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Autore: _Agrifoglio_    07/11/2018    21 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La morsa della solitudine
 
Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse”.
 
Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano”.
 
Dopo avere terminato la lettura, Diane ripose il libro sul tavolo.
– Bene, Diane, potreste riassumere questo passo de “La Vita Nuova”? – domandò Oscar alla giovane allieva.
– Mentre Dante Alighieri e Beatrice Portinari erano in chiesa, una dama venne casualmente a trovarsi lungo la traiettoria dei loro sguardi, tanto da credere di essere la destinataria di quelli di lui. Dante si accorse sia dell’equivoco sia del fatto che anche gli altri presenti vi erano caduti e, per molto tempo, usò questa donna come schermo dei propri sentimenti, per ingannare i fiorentini e proteggere il suo amore per Beatrice.
– Perfetto, Diane, quello che dite è giusto.
– Madamigella Oscar, non credete che il comportamento di Dante sia stato scorretto? L’altra donna avrebbe potuto innamorarsi di lui, senza contare che, probabilmente, aveva anche lei un marito e dei figli. La reputazione di lei contava meno di quella di Beatrice?
– Questo non lo sapremo mai, Diane – rispose Oscar, ridendo.
– Oh! Sì, è stato molto scorretto! – insistette, accoratamente, Diane – E anche Beatrice, qui, non ci fa una bella figura. Tralasciando il fatto che era sposata con un altro, come poteva tollerare, senza battere ciglio, che l’uomo che diceva di amarla rivolgesse le sue attenzioni a un’altra donna, seppure per finta? Tutto ciò denota un animo freddo e un carattere incline alla simulazione.
– Beatrice, infatti, non era partecipe dell’inganno, vi cadde anche lei e tolse il saluto a Dante – rispose Oscar, al culmine dell’ilarità.
– E fece bene e, anzi, si sarebbe dovuta alleare con l’altra signora e, insieme a lei, dargli una lezione!
Trascorso un breve intermezzo fatto di sdegnate proteste e di divertite spiegazioni, la giovane domandò:
– Madamigella Oscar, credete che sia possibile usare degli schermi per ingannare se stessi oltre che gli altri? Si può fare ricorso a delle false verità per essere disonesti col proprio cuore e non soltanto per sviare il prossimo?
– L’animo umano sorprende per la sua imprevedibilità – rispose Oscar, punta sul vivo e bianca come un cencio lavato – Andate a riposarVi e a cambiarVi d’abito, perché, fra un’ora, inizierà la lezione di equitazione.
Quando Diane se ne fu andata, Oscar venne colta da uno dei fastidiosi accessi della sua tosse nervosa, terminato il quale, come sempre più spesso le accadeva, fu abbrancata da scomode riflessioni.
Usare schermi per sviare la propria mente”, “Essere profondamente disonesti con se stessi”, lei era maestra in tutto ciò. Aveva sempre affrontato la vita senza mezze misure, tutto o bianco o nero, ma, per raggiungere un suo equilibrio, a certi compromessi, sia pure a livello inconscio, era dovuta scendere. Questi tarli la angustiavano da mesi e, adesso, non poteva più metterli a tacere.
Per tutta la vita, aveva usato schermi per evitare di scontrarsi con gli aspetti più conflittuali della sua personalità e, pur essendo sempre stata onesta e specchiata nella vita pubblica, era stata altrettanto bugiarda e reticente con se stessa. Si era costruita un mondo a sua misura, dove viveva sicura come in uno scrigno o in un forziere e, per evitare di soccombere, aveva fatto della sua diversità un vanto.
Fersen era stato un portentoso schermo che le aveva impedito di soffermarsi su tante cose. Dietro l’alibi di un amore impossibile, protetta dal paravento di un uomo che mai l’avrebbe messa in pericolo ricambiandola, aveva potuto giustificare con se stessa la propria solitudine e autoattribuirsi un barlume di normalità. Aveva pagato l’obolo alla sua natura femminile repressa, illudendosi che, in tal modo, questa non le si sarebbe rivoltata contro mentre inseguiva il mito del vero soldato e del semidio.
Fersen era stato utilissimo anche per quell’altra faccenda, perché, così come avevano fatto i fiorentini con Dante, anche lei, concentrandosi sul miraggio, aveva distolto l’attenzione da colui che si collocava sulla linea retta oltre lo schermo.
André…. André che l’aveva affiancata senza mai chiederle niente…. André che aveva assorbito tutti i malumori di lei e che si era preso, senza reagire, tutti i rimbrotti che gli riservava, goffi e irrazionali tentativi di dissimulare un’attrazione smisurata e un sentimento profondo, sepolti negli anfratti più oscuri dell’anima…. André, il cui basso rango era stato un’ottima giustificazione alla ritrosia di lei e un ulteriore schermo, dissoltosi come neve al sole nella mattina del quindici agosto, quando le distanze sociali si erano azzerate, mettendo a nudo le barriere della mente e le paure del cuore…. André, il cui amore, nel profondo dell’anima, aveva sempre percepito e probabilmente ricambiato, ma che, per suo comodo, aveva inconsciamente relegato all’interno di una relazione ambigua….
Non che fosse obbligatorio ricambiare qualcuno, ma l’onestà, quella sì, era d’obbligo…. Avrebbe dovuto, già molto tempo prima, mettere ordine dentro di sé e fare con lui un discorso chiaro e onesto, così da fargli intendere che, nella mente di lei, non c’era spazio per teneri sentimenti di amore e dolci pensieri e da rendergli una salvifica, seppur dolorosa libertà…. Lo aveva tenuto, invece, legato a sé come eterno cavalier servente, perché le faceva comodo godere di quello scampolo di vita mentre perseguiva i suoi miti. Egoista, egoista, egoista, si era voltata dall’altra parte e aveva perpetrato uno scempio ai danni di una persona che, per troppa mitezza, per troppo amore e per troppa solitudine, si era sempre trovata, di fronte a lei, in condizioni di minorata difesa.
Del resto, cosa ci si sarebbe potuti aspettare da una che, dalla nascita, portava impresso nelle carni il marchio del ripudio e della solitudine? Aveva cominciato la sua vita con un rifiuto e non era meritevole d’amore….
Un colpo di tosse più forte dei precedenti la riscosse da quelle dolorose riflessioni.
Oscar, sbrigati, non indugiare, che, fra poco, inizierà la lezione di equitazione!
 
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André camminava per i sentieri boschivi che si snodavano fuori della città di Lille, incedendo fra gli alberi che costeggiavano il percorso, i cui tronchi, nella parte inferiore, erano ricoperti di muschio e, a tratti, celati da piccole foglie che spuntavano da sottili rami secondari. Il viottolo era puntinato da foglie secche e da rametti che formavano, più in là, ai lati del sentiero, un autunnale manto ai piedi degli alberi dove abbondavano anche le rocce, le radici ricurve e fuoriuscite in superficie, le felci e la vegetazione del sottobosco. Fra mucchi di foglie secche, alcuni radi fili d’erba e qualche tronco caduto, non era infrequente vedere spuntare dei funghi, di varie forme e colori. Di tanto in tanto, le fronde erano agitate da un uccello che spiccava il volo per librarsi in cielo o per cambiare il ramo su cui stazionare.
Il giovane ricordava di quando, da bambino, i genitori lo portavano a passeggiare per la campagna del suo paese, a sgranchirsi le gambe e a cogliere le more, muniti di cestini di vimini e di grossi bastoni con cui percuotere i rovi e spaventare le vipere.
Voltò leggermente la testa e, da sotto il ramo di un albero, gli apparve la città che si estendeva sotto l’altura che stava percorrendo.
Aveva impiegato poche settimane a integrarsi nel tessuto cittadino e ancora meno tempo a comprendere le caratteristiche delle sue terre e le esigenze dei villici che le abitavano e dei braccianti che le lavoravano.
I rapporti che intratteneva con gli abitanti del luogo erano, in prevalenza, ottimi, date la giovialità e la modestia di cui era fornito e l’amichevolezza che caratterizzava i francesi del nord, ma, malgrado fosse, per natura, portato ad accettare il prossimo, non essendo un ingenuo, si era accorto anche di alcuni aspetti disfunzionali.
Avere mutato condizione sociale lo aveva messo nella posizione di chi osserva un arazzo a trama rovesciata. Finché era un plebeo, aveva percepito la tracotanza e la boria di alcuni nobili e di qualche ricco borghese mentre, adesso, avvertiva la spiacevole sensazione prodotta dall’altrui invidia e, a volte, dall’odio puro di chi aveva o pensava di avere di meno. Per quanto lavorasse sodo e si spendesse per i bisognosi, c’era sempre chi avrebbe gioito nel vederlo in difficoltà o, addirittura, privato di tutto. Aveva, in passato, biasimato l’atteggiamento scostante e inarrivabile di certi ricchi mentre, ora, si accorgeva che c’erano persone che ne ricercavano la vicinanza esclusivamente perché era nobile e benestante, rasentando l’invadenza e millantando con gli altri una confidenza inesistente. Chi ha di più è incline a reificare i meno abbienti, considerandoli degli individui amorfi da sfruttare o da ignorare, ma chi ha meno tende a vedere nel più fortunato un trofeo, una meta di rivalsa o un bersaglio da colpire per sfogare il proprio malessere. Chi è mal disposto o soltanto superficiale, qualunque sia la propria condizione, trova sempre il modo di spersonalizzare l’altro e di chiudersi a lui, col risultato di non percepirne le esigenze, le istanze e i problemi e di ridurlo a un oggetto. Da sottoposto, aveva stigmatizzato l’arroganza e l’incompetenza di chi stava ai vertici mentre, da padrone, aveva capito quanto fosse difficile organizzare il lavoro proprio e altrui, mettendo d’accordo più teste, spesso accomunate soltanto dall’esigenza di guadagnare, ma divise da invidie, rivalità, avidità, rancori oltre che dalla tendenza alla critica e alla lamentela. Se, quando era un plebeo, il cuore gli si era stretto alla vista dei poveri e dei derelitti, ora, amministrando le sue terre e aggirandosi per esse, si era accorto che, accanto ai villici poveri, ve ne erano degli altri che simulavano la miseria e si rifiutavano di coltivare oltre una certa soglia per evitare di incappare nelle disfunzioni di un sistema tributario mal strutturato che penalizzava la produttività. Diversi erano i contadini che, pur dicendosi poveri e affamati, celavano, sotto delle ben mimetizzate botole, grandi buche scavate nel terreno, piene di provviste e di ogni ben di Dio da sottrarre al tassatore.
Guardò davanti a sé, in cerca dei suoi cani che erano corsi avanti, sparendo dalla vista di lui. Erano due cuccioli di beagle chiamati Storm e Velvet, retaggio del soggiorno in Inghilterra dal quale era recentemente tornato.
Alla fine di ottobre, essendo terminato il lavoro nei campi, aveva accolto l’invito del Conte di Canterbury di recarsi presso di lui, scegliendo quel mese autunnale in cui l’oceano non era ancora ingrossato dai marosi e i venti gelidi non avevano iniziato a flagellare le terre del nord. Era rimasto in Inghilterra per quattro settimane, passando il tempo a fare lunghe passeggiate in brughiera e a visitare le proprietà del Conte di Canterbury e degli amici di lui, traendone innumerevoli spunti per l’organizzazione delle sue tenute. Con l’occasione, si era recato a Londra e, accompagnato dal suo nuovo amico, ne aveva visitato i monumenti e i luoghi caratteristici. Era tornato a casa alla fine di novembre, arricchito di nuove nozioni e di interessanti spunti per coltivare le sue terre e, cosa di non poco conto, padrone di due cani, appartenenti a una razza che lo aveva colpito, da subito, per vivacità, simpatia, intelligenza, affettuosità, allegria e comicità oltre a una buona dose di testardaggine e di imprevedibilità.
Li vide, finalmente, svoltare la curva del sentiero e tornare indietro verso di lui. La femmina aveva in bocca un ramoscello frondoso mentre il maschio aveva trovato una pigna e giocava a lanciarla in aria e a riprenderla. Scorgerli gli strappò un sorriso e gli scaldò il cuore: quelle due creature erano un argine alla solitudine che lo avviluppava.
Tornò, quindi, alle sue riflessioni. Dopo una vita trascorsa alle dipendenze degli altri, si occupava, adesso, di cose che gli appartenevano, rispondendone in prima persona. Doveva prendere, in totale autonomia e senza consultarsi con alcuno, decisioni spesso necessitanti di una notevole rapidità di pensiero che si ripercuotevano immediatamente su di lui e sui sottoposti. Sebbene fosse stato efficiente e zelante anche da dipendente, ora che era padrone, essere la fonte di ogni determinazione e portare su di sé il peso di altre esistenze aveva cumulato responsabilità e tensione a impegno e fatica. Doveva relazionarsi direttamente con gli altri, mostrandosi autorevole e sicuro e facendo appello, all’occorrenza, a una buona dose di combattività e di autorità.
Fra un pensiero e l’altro, l’attenzione di lui fu catturata dai cani che, arrivati al culmine della salitella che stava percorrendo, erano intenti a fissare il sentiero sottostante, a lui nascosto, con le code ritte e le corde vocali impegnate in un incessante abbaio. Pochi istanti dopo, dalla direzione opposta del sentiero, giunse nella parte più alta del pendio Mademoiselle de Saint Quentin, abbigliata con giacca e gonna di lana marrone scuro, adatte alle lunghe passeggiate. Sul capo, aveva un cappello a tricorno, pure marrone, che le copriva soltanto in parte i capelli neri, raccolti dietro la testa in un alto chignon e ricadenti, sul lato destro, in due boccoli mentre i piedi erano calzati da un paio di stivali marroni. Col braccio, la giovane donna reggeva un ampio cestino di vimini, colmo di funghi, che aveva iniziato a raccogliere di buon mattino.
– Conte di Lille – disse la Marchesina, appena lo ebbe visto, col volto sorridente e lo sguardo fattosi allegro – Che piacere vederVi!
– Mademoiselle de Saint Quentin, il piacere è tutto mio! – la salutò André – Oggi, siete mattiniera – aggiunse, dopo aver guardato il ricco contenuto del cestino, significativo testimone di un lavoro di raccolta che si protraeva da ore.
– Voi, invece, lo siete sempre, stando a quel che si dice – rispose la signorina mentre il vento le faceva ondeggiare i riccioli ribelli ai lati del volto.
– Il lavoro chiama – disse lui allegramente.
– E noi rispondiamo – fece eco lei con un sorriso.
– Siete veramente coraggiosa ad avventurarVi per questi sentieri solitari.
– Li conosco come le mie tasche. Mio padre mi ci portava a passeggio da quando iniziai a camminare.
Guardando, poi, il risultato delle sue fatiche, aggiunse:
– Credo di avere raccolto funghi per un intero reggimento. La mia cuoca avrà un bel da fare ad arrostirli tutti! Perché, domani, non venite a desinare da noi? Mio fratello sarà felice di rivederVi.
– Mademoiselle, ne sarei lieto, ma devo incontrare l’amministratore delle mie terre e….
– Cosa avete da temere? – sorrise lei, divertita – Dirò alla cuoca di arrostire i funghi, mica Voi!
– Non lo metto in dubbio, Signorina – scoppiò a ridere André.
– Oh! Forse, Voi temete che …. – esclamò la giovane donna con una risata – Non Vi preoccupate, colgo funghi da quando ero una bambina, mio padre mi ha insegnato bene a distinguere quelli commestibili dai velenosi e Lucrezia Borgia non era una mia antenata! Se volete, potremmo munirci di un assaggiatore!
Storm, intanto, si stava grattando un orecchio con la zampa posteriore mentre Velvet gli rivolgeva un abbaio, esortandolo a riprendere la corsa.
– Sono stata fidanzata, secoli fa, Conte di Lille. Lui era un Marchese della mia stessa età che viveva nelle vicinanze. Partì per la guerra d’indipendenza americana e non fece più ritorno.
– Mi rincresce.
– Cosa spinge, secondo Voi, un uomo che ha tutto a cercare la gloria oltre oceano, in una guerra che non gli appartiene? Irrequietezza, immaturità, curiosità, desiderio di dimostrare al mondo il proprio valore?
– Un insieme di tutte queste cose, credo – rispose André – In poche parole, la giovinezza.
– Da allora, non ho più avuto legami. I miei genitori sono morti giovani e io sono rimasta in casa, a crescere mio fratello e a occuparmi delle proprietà di lui.
– Tutto ciò Vi fa onore, Mademoiselle.
– Siete sempre stato così solo, Conte di Lille?
– No – rispose André, con un filo di voce.
– Ma lei Vi ha lasciato… Vi aspetto domani a mezzogiorno, Conte – concluse la Marchesina, con un tono di voce fattosi, improvvisamente, più alto e gaio – E non temete, non Vi avvelenerò.
Dopo che André la ebbe salutata con un inchino, lei si voltò dall’altra parte e proseguì la passeggiata, sparendo dietro agli alberi.
 
********
 
– Diane, ricordate che Vi rimangono soltanto venti minuti per completare il Vostro componimento di storia.
– Sì, Madamigella Oscar, non temete! Questa volta, riuscirò a terminare in tempo.
Oscar guardava Diane e non poteva fare a meno di confrontarla con Rosalie. Quest’ultima nascondeva, sotto un’apparente debolezza e un’inclinazione al pianto, una forza d’animo fuori dal comune mentre la prima, pur sembrando allegra e perennemente meravigliata della vita, al di là dei facili entusiasmi, era pessimista e tendente a intristire. Rosalie era resistente e portata a reagire mentre Diane era fragile e, anziché sforzarsi di cercare una via di uscita dai suoi problemi, pareva crogiolarsi in essi e quasi compiacersi nel farli scorrere da una parte all’altra della sua mente. La piccola Lamorlière era molto aperta alle novità, avida di apprendimento, capace di riformulare i suoi giudizi e di cambiare opinione sugli altri ed estremamente predisposta a integrarsi in tutti gli ambienti sociali mentre la giovane de Soisson, pur non disdegnando affatto la cultura, era poco incline all’evoluzione del pensiero, stentava a mutare l’idea alla quale si era affezionata e faceva fatica ad adattarsi ai ceti diversi da quello di provenienza. Rosalie era naturalmente empatica, riusciva a immedesimarsi nei problemi degli altri e a intuirli e trovava sempre la parola giusta per rinfrancare lo spirito di chi le stava vicino, attenuandone il fardello e facendolo sentire meno solo mentre Diane era concentrata su se stessa, capiva poco o nulla dello stato d’animo degli altri e, a causa di questa carenza, non era infrequente che, in modo del tutto involontario, mettesse il dito nella piaga e commettesse qualche gaffe. Rosalie era affettuosa mentre Diane era soltanto riconoscente e rispettosa, la prima sorprendeva con delle virtù nascoste mentre la seconda dava l’idea di essere mediocre, l’una contagiava ottimismo, l’altra tensione emotiva. Rosalie era il bastone e il vincastro mentre Diane era una pietra d’inciampo. L’una era la sorella minore mai nata, l’altra un’opera di misericordia. Il tutto poteva riassumersi nella considerazione che Rosalie era un ausilio, un soffio rinfrescante, una brezza di primavera, una seconda giovinezza mentre Diane era un’ulteriore responsabilità, una fonte di preoccupazione, un vento pazzerello e, a volte, carico di pioggia, una finestra aperta su un universo accidentato e potenzialmente morboso.
Le suscitava compassione e cercava di aiutarla come poteva, tentando di scuoterla dal torpore della volontà e dalle ferite dell’anima, ma non possedeva la chiave di quel cuore e sospettava che neppure Diane avesse dimestichezza con le sue disordinate pulsioni.
Oscar sospirò nel constatare che mai quella giovinetta l’avrebbe salvata dalla morsa della solitudine che la stava stritolando e la stessa Diane, pur apprezzando l’ospitalità e gli insegnamenti che le erano offerti e gli agi della vita signorile, si sentiva sola, soffriva lo sradicamento dal suo ambiente d’origine e sospirava in attesa delle visite del fratello, divenute, purtroppo, sempre più rade, a causa della distanza di Palazzo Jarjayes dalla caserma e dei molti impegni di lui.  
 
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– Colonnello de Girodel, è tutto pronto per la missione di domani? – chiese Oscar, al momento di andarsene – Il falsario Gabriel Leclerc sta creando dei gravi problemi ed è ora che lo staniamo.
– Sì, Comandante, è tutto pronto.
– Bene, ci vediamo domani, io torno a casa e Vi saluto.
– A domani, Comandante.
Girodel si avvicinò alla finestra e fissò lo sguardo sull’imbrunire.
Mademoiselle de Chambord gli mancava moltissimo. Si erano tenuti compagnia per diversi mesi come buoni amici e, adesso che lei non c’era più, si sentiva terribilmente solo. Era, ormai, del tutto certo che il sentimento che provava per lei era molto più intenso di una semplice amicizia e che l’amore che aveva provato per Oscar apparteneva al passato.
Prima che ella fosse partita alla volta di Chambord, per scongiurarne l’allontanamento, aveva pensato di chiederle la mano e, al fine di sondare il terreno, aveva buttato lì alcune frasi con suo padre, prendendo la questione alla lontana. Il vecchio Conte, che non era uno sciocco, con gesti nervosi e voce alterata, aveva espresso il suo pensiero senza mezzi termini, dicendo che un nobile senza patrimonio vale quanto un terreno brullo, pieno di sterpi e di sassi e aveva minacciato il figlio di diseredazione, se gli avesse portato a casa quella pezzente. Girodel, come sempre, aveva ceduto e lei era andata via.
Adesso, era solo, di nuovo solo, disperatamente solo e non gli restava che biasimare se stesso, perché, anche in quell’occasione, così come per la vicenda di Oscar, non ci aveva creduto fino in fondo e non aveva fatto tutto il possibile per conseguire il risultato. Era partito sconfitto, non aveva giocato al meglio le sue carte, non ci aveva messo la giusta determinazione, aveva issato bandiera bianca prima ancora di impugnare le armi ed era rimasto solo. Il risultato era che lei se ne era andata e avrebbe trovato un uomo più uomo di lui.
Girodel chiuse gli occhi davanti al tramonto, si allontanò dalla finestra e si preparò, pure lui, a tornare a casa.

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Torre-nella-nebbia
 
La torre diroccata, troneggiante in cima all’altura, si stagliava contro il cielo plumbeo, attorniata da scheletri di alberi nodosi che avevano ceduto le foglie all’autunno così come quel cumulo di pietre, fiero avamposto militare di epoche passate, aveva consegnato forza e vigore al trascorrere dei secoli, agli assalti degli uomini e agli oltraggi del cielo e dell’aria. La nebbia di novembre saliva fitta dall’erba sbiadita e umida, dal manto giallo e rosso delle foglie cadute e dagli arbusti addormentati e spogli, galleggiava nell’aria e si univa al cielo, sfumando i colori e i contorni dell’edificio e degli alberi.
Oscar, Girodel e un piccolo manipolo di Guardie Reali ristavano ai piedi dell’altura, intabarrati nei loro mantelli militari, a scrutare, da sotto in su, il sassoso rifugio di Gabriel Leclerc, il falsario parigino che aveva preferito quel solitario nascondiglio a un covo celato nel ventre marcio dei bassifondi parigini. La quiete delle campagne suburbane non aveva giovato al desiderio d’involarsi del malvivente, reo di avere falsificato importanti documenti di alcuni nobili della corte e, per effetto di minuziose indagini a tappeto, protrattesi per alcune settimane, il rifugio di lui era stato intercettato.
Muti e in fila indiana, i soldati si inerpicarono sulla scala di pietra, delimitata da una ringhiera di legno, raggiungendo, in pochi minuti, la porta rettangolare della torre.
– Aprite, in nome di Sua Maestà il Re o butteremo giù la porta – tuonò Oscar, con voce potente che rimbombava nell’eco.
Non ci fu bisogno di far seguire alle minacce i fatti, perché la porta non era chiusa con spranghe e chiavistelli. Le Guardie Reali entrarono nel vano di pietra, umido e oscuro e, come in un copione già scritto, lo trovarono abbandonato. Un corvo nero come la pece, disturbato dagli uomini, abbandonò, d’improvviso, il suo rifugio, posto su una trave del soffitto e volò fuori della porta, con un gracchiare stridulo e un fremito di ali. I soldati trasalirono ed estrassero le pistole, prima di accorgersi che il trambusto non aveva provenienza umana.
A parte dei fogli di carta sparsi sul pavimento, un tavolaccio di legno sbeccato, rovesciato per terra e una filigrana impolverata di ragnatele alle pareti, la torre era disabitata e vuota.
– Capitano de Valmy, tornate alla reggia con le Guardie Reali e stilate un resoconto della giornata. Il Colonnello de Girodel e io rimarremo a completare la perquisizione.
Rimasti soli nel rudere, Girodel si mise a cercare eventuali botole o porte nascoste mentre Oscar si avventurò per la scala malamente illuminata dalle feritoie che costeggiava le pareti interne della torre, al fine di reperire un qualsiasi indizio da quelle pietre mute e sorde.
Nulla trovarono e, dopo essere ridiscesi ai piedi dell’altura, montarono a malincuore sui loro cavalli e li spronarono verso la reggia. Durante il tragitto, commentarono quell’ennesimo insuccesso, con voci fioche e animo avvilito finché giunsero in un castagneto. Girodel, desideroso di porre fine a quella malinconia, saltò giù dal cavallo e indicò a Oscar un mucchietto di castagne cadute a terra. Alcune erano spoglie mentre altre erano ancora avvolte dai loro ricci marroni. Girodel ne colse una e, liberandola dall’involucro irsuto, con voce allegra, disse a Oscar:
– Comandante, raccogliamo alcune di queste castagne cadute, accendiamo un fuoco e arrostiamole. Ciò non capovolgerà gli esiti di questo fiasco di missione, ma, almeno, avremo goduto dei frutti dell’autunno!
Oscar accondiscese e i due ufficiali si misero a raccogliere castagne e rami spezzati e, dopo averne racimolato una quantità ragionevole, accesero il fuoco, circondandolo di pietre. Si sedettero, infine, l’uno di fronte all’altra, davanti alle fiamme crepitanti che ravvivavano, progressivamente, con nuova legna mentre, con alcuni ramoscelli, rigiravano le castagne nella brace. La nebbia, intanto, si era diradata e alcuni raggi di sole avevano squarciato le nubi, rischiarando il bosco. L’odore della castagne arrostite, dei gusci carbonizzati e della legna arsa impregnava l’aria e lo scoppiettio del fuoco rompeva il silenzio dal quale i due ufficiali erano avvolti. Girodel levò lo sguardo su Oscar che piluccava le sue caldarroste, ne colse l’espressione stanca e triste, si rispecchiò in lei, si riconobbe nella solitudine che le incupiva il volto e le inaridiva l’anima e avvertì una dolorosa stretta al cuore.
 
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Era una giornata serena e il sole di fine novembre rischiarava, con i suoi raggi obliqui, i tetti del borgo medievale che si ergeva vicino alla Loira.
Mademoiselle de Chambord, seduta accanto alla finestra del salottino di casa sua, leggeva un libro, approfittando della luce mattutina e del cielo terso. Da quando aveva lasciato la reggia, era passato un mese e mezzo, nel corso del quale aveva fatto ritorno al suo paese natale, trovandovi una sistemazione dignitosa. Con la rendita corrispostale dalla Casa Reale, riusciva a condurre in locazione un signorile quartierino nella piazza principale di Chambord, a mantenere una governante, una cuoca e una fantesca e a vivere un’esistenza decorosa e morigerata da nobile non ricca, ma rispettabile.
Le giornate si susseguivano pigre e uguali e la giovane donna le trascorreva impegnata, per lo più, nella lettura e nel ricamo. Almeno una volta al giorno, usciva di casa, lasciava le vie del borgo e si avventurava per i sentieri di campagna, tonificando i muscoli con lunghe passeggiate e venendo a patti con i ricordi. Pur essendo ancora moderatamente giovane, era convinta che il meglio, nella sua vita, ci fosse già stato e che i restanti giorni a lei concessi si sarebbero trascinati in un avvicendarsi di eventi opachi e di ricordi sempre più lontani, appartenenti al periodo più felice della sua esistenza, purtroppo trascorso in un lasso di tempo troppo breve. Le mancavano gli impegni di dama di corte, il sorriso gentile di una Regina magnanima che l’aveva salvata dall’ombra di un chiostro solitario e le persone meravigliose che aveva conosciuto. Un volto su tutti serbava gelosamente nel cuore, il bel volto aristocratico e un po’ malinconico di un raffinato gentiluomo cui avrebbe voluto donare la vita e che mai avrebbe rivisto. Lui era un ufficiale delle Guardie Reali e apparteneva a una delle primarie famiglie del regno mentre lei era una nobile decaduta senza un soldo di dote e, ormai, intenta a percorrere l’ultimo tratto di strada della sua gioventù. I nobili non erano tutti uguali….
Accennò un debole sorriso, richiudendo quel volto nello scrigno dei ricordi e fissando negli occhi la sua solitudine. Si levò in piedi e ripose il libro sul mobiletto tondo vicino alla sedia: era ora di dedicarsi alla quotidiana passeggiata.
– Leontine, preparatemi l’abito da passeggio, per favore.
Scostò le tende di pizzo del suo corredo che era riuscita a sottrarre all’avidità della famiglia materna e guardò in strada.
Chi avrà legato quel magnifico cavallo dabbasso? Non si trovano esemplari così belli nei dintorni – pensò la donna mentre riaccostava le tende.
Fu proprio in quel momento che udì qualcuno bussare alla porta d’ingresso e la vecchia governante affrettarsi ad aprire.
– C’è un gentiluomo che chiede di Voi, Mademoiselle – disse la donna mentre entrava nel salottino – Un uomo dall’aria molto distinta, con dei lunghi capelli castani.
– Fatelo passare – disse lei, con un filo di voce, rassettandosi la gonna e pizzicandosi le gote, affinché divenissero più rosee.
Pochi attimi dopo, lui fece ingresso nella piccola e luminosa stanza e i due si guardarono come se non lo facessero da secoli.
– Sono lieta di vederVi, Colonnello. A cosa devo l’onore della Vostra visita?
– Perdonate l’ardire, sto infrangendo tutte le regole e non dovrei essere così esplicito – iniziò a parlare lui, con voce commossa e volto turbato – Ma mi siete mancata oltre ogni dire, in queste settimane di lontananza. Dormo poco, ho perso il gusto per il cibo, concentrarmi mi risulta difficile e i miei pensieri sono rivolti soltanto a Voi.
Lei lo ascoltava col fiato spezzato e le lacrime agli occhi, senza osare proferir parola.
– Sono venuto a deporre la mia vita ai Vostri piedi, se Voi la vorrete.
– Oh, mio caro…. – sussurrò lei, non trattenendo più le lacrime che le solcarono il viso, attenuando la compostezza di una vita – Io non voglio che Voi…. 
Non ci fu bisogno di altre parole. Lui le prese delicatamente le mani fra le sue e se le accostò al cuore.







Questi ultimi quattro capitoli che si sono susseguiti dall’arrivo di André a Lille in poi sono serviti a illustrare le vite solitarie dei protagonisti e il loro percorso umano. Dal prossimo capitolo, si tornerà nel vivo della trama e la narrazione subirà un’impennata.
Buona lettura a tutti!
   
 
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