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Autore: Old Fashioned    16/11/2018    18 recensioni
In un laboratorio sotterraneo vengono portati avanti esperimenti su un antico manoscritto tibetano che secondo la leggenda dovrebbe avere la funzione di "estrema difesa" per chi lo possiede. Cosa significhi questa espressione non è noto, così come ormai è sconosciuta la tecnica di canto armonico necessaria per recitarlo nella sua completezza.
Un nuovo e sofisticatissimo programma di campionatura del suono, Marsia 2.1, rende finalmente possibile una fedele riproduzione del canto, ma gli effetti dell'invocazione sono decisamente inaspettati.
Prima classificata al contest "Bionica Mente" indetto da Molang sul forum di EFP, a pari merito con "Card speak for themselves", di LyaStark.
Prima classificata al contest "Specchi, ombre e presagi: il Doppelgänger" indetto da Shilyss sul forum di EFP, a pari merito con "Il bianco è un colore crudele", di Myrose.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Salve a tutti,
ecco un nuovo capitolo della mappazza, spero che apprezzerete. Grazie a tutti quelli che sono passati per di qua, che mi hanno letto e/o piazzato in qualche lista, ma soprattutto grazie a tutti quelli che mi hanno commentato!^^




Capitolo 2

Immobile nei ranghi, Westbrook fece girare intorno lo sguardo per quello che la posizione di riposo gli consentiva. Gettò un'occhiata a Beau, che volse impercettibilmente la testa verso di lui e sussurrò: “Saranno cazzi.”
“Silenzio, Lyles!” abbaiò il caporale Mitchell. Il soldato grugnì qualcosa di inintelligibile.
“Piantala, se no ti faccio pulire i cessi di tutta Aguas Muertas.”
Beau si limitò ad articolare con le labbra la parola 'Fanculo'.
Di nuovo calò un silenzio rotto solo dall'impercettibile ronzio dell'impianto di aerazione.
Chet alzò lo sguardo sul soffitto, chiedendosi se fosse vero quello che dicevano, ovvero che in ogni stanza, dietro le pannellature fonoassorbenti e riposanti per la vista, si nascondessero apparecchiature che in caso di contaminazione della base venivano azionate per eliminare ogni forma di vita. Cercò di immaginare dove fossero e quasi dovette trattenersi per non spostarsi, una volta che ebbe l’impressione di averne individuata una.
Fissò anche gli altri membri della squadra, per quanto poteva, e gli parve che non ce ne fosse uno tranquillo. Persino il sergente, quando entrò nella stanza, aveva un cipiglio che non gli aveva mai visto.
Il sottufficiale scorse alcuni fogli che aveva in mano, quindi annunciò: “La fase preliminare della sperimentazione si è conclusa ieri. La seconda fase comincerà domani, alle zero nove zero zero antimeridiane.” Prese un pennarello, si avvicinò a una lavagna bianca e vi tracciò un semplice schema del laboratorio. “La squadra Alpha prenderà posizione nel vestibolo,” annunciò, dopo aver tracciato una A rossa nel punto indicato, “pronta a intervenire di supporto nel caso fosse necessario. La squadra Bravo sarà all'interno del laboratorio...”
“Ehi, perché proprio noi?” non poté esimersi dal protestare Beau. La frase innescò un coro di brontolii di disappunto.
“Silenzio!” ordinò Mitchell. “Silenzio! Piantala, Lyles!”
I brontolii a malincuore cessarono. Il sergente riprese: “La squadra Bravo, che ha avuto i migliori risultati ai test medici dopo esposizione al materiale di sperimentazione, rimarrà all'interno del laboratorio. La squadra Charlie presidierà la zona dell'ascensore e dei montacarichi, la squadra Delta è addetta al controllo in sala monitor.”
A quelle parole, di nuovo Beau esplose: “E che cazzo! A saperlo, mi cagavo addosso, in quel fottuto laboratorio, e poi voglio vedere se i test medici erano positivi!”
“Lyles!”
“No, Lyles un cazzo! Io...”
“Basta! Ne riparliamo quando questa faccenda è finita, comunque.”
Di nuovo, a malincuore il soldato si tacitò e rimase, torvo e immobile, a fissare ostinatamente un punto all'infinito dietro le spalle del sottufficiale.
“Adunata domani alle zero otto zero zero antimeridiane,” disse il sergente, “tenuta da combattimento, elmetto e giubbotto antiproiettile.”

Una volta che fu dato l’ordine di rompere le righe, Beau si rivolse a Chet: “Tenuta da combattimento? Ma chi cazzo dovrebbe arrivare in quel laboratorio, i terroristi islamici?”
L’altro si strinse nelle spalle. “Non lo so. L’hai visto anche tu cosa succede là dentro.”
“Sì, certo.”
“Beh, non sono cose normali, se capisci quello che intendo dire. Visto che comunque domattina saremo là, non mi dispiacerà avere la tenuta da combattimento e l’M-4.”
I due abbandonarono la stanza e presero a camminare fianco a fianco lungo un corridoio. Beau non dimenticò di mostrare il dito medio alla telecamera di sorveglianza quando ci passò sotto.
“Secondo te di cosa hanno paura?” chiese dopo un po’, “Che qualcuno vada fuori di testa per colpa di quei suoni strani?”
“Dubito che ci farebbero intervenire in tenuta da combattimento, se il problema fosse qualcuno che va fuori di testa.”
Lyles non rispose, i due continuarono a camminare in silenzio. Dopo un po’, fu Chet a riprendere il discorso: “Non è quello che ho sentito dire in giro, perlomeno.”
Beau si voltò a fissarlo. “Cosa?”
“Le persone fuori di testa. Non sono loro il problema.”
“E quale sarebbe allora?”
Chet si guardò intorno, poi abbassò la voce e rispose: “Sembra che quella nuova arma che stanno studiando non sia così ben controllabile come credevano.”
“Sì, ma che genere di arma sarebbe?” chiese Beau, un po’ impressionato da quell’aria di mistero.
Westbrook stava per rispondere quando alle loro spalle echeggiò la voce del caporale Mitchell: “Ehi, voi due! Venite qui, ci sono le camerate da pulire!”

§

Sprofondato nella poltrona, Kozlov alzò appena lo sguardo e salutò: “Ciao, Me.” Fece un sorrisetto. “Qual buon vento?”
Me si fece avanti senza rumore e si sedette sul letto. Le molle, che di solito cigolavano in modo straziante, rimasero mute.
Sotto il riverbero del suo camice candido, la coperta dalla fantasia tipo tartan si trasformò in un intrico di vasi pulsanti, di cavi luminosi attraversati da energie sconosciute. Divenne un mazzo di fibre ottiche di tutti i colori, che a ogni intersezione generavano gocce di luce così intensa da fare male agli occhi, stillanti come rugiada, brillanti come gemme.
“Sono venuto a salutarti,” disse in tono pacato. Lentamente si passò una mano fra i capelli corvini e Kozlov quasi si incantò nel seguire con lo sguardo le ciocche di un nero purissimo che scorrevano tra dita bianche come marmo. “A salutarmi?” mormorò, lo sguardo calamitato dalla straziante perfezione plastica di quel pur semplice movimento.
Me abbassò la mano e si raddrizzò nella persona. “I campi di contenimento sono instabili,” disse.
“Basta che tengano fino alla fine della traccia audio.”
L’altro scosse la testa. “Sarà lì che cominceranno i problemi.”
Kozlov gli rivolse uno sguardo torvo. “I problemi? Per un po’ di plasma che scoppietta?”
“Oh, fosse solo qualche scarica elettrostatica di troppo...” buttò lì Me.
“D’accordo, c’è stata anche qualche persona che si è sentita male,” concesse il professore. “E allora? Gente impressionabile, psichicamente immatura.”
L’altro scosse la testa. “Non hai bisogno di mentire. Non a me, perlomeno, dal momento che io so tutto quello che sai tu.”
Kozlov distolse lo sguardo. Si guardò le mani e gli parve di vedere ogni poro della cute, i capillari, i muscoli, traslucidi e rossi come frutti, con i tendini di un candore abbagliante, quasi argentato. E sotto di essi le ossa, in tutto il loro eburneo nitore, con i capi articolari coperti da uno strato di cartilagine lucida e azzurrina come uno strato di ghiaccio… “Basta, sto divagando,” disse asciutto. Tornò a fissare il suo ieratico visitatore.
Questi gli rivolse un lieve sorriso, quindi domandò: “Te lo sei chiesto, vero? Io so che te lo sei chiesto.”
“Di cosa stai parlando?”
Che cosa ha ucciso tutti quei soldati russi. Nonostante la tua entusiastica presentazione, so che all’inizio eri scettico: hai pensato dapprima a un artefatto fotografico e poi anche a una banale truffa, ma non hai certo rifiutato la possibilità di lavorare con apparecchiature come quelle che ci sono qui, giusto? Lasciamoli alle loro fantasie, hai pensato, io intanto ho l’occasione di sperimentare come voglio e raccogliere dati.” Fece una breve pausa, poi proseguì: “Quando hai capito che non si trattava di artefatti?”
Kozlov rimase in silenzio. Non c’era stata una vera e propria illuminazione, nessun Eureka! gridato mentre correva nudo per le strade. Era stato piuttosto l’accumularsi di dati sperimentali che non collimavano con quelli attesi, di fenomeni che sembravano sfuggire a ogni tentativo di interpretazione. Nemmeno Marsia, la più sofisticata tecnologia di analisi spettrografica disponibile sul mercato, era stato in grado di fornire una spiegazione attendibile di certe cose che nondimeno erano accadute.
Si affondò le mani tra i capelli, strinse le ciocche tra le dita e le tirò come se avesse voluto aprirsi in due la testa.
Gli giunse di nuovo la voce pacata di Me: “Il manoscritto, vedi, è un catalizzatore.”
Kozlov abbassò le mani e lo fissò con interesse. “Che intendi dire?”
“Ti sei mai chiesto cosa significhino le sue figure?”
“Sono dei demoni. Sciocche superstizioni di un culto primitivo.”
“Perché li hanno rappresentati così?”
“Coazione a ripetere, immagino. Schemi precostituiti e socialmente accettati per raffigurare creature potenti e spaventose.”
“Si, ma il primo che li ha raffigurati, da dove ha tratto l'idea di farli in quel modo?” chiese Me.
Il professore alzò le spalle con noncuranza e rispose: “È un problema che attiene all'antropologia, forse. Non certo alla Scienza.”
“Dipende.”
“No, nel mio campo, nulla dipende. Ci sono solo misure esatte. Un litro d'acqua pesa un chilo sia qui che a Buenos Aires che a Helsinki e bolle a cento gradi Celsius in tutti e tre i posti.”
“Se questo fosse il metro di valutazione, il valore della Gioconda si potrebbe calcolare sommando il costo della tela, dei colori usati per dipingerla e delle ore di lavoro di Leonardo.”
“Per me è così.”
“Ma la realtà contingente ti insegna che invece non è così.” Me fece un lieve sorriso, enigmatico come quello dell’opera che aveva appena nominato, quindi soggiunse: “L'importanza di quelle figure va al di là della mera composizione chimica dei pigmenti usati per dipingerle.”
“E dove risiederebbe, secondo te?”
“Sono proiezioni di qualcosa.”
“Sarebbe a dire?”
“I mostri dell’inconscio. Non dirmi che non ci hai pensato, perché so che l’hai fatto.”
L’uomo si chiuse per lunghi secondi in un silenzio meditativo, infine disse: “Poniamo che tu abbia ragione. L’insieme delle armoniche ionizza i gas dell’atmosfera, conferendo loro un’enorme energia. Le figure del manoscritto evocano l’immagine di mostri dell’inconscio collettivo. Ma in che modo si combinano le due cose?”
Me emise un teatrale sospiro, quindi rispose: “Sarebbe stato molto interessante scoprirlo. Peccato che l’esperimento di domani sarà l’ultimo.” Accavallò le gambe e intrecciò le dita sul ginocchio di quella più alta, poi piegò appena il capo all’indietro. “Sarà l’ultimo,” ripeté. “I campi di contenimento non terranno.”
“E tu come lo sai?”
“Io sono una tua proiezione e grazie all’allentamento della valvola riducente operato dalla mescalina ho accesso a contenuti della tua mente che in condizioni normali vengono bloccati dagli strati superiori della coscienza. Dentro di te, sai già che domani andrà male e che non ci ci saranno altri esperimenti, io non faccio altro che esplicitarlo.”
Kozlov emise una risatina sarcastica. “E quindi sei venuto a salutarmi?”
Me si strinse nelle spalle e rispose: “Può darsi. L'apertura della valvola libera anche una serie di contenuti emotivi che normalmente riesci a mantenere nel preconscio.”
“La mescalina mi farebbe diventare una specie di sentimentale?”
“Dimmelo tu.”
Me abbandonò la sua posizione rilassata e si alzò in piedi, quindi gli si avvicinò lentamente. Kozlov strinse gli occhi abbagliato dallo splendore del camice bianco che indossava, quindi gli chiese: “Che cosa saresti? Una specie di Doppelgänger che viene a predirmi disgrazia? Sono solo stupide superstizioni.”
Me lo fissò serio, quindi rispose: “Sono il tuo cattivo demone, Bruto. Ci rivedremo a Filippi.” Poi si piegò su di lui e posò le proprie labbra sulle sue.

§

Le squadre Alpha, Charlie e Delta avevano già preso posizione, si udivano di tanto in tanto le comunicazioni radio che i rispettivi comandanti si scambiavano fra loro o col sergente. La squadra Bravo, in completo assetto da combattimento, aspettava ancora davanti alla porta del laboratorio. Westbrook scambiò uno sguardo perplesso con Lyles, poi diede un'occhiata all'interno e vide il tizio con gli occhiali da nerd che trafficava sul computer enorme. Arrivò poi il tizio dai lineamenti indiani, che tirò fuori di nuovo la sua collana, si mise da una parte e cominciò a recitare una specie di preghiera. Il nerd gli disse qualcosa e l'altro replicò in tono risentito. Il breve battibecco fu interrotto da un altro tizio in camice bianco, alto, con gli occhiali cerchiati d'oro e l'aria severa.
Tutti sembravano molto nervosi, scattavano per un nonnulla. Uno dei tecnici ne urtò per sbaglio un altro mentre sistemava qualcosa e per poco non vennero alle mani.
Erano quasi le nove.
Westbrook cercò di nuovo lo sguardo di Lyles, che gli rimandò lo stesso messaggio di inquietudine.
“Siamo pronti?” chiese qualcuno. La frase cadde nel vuoto.
A un certo punto si avvicinò il caporale Mitchell e ordinò: “Westbrook, va a chiamare Kozlov, manca solo lui.”
Il soldato diede un'altra occhiata all'interno del laboratorio, in cui dopo la frenesia della preparazione regnava una strana calma sinistra, e fu tentato di rispondere lasciamolo dov'è.
“Muoviti,” lo sollecitò il graduato.
Chet si mise l'M-4 a spall'arm e si allontanò lungo il corridoio. Udiva dietro di sé un canto che non era quello della registrazione e comprese che era il tizio indiano che stava salmodiando qualcosa.
Si costrinse a non pensarci, quella cosa sapeva dannatamente di preghiera.
Raggiunse l'ascensore e da lì il livello degli alloggi del personale scientifico. Andò alla porta di Kozlov e bussò un paio di volte.

Due rintocchi come di campana, dal tono cupo e funesto, destarono il professore, ancora riverso sulla poltrona. Egli si guardò intorno e sulle prime parve stupito di trovarsi in stanza da solo. Si passò le dita sulle labbra, dove il ricordo del bacio di Me bruciava come la traccia lasciata da un carbone ardente, e poi fissò i polpastrelli, certo di scorgervi qualche iridescente traccia di saliva.
Altri due colpi lo distolsero da quella contemplazione. Da fuori una voce chiese: “Professore, è lì dentro?”
Kozlov si alzò, trasse di tasca la chiave e fece scattare la serratura. Si trovò davanti un soldato e il suo sguardo fu immediatamente calamitato dal susseguirsi dei quadretti di diverso colore sulla sua mimetica digitale. Grigi antracite, perla, ferro, tortora... colori sontuosi, pieni, opulenti, nei quali veniva voglia di perdersi come in una landa inesplorata...
“Signore?” La voce del soldato lo distolse da quell'appagante contemplazione. Egli alzò lo sguardo a fissarlo negli occhi e si trovò a contemplare iridi screziate sulle tonalità del verde, con filamenti più chiari, alcuni quasi dorati, altri sui toni del grigio e dell'azzurro, che convergevano a raggiera su pupille mediamente dilatate. Immaginò di fermarsi sul bordo di una di esse e guardare giù, come avrebbe potuto scrutare da una giungla in un pozzo naturale.
Il soldato distolse lo sguardo, sottraendogli così il materiale di osservazione. La cosa lo fece sentire indispettito, tanto che aggrottò le sopracciglia e chiese: “Pensi che fuggire serva a qualcosa?”
Per tutta risposta, il giovanotto fece un passo indietro e dalla nuova posizione rimase a fissarlo perplesso.
Kozlov si passò una mano sul viso, cercando di liberarsi degli ultimi strascichi della mescalina che aveva assunto durante la notte, poi proseguì: “Fuggire non servirà. Tu credi nel Doppelgänger?”
Il soldato assunse un'espressione stupefatta. “Signore?”
“Il Doppelgänger. Il doppio. Sai di cosa parlo?”
“Nossignore.”
“Beh, non starò ad annoiarti con le teorie sul doppio, anche perché forse non le capiresti. Sappi soltanto che il Doppelgänger mi ha detto che oggi andrà tutto male.”
Il soldato rimase a fissarlo in un modo che a Kozlov parve anche piuttosto stolido. “Male,” ripeté il professore, infilandosi con gesti frettolosi il camice bianco. “Male. Disastro. Capisci?”
“Ma...” interloquì il giovanotto.
“Sì?”
“Ecco, signore... se sa già che andrà tutto male, perché non ferma l'esperimento?”
Egli fece un gesto come per scacciare un insetto: “Il Doppelgänger è la mia parte emotiva, umorale. Intuisce, più che sapere, e le intuizioni sono notoriamente imprecise.”
In quel momento si attivò la ricetrasmittente che il militare aveva sulla spalla. Da essa uscì una voce gracchiante che chiese: “Westbrook, a che punto sei?”
“Stiamo arrivando, caporale.”

§

La prima cosa che Westbrook notò fu che il tizio indiano aveva smesso di cantare la sua nenia. Nel laboratorio c'era un gran silenzio, rotto solo da un ronzio basso e persistente, che evocava l'idea di un animale in agguato.
Il tizio con gli occhiali da nerd si avvicinò alla telecamera facendo echeggiare i passi sul pavimento. Si accertò che fosse accesa e scandì: “Sperimentazione Trebitsch-Lincoln numero quindici: recitazione fase due, parti iniziale e centrale.” Tornò alla console.
Il tizio alto con gli occhiali d'oro si aggiustò nervosamente il camice.
Qualche tecnico sullo sfondo stava connettendo cavi o spostando carrelli.
Il soldato si sentì battere sulla spalla. Si voltò e Lyles gli chiese: “Tutto ok?”
Westbrook sorrise. “Sì, tranquillo.”
L'altro fece ostentatamente scorrere lo sguardo tutt'intorno e brontolò: “Lo sai che fine ha fatto Tranquillo, vero?”
“No, quale?”
“La stessa che stiamo per fare noi.” Stava per aggiungere altro, ma la sua attenzione, come quella di tutti, fu attirata dall'arrivo del professor Kozlov. L'uomo appariva più scarmigliato del solito, più torvo. Aveva cerchi scuri intorno agli occhi e le falde del camice sbottonato gli svolazzavano intorno al corpo magro. “Cominciamo,” disse semplicemente, quindi si accomodò a sua volta a una console. Nel silenzio della sala, si sentì la sua voce che diceva: “Ben ritrovato, Marsia.”
“Io dico che quello è suonato,” grugnì Lyles, fermo al fianco di Westbrooke.
“Ragiona a tre cilindri,” fu la cupa risposta.
Nel laboratorio di fece udire di nuovo la voce di Kozlov: “Proceda, Henson.”
“Sì, professore,” rispose il nerd.
Partì la melodia che ormai conoscevano molto bene. A Westbrook sembrò più forte del solito, più graffiante, tanto che mentre si massaggiava le braccia, in cui i muscoli avevano improvvisamente cominciato a dolergli come dopo una giornata di allenamenti, si sentì squassare da brividi di freddo. Istintivamente rivolse lo sguardo verso Lyles. Questi si voltò simultaneamente verso di lui e si sporse fino a toccarlo con la spalla.
Le armoniche cominciarono ad accompagnare il brano principale. Un primo neon sfarfallò brevemente e poi si spense, subito dopo un altro si ruppe in due con uno schiocco. Da una parte ci fu uno sfrigolare di scintille. Nell'aria si diffuse odore di ozono, sottili archi elettrici, di colori che andavano dal violaceo al bianco brillante, presero a torcersi crepitando.
Westbrook si passò una mano sugli occhi. Al centro della sala, gli parve di vedere le scintille rimbalzare contro qualcosa. Subito dopo, la voluta di fumo che si levava da un apparecchio surriscaldato si torse attorno a qualche ostacolo invisibile.
“Beau!” esclamò. Si fece scivolare l'arma dalla spalla e la imbracciò convulsamente.
Lyles si voltò verso di lui. “Ehi, ma che cazzo...” cominciò, poi guardò verso il laboratorio e a voce più alta ripeté: “Che cazzo sta succedendo?” Imbracciò a sua volta l'arma. “Chet, ma che cazzo è quello?”
Un armadio carico di strumentazioni fu spinto via come da un calcio e andò a schiantarsi contro la parete, un case fu strappato via, e coi cavi ancora penzoloni attraversò in volo la stanza e si fracassò al suolo. Ci fu un altro nugolo di scintille, che nel rimbalzare delineò per un istante qualcosa di simile a un arto che si muoveva.
Le luci si spegnevano una dopo l'altra, il fumo stava invadendo l'ambiente.
Westbrook si voltò verso i commilitoni, ma tutti si stavano agitando irresoluti. La recitazione frattanto continuava, e di attimo in attimo sembrava prendere nuova forza, diventando sempre più difficile da tollerare.
“Fermatelo!” urlò qualcuno, a Chet parve che si trattasse del tizio alto con gli occhiali d'oro. “Fermate il canto.”
L’uomo fece per muoversi verso il grosso computer chiamato Marcie, ma d'improvviso qualcosa sembrò ghermirlo e scrollarlo come uno straccio. Si udì distintamente lo scroscio delle vertebre cervicali che si fratturavano, quindi il corpo ormai senza vita venne scagliato contro un muro, alla cui base si afflosciò in un viluppo informe e sanguinante.
“Che cosa è stato?” urlò qualcuno con voce incrinata dall'angoscia, “Che cos'era?”
Un tavolo andò a gambe all'aria spargendo in giro strumentazioni, un altro uomo fu afferrato da qualcosa di cui si percepiva solo una vaga sagoma nell'aria caliginosa, si udì un urlo raccapricciante e in un lucido spruzzo carminio le due metà del corpo finirono una da una parte e una dall'altra.
Con un fracasso da fine del mondo, nella stanza ormai completamente buia, rischiarata qua e là da scariche elettriche e scintille, si scatenò un fuggi fuggi generale. Tutti cercavano di uscire calpestando chi cadeva e facendosi largo fra i detriti, ma di tanto in tanto qualcuno veniva ghermito e trascinato indietro.
Westbrook si sentì investire all'improvviso da qualcosa che sembrava un fortissimo campo di elettricità statica, si sentì spingere all'indietro e poi qualcosa di pesante gli piombò sul petto mozzandogli il respiro. Poi sentì Lyles urlare: “Non provarci, stronzo!” Subito dopo, lo vide afferrare l'M-4 per la canna e abbatterlo con tutte le sue forze contro quello che gli parve solo il vuoto. L'arma però rimbalzò come su qualcosa di duro, poi una forza immane sollevò il soldato e lo scaraventò lontano.
“Beau!” gridò Westbrook. Lo raggiunse, si inginocchiò accanto a lui. “Beau!” gridò di nuovo, scuotendolo per i vestiti, “Beauregard, parlami!”
L'altro aprì gli occhi, tossì un paio di volte. “Chet? Ma come cazzo mi stai chiamando?”
“Beauregard. Non è così che ti chiami?”
“Solo mia nonna mi chiamava così.”
Mentre l’amico con fatica si rialzava, Chet si guardò rapidamente intorno: la devastazione continuava, qua e là echeggiavano raffiche di mitra, una granata flash-bang illuminò a giorno per un istante il laboratorio ed evidenziò delle forme in movimento, o più che altro l’impressione che ci fossero delle forme enormi che si muovevano al centro della stanza. Un altro uomo fu afferrato come un fuscello e lanciato lontano, una colonna in cemento armato esplose come un petardo scagliando frammenti tutt’intorno, dal soffitto crollarono schegge di cemento e calcinacci. Il nugolo di polvere sollevato fu ancora una volta spostato dall’ampio gesto di qualcosa che non si vedeva.
Sentì Mitchell urlare: “Ripiegare! Ripiegare!” Di nuovo echeggiarono raffiche di mitra, una sventagliata di proiettili fece schizzare brandelli di rivestimento metallico da un armadio. Qualcuno emise un lamento atroce.
Weestbrook si sentì afferrare per un braccio e trascinare via. Sulle prime istintivamente oppose resistenza, ma la voce di Beau ringhiò: “Sono io, stronzo.”
Cominciarono a correre inciampando su detriti e corpi, cadendo e rialzandosi. Alle loro spalle si udivano rumori di suppellettili infrante e urla di dolore. Una specie di palla li oltrepassò in volo e atterrò con un sordo rimbalzo, poi rotolò via goffamente, rivelandosi una testa umana staccata dal busto. Il volto tumefatto conservava un’agghiacciante espressione di orrore.
Si voltarono con l'intento di coprire la ritirata degli altri, ma non c'era nulla contro cui sparare. Gli oggetti sembravano esplodere dall'interno, i corpi prendere il volo da soli. A parte quello prodotto da mobili e strumenti che venivano fracassati, o le urla di chi veniva ghermito, non si udiva altro rumore.
“Muoviti!” esclamò Beau. Corsero fuori evitando di stretta misura il lancio di un blocco di cemento e nell'allontanarsi si sentirono spostare da qualcosa di poderoso che poi passò oltre.

§

Seduto a terra, la schiena appoggiata a una parete, Kozlov contemplava con distacco il riflesso delle fiamme sulla pozza di sangue che si stava allargando sotto di lui. “Rosso carminio,” mormorò. “O forse vermiglio.”
Sollevò lo sguardo e lo fece girare su quello che restava del laboratorio: l’unica luce proveniva dalle due o tre lampade antincendio che erano sopravvissute alla devastazione, l’ambiente era gravato di ombre nitide e intense. Di quando in quando sfrigolavano nell’aria caliginosa nugoli di scintille.
Notò una macchia bianca in movimento, così intensa da gettare un riverbero tutt’intorno a sé. Fece un lieve sorriso e con fatica chiese: “Siamo a Filippi, per caso?” Tossì un paio di volte e soggiunse: “Non avevi detto che non ci saremmo più rivisti?”
“Allucinazione pre-exitus,” chiarì Me con distacco.
“Nientemeno,” gracchiò Kozlov. Di nuovo si guardò intorno e disse: “Quasi mi dispiace non vedere tutto questo sotto l’effetto della mescalina.”
“Le capsule sono nella tua tasca destra,” gli ricordò Me, fermo in piedi davanti a lui. Kozlov notò che il sangue sembrava girargli intorno, come per paura di sporcarlo. Scosse la testa e rispose: “Morirei prima di riuscire ad assimilarle e l’illusoria sensazione di benessere che proverei sarebbe solo il risultato di un miserabile effetto placebo.”
“Ora sei in stato di shock ipovolemico,” gli fece notare Me, sempre dritto in piedi davanti a lui, “la Valvola Riducente è comunque allentata, per effetto dell’ipossia sul cervello.”
“È per questo che ti vedo?”
“Già.”
Kozlov annuì, poi disse: “Sai, penso di aver capito. Peccato solo non poter fare un’altra prova.”
“Che cosa, hai capito?”
“I monaci dovevano avere qualche sistema per focalizzare la recitazione su un nemico. A quel punto, non c’era bisogno di contenimento.”
“Anche perché il contenimento non è possibile.”
Il professore provò a scuotere la testa, ma subito vi rinunciò con una smorfia di dolore. Fece poi un tentativo di sistemarsi più comodamente e si accorse che ormai non sentiva più la parte inferiore del corpo. “Non con le conoscenze che abbiamo adesso, in ogni caso,” mormorò. Sollevò con fatica una mano e si terse il sudore gelido che gli imperlava a fronte. “Moriranno tutti, vero?” chiese poi.
“Sai che è così. Quello che hai liberato non si fermerà fino a che non avrà portato a termine il suo compito.”
“Che cos’è?”
“Tu cosa pensi che sia?”
“Non voglio passare i miei ultimi istanti di vita a risolvere sciarade. Dimmelo tu, visto che sei me stesso a un livello di consapevolezza superiore.”
In quel momento, Me sembrò tremolare come un riflesso sull’acqua. Sto morendo, pensò Kozlov, e si preparò a vivere l’esperienza, col solo rimpianto di non poterci ragionare sopra in seguito, ma si sentì investire da qualcosa che sembrava un fiato caldo, anche se l’aria era immobile. Peli e capelli gli si rizzarono come per effetto di una forte carica elettrostatica. Un brivido di luce crepitò delineando contro il buio una sagoma che offuscava lo splendore di Me come una specie di vetro opaco.
L’ultima cosa che vide furono tre occhi disposti a triangolo, immensi, feroci e iniettati di sangue, che lo fissavano.

§

Westbrook si trovò a correre a perdifiato per un corridoio semibuio, invaso dal fumo degli spari e rimbombante di urla e raffiche di mitra.
Come negli incubi peggiori, qualcosa lo stava inseguendo, ma per quanto egli si lanciasse occhiate alle spalle, non riusciva né a sentirlo né a vederlo.
Tuttavia lo percepiva, anche se forse non con i canonici cinque sensi.
“Abbiamo qualcosa dietro!” urlò.
“E allora muovi il culo!” replicò Lyles, che correva accanto a lui.
Un pannello della parete si coprì di intaccature profonde come per il colpo di un gigantesco artiglio, quello successivo si accartocciò come un foglio di carta, schizzò via e si perse rimbalzando nel buio del corridoio. Un estintore si staccò dal suo supporto, impattò contro il soffitto, rimbalzò per terra e cominciò a girare su se stesso sibilando ed emettendo un getto di polvere. Nella nube azzurrina fu visibile per un attimo una sagoma vagamente umanoide, ma così alta da sfiorare il soffitto e larga quasi come tutto il corridoio.
Subito dopo, altri elementi della pannellatura volarono via, seguiti dalla coibentazione del soffitto e dai tubi dell’aerazione.
Il soldato continuava a correre più in fretta che poteva. A un certo punto incespicò e sentì una mano stringersi intorno al suo braccio. “Muovi il culo!” ripeté Lyles.
Sbucarono nell’atrio dal quale si dipartiva la maggior parte dei corridoi. Anche quella sala era disseminata di corpi, una parete era annerita dagli effetti di uno scoppio, su tutte le altre c’erano raffiche di mitra e schizzi di sangue.
“Agli ascensori!” urlò Beau, poi lo sospinse in quella direzione.
Quando raggiunsero il luogo, rimasero per un istante impietriti dall’orrore: una delle cabine era completamente squarciata e lasciava vedere la voragine del vano di corsa, le porte dell’altra continuavano ad aprirsi e chiudersi su quello che rimaneva di un tecnico di laboratorio. La porta che dava sulle scale era aperta e parzialmente divelta.
“Via di qui!” urlò Lyles. Si buttarono a rotta di collo in un altro corridoio, inseguiti dal lancio di una delle porte dell’ascensore, che rimbalzò un paio di volte contro le pareti staccando ampi pezzi di rivestimento.
Westbrook adocchiò una zona invasa dal fumo. “Di qua!” ansimò. “Facciamo perdere le nostra tracce!”
Corsero praticamente tentoni, tenendo una mano contro la parete per orientarsi, solo per udire alle loro spalle il rumore delle pannellature divelte. “Cazzo, ma come fa a vederci?” urlò Beau.
“Forse sente l’odore!”
“In mezzo a questo casino? C’è puzza di qualsiasi cosa, qui dentro.”
“Dove stiamo andando?”
“E che cazzo ne so? L’importante è che sia lontano da quegli affari!”
Il corridoio finì. In fondo c’era solo una porta, di quelle con la metà superiore di vetro retinato. “Merda!” imprecò Beau. Provò ad abbassare la maniglia, che però non si mosse. “Cazzo!”
Chet si voltò: i rumori di devastazione andavano aumentando. “Arriva!” disse.
L’altro afferrò l’M-4 e con il calcio dell’arma colpì il vetro, che si crepò nel mezzo. “Non startene lì impalato,” ringhiò, “dammi una mano.”
Cominciarono a battere, coi calci e con le canne, cercando di spaccare l’armatura di metallo che il vetro aveva all’interno.
Infine Beau prese la rincorsa e con una pedata riuscì a far cadere il pannello. “Ora saltiamo!” disse, quindi si buttò dall’altra parte.
Si sentirono una serie di tonfi metallici, dei gemiti soffocati, un tonfo più forte e infine silenzio. “Beau?” chiese Chet.
Non ricevette risposta, ma un pezzo di corpo umano che colpì la parete a poca distanza da lui lo convinse a saltare oltre la porta.
Cadde per un tratto che gli parve enorme, rimbalzò su qualcosa di duro, rotolò e infine si aggrappò a un tubo di ferro che riuscì a fermare la sua caduta. A quel punto realizzò di essere su un pavimento di linoleum, ai piedi di una scala. “Beau?” chiamò, massaggiandosi una spalla indolenzita.
“Qui,” rispose l’altro avvicinandosi.
“Stai bene?”
“A posto, e tu?”
“Ok.”
Simultaneamente, i due alzarono lo sguardo verso la porta, poi si scambiarono un’occhiata. “È ancora là,” disse Chet sottovoce.
Con lo stesso tono, Beau chiese: “Sei sicuro?”
“Sì, anche se non capisco perché non entri qui.”
“Ti dispiace, per caso?”
Di nuovo scrutarono la porta, oltre la quale non si vedeva nulla e non si udiva alcun rumore. “Cerchiamo di capire dove siamo finiti,” disse Westbrook, distogliendo lo sguardo e facendolo girare tutt’intorno.
Si trovavano in una stanza ampia e scarsamente illuminata. Ai due lati di una passatoia leggermente sopraelevata erano allineate strutture a parallelepipedo grandi come furgoni, ognuna dotata di un quadro comandi su cui pulsavano delle luci.
“I generatori elettrici,” disse Beau, facendo un passo verso le imponenti apparecchiature. “Sono enormi.”
“Ci credo,” rispose Chet, “hai idea di quanta energia riescano a succhiare i laboratori? E solo su questo piano ce ne sono tre.”
Percorsero adagio la passatoia. Alle loro spalle si coglieva l'eco flebile di urla e spari.
Chet si voltò a guardare. “Non ci segue,” ripeté.
“Tanto meglio,” brontolò Beau, “almeno qui dentro siamo al sicuro.”
“Non saprei, forse...” Un rumore li fece sobbalzare. Si girarono in quella direzione con le armi spianate e si trovarono di fronte un ometto magro con la divisa da tecnico, gli occhiali e un'incipiente calvizie, che appena li vide alzò le mani e disse: “Non sparate, sono uno dei vostri!”
Abbassarono le armi.
“Sono arrivati i terroristi?” chiese l'ometto, facendo saettare uno sguardo dubbioso dall'uno all'altro.
Westbrook fu il primo a riprendersi. “Non proprio,” rispose.
“Ma su stanno sparando di brutto,” insisté l'altro.
“Sì, c'è qualcosa.”
“Cosa?”
Il soldato scosse la testa. “Non lo sappiamo.” Raccontò brevemente quanto era accaduto.
“Io credevo che fossero i terroristi,” ripeté l'ometto, all'apparenza poco impressionato dai mostri invisibili. La voce aveva quasi un tono deluso.
“Niente terroristi.”
“Beh, qui comunque non sono arrivati.” Tese solennemente la mano. “Seymour Fisher.”
“Io sono Chet e lui è Beau,” rispose Westbrook stringendogliela. “Ci sono altre uscite oltre la porta da cui siamo passati?”
“Certo. Una davanti al laboratorio 3, una vicino al montacarichi della zona B e una scala che mette in comunicazione i generatori del nostro livello con quelli del livello 4. Non consiglio di usare la scala, però, perché stanno facendo dei lavori al generatore 2 di quel livello e quindi non sono certo che sia del tutto sicura.”
“Sei ben informato,” commentò Lyles.
Fisher assunse un'espressione orgogliosa. “Io so tutto di Aguas Muertas,” rispose, “praticamente sono qui da quando l'hanno inaugurata.”
In quel momento si udirono una serie di colpi concitati.
Tutti e tre si voltarono in quella direzione, poi Lyles disse: “È qualcuno dei nostri che vuole entrare.” Si rivolse a Fisher: “È meglio aprire la porta.”
Il tecnico trasse di tasca una tessera magnetica, quindi fece cenno ai due di seguirlo.
Oltre la porta c'era effettivamente un gruppo di persone. Due soldati stavano battendo contro il vetro esattamente come avevano fatto loro pochi minuti prima e alle loro spalle c'era una piccola folla di divise e camici bianchi che si agitava.
Mentre Fisher digitava il codice, un militare urlò e venne sollevato di peso, poi si udì il rumore di qualcosa che si squarciava e il vetro si coprì completamente di sangue. Oltre la porta, ovattati dal suo spessore, echeggiarono atroci lamenti d'agonia.
L'anta finalmente si aprì e diverse persone crollarono dentro. Westbrook riconobbe il dottore con gli occhiali da nerd, apparentemente illeso ma con il camice fradicio di sangue, il sergente Ewing, un paio di uomini della squadra Delta e un paio della squadra Charlie, uno dei quali ferito e sostenuto quasi di peso dall'altro.
“Sbarrate tutto!” ordinò Ewing non appena furono entrati, ma Lyles gli disse: “Qui dentro non vengono, sergente.”
Il sottufficiale lo fissò dubbioso. “Come sarebbe a dire che qui non vengono? Perché?”
Prima che il soldato potesse rispondere, la maggior parte delle luci si spense, gettando gli ambienti in una sinistra penombra. Venne meno il ronzio di fondo del sistema d'aerazione, lasciandosi dietro un gran silenzio. Cominciò a suonare il segnale di allarme rosso.
“Oh, merda!” imprecò Ewing.
“Lei sa cosa sta succedendo, sergente?” chiese Westbrook con un gran brutto presentimento.
“Il sistema ha rilevato questo casino come una falla nel contenimento. Fra trenta minuti in questo posto ci saranno più raggi gamma che a Hiroshima, Nagasaki e Chernobyl messe insieme.”


   
 
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