quel gesto del tutto inaspettato, riusciva ad avvertire il piacevole solletichio del respiro di Lexa sul suo collo.

Un brivido le risalì fino alla nuca mentre il suo cuore iniziava ad accelerare più del dovuto.

Dopo un momento di sorpresa, si abbandonò in quel contatto tanto rassicurante e dolce, i suoi polmoni si riempirono della sensazione della foresta ogni volta che le sentiva davvero.

Quando il suo stomaco iniziò a contorcersi, le sue braccia scivolarono in automatico all'altezza della vita della donna. Fu un gesto che non sfuggì alla sua sensazione, il corpo di Lexa si irrigidì all’improvviso.

«Sam...»

La sua voce l’aveva risvagliata da quel momento. All'improvviso era di nuovo lì, si accorse di essersi lasciata troppo andare e di aver commesso un passo falso.

Sciolse immediatamente il contatto. Occhi verdi iniziarono a cercarla.

Clarke iniziò a farfugliare cose senza senso e prima che l’altra potesse ribattere era già sparita dalla sua vista. Mentre scappava via da quel posto, da quegli occhi, un unico pensiero di faceva perentorio nella sua testa: non poteva continuare così, doveva stare alla larga da Lexa.



 





Note: Probabilmente i capitoli non usciranno più a cadenza settimanale, purtroppo con la ripresa degli impegni di tutti i giorni dopo le vacanze, è difficile trovare sempre il tempo e rispettare la scadenza (⌣̩̩́_⌣̩̩̀) Cercherò comunque di aggiornare entro le 2 settimane o al più presto. Grazie per il vostro interesse, anche se non rispondo sempre ai commenti, li apprezzo tanto e me li leggo sempre. Un abbraccio * u*
  
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