A notte fonda le cose hanno un odore
diverso.
Fa freddo e resto immobile, seduta al
posto di guida, ascoltando vecchi brani rock e fingendo di contemplare
un’esistenza che è sfatta in partenza.
Domani è lunedì, ho scuola,
sono le tre
del mattino, il vetro è appannato e non posso fare altro che
restare in un
parcheggio in attesa dell’alba.
È sempre stata questa la mia vita fino
ad ora, un’estenuante ed eterna attesa di qualcosa che mi
piombi giù dal cielo.
Ho aperto la portiera, mi sono sporta fuori, ho deciso che forse avrei
potuto
fare due passi. Il viale alberato davanti alla fila di appartamenti era
deserto
ed ero l’unica figura che si muoveva nel silenzio, pozze di
luce porosa
provenienti dai lampioni rischiaravano ad intermittenza
l’asfalto sotto i miei
piedi.
I miei zii dormono, non posso entrare
così tardi, non posso svegliarli. Si alzano presto la
mattina, lavorano tutto
il giorno e la mia cuginetta è troppo piccola per stare
dietro ai miei ritmi. E
allora ogni mio fine settimana si ripete medesimo: esco, cerco le mie
amiche,
stiamo insieme fino a notte fonda e, quando poi ci dividiamo, dormo in
macchina.
Sono stanca e le occhiaie marcano il
mio viso.
È strano, in realtà sono
sempre stata
una ragazza tranquilla. In momenti così penso che vorrei
fumare o avere una
bottiglia di vodka tra le mani, per giocare un poco a fare la bohemien
forse, a
fare l’artista bistrattata, la ragazza problematica distrutta
e consumata dalle
esperienze.
Invece sono solo una povera sfigata che
ciclicamente la madre, per insofferenza, butta fuori casa. Niente di
trascendentale, i parenti mi ci passano come fossi un pacco postale di
poco
conto, ogni volta mi sposto di casa in casa aspettando di poter
rimettere piede
nella mia.
Ho una borsa in macchina, quel catorcio
di Punto datato un ventennio che è stato il mio regalo per i
diciotto anni da
parte della nonna – santa donna. In quella borsa ci tengo un
cambio, la porto a
scuola con me. Le prime volte ero in imbarazzo. Forse a diciotto anni
è facile
sentirsi in imbarazzo, ma pensavo di aver perso una certa patina di
pudore
nella mia adolescenza.
Il pudore non è mai stato un mio punto
forte.
Troppe esperienze paradossali e
umilianti, perché possa essere scalfita.
Eppure, davanti alla mia non esistenza,
alla negazione del mio essere da parte della mia progenitrice, ho
provato una
sorta di strano pudore, una vergogna non dissimile dal trovarmi nuda in
una
stanza piena di estranei. Che ironia, pensare questo mentre aspetto,
seduta su
una stupida panchina di legno umido, in un parco di un paese che
nemmeno è il
mio, con cui ho poca confidenza ed anche un poco di paura.
Quelle paure primordiali quasi
inspiegate, di quando sei consapevole che non c’è
pericolo ma non puoi
impedirti di guardarti attorno ad ogni minimo rumore.
Ora non provo più vergogna.
In fondo, della classe in cui mi trovo
ora non conosco veramente bene quasi nessuno. La frequento da mesi e
sono
comunque riuscita a dimenticare o nomi o cognomi. Mi odiano, e li
capisco.
Nutro per loro una tale indifferenza, che se non provassero per me un
rancore
radicato penserei davvero di essere finita in un gruppo di volontariato
per i
bambini che muoiono di fame.
Per le persone non ci sono tagliata, so
guardare solo le nuvole di condensa che escono dalla mia bocca, so
pensare solo
che la vita fa schifo, che il peggio non l’ho ancora passato,
che sono solo le
quattro e ho troppo tempo davanti a me, troppi giorni, troppi anni,
troppo
disinteresse e troppo distacco dalla vita. Penso solo che dovrei
imparare a
fumare e a bere, a fregarmene di più ma in modo
più distruttivo, per finire
tutto.
Me lo chiedo spesso, cosa può esserne
di una persona come me.
Qualcuno senza origine non ha un luogo
a cui fare ritorno, e avere genitori non significa necessariamente
avere
origini. Mio padre mi ha tenuta con sé per un po’,
poi ho capito che era
troppo.
Casa sua mi piaceva, mi ricordava
quegli appartamenti nei villaggi al mare. Forse era il rumore del fiume
lì
accanto, che potevo ammirare affacciandomi al balcone, i lampioni
rotondi
avvolti dai rampicanti, i sentierini che collegavano le varie strutture.
Forse era che la portafinestra della
mia camera dava sul balcone interno, le tende si muovevano quando la
tenevo
aperta e c’era il profumo di fiori del deodorante per
ambienti che avevo comprato.
Non avevo l’armadio, solo le due valigie aperte sul
pavimento, un tavolo
piccolo e due sedie su cui impilavo i miei libri, e il letto di legno
conservato da quando ero bambina.
A volte sento nostalgia di quella casa.
Mi ha ospitato per poco, ma è stato bello.
Quando mio padre ha deciso che ci
serviva un armadio ho capito che era il momento di spostarmi, che non
ce la
faceva ad avermi lì.
L’ho capito dai dettagli, dalle sue
abitudini.
Dall’imbarazzo impacciato delle sue
scelte.
La sera, mi veniva da piangere a stare
lì dentro, un magone di straniamento. Succede spesso, quando
mi trovo a
girovagare, di provare simili momenti di sconforto. Non durano a lungo,
ma
bastano per ricordarmi che non ho radici.
Quando
mia zia mi ha trovato fuori dal
cancello, con le borse nel baule e l’aria di un randagio, e
mi ha accolto con
il calore di sempre, come se aspettasse solo di potermi tenere
lì con loro, ho
provato ancora quel senso di malessere.
Avrei dovuto ascoltarla anni prima,
quando a quindici anni per la prima volta mi sono ritrovata con uno
zaino in
spalla e lo smarrimento di un rifiuto. Avrei dovuto ascoltarla, forse
avrei
dovuto permetterle di portarmi via da mia madre.
Mancava poco alla mia maggiore età, ed
io pensavo andasse bene, pensavo che alla fine non mancava molto allo
scadere
del tempo. Non volevo dare un dolore a mio padre.
In fondo non volevo darlo nemmeno a mia
madre.
Ho sempre avuto rabbia per loro, e
frustrazione per quell’incapacità di avere cura di
qualcuno al di fuori di loro
stessi, eppure una parte di me è sempre stata certa che se
li avessi respinti
con la stessa intensità con cui loro respingevano me, li
avrei uccisi.
Per questo ora è facile stare qui, con
il riscaldamento della macchina acceso, a ripercorrere come ogni sabato
e ogni
domenica iniziata male e finita peggio la patetica storia del mio
esistere.
Ho fatto un giro, mi piace guidare con
il buio.
Le strade sono vuote, l’orizzonte
sempre malinconico.
Mi tranquillizza.
Ho la patente da poco, non sono ancora
spavalda e disinvolta alla luce del giorno, temo le altre macchine, gli
incroci, le partenze. A volte sbaglio marcia e la macchina mi si
spegne, se
sono nervosa, e di giorno agli incroci mi capita.
Di notte è tutto più
semplice.
Nel paese accanto c’è una
stazione
ferroviaria, il cavalcavia passa sopra ad un fiume, ci sono le cascate,
piccole, che rendono l’acqua nervosa e turbolenta. Ho
parcheggiato lì vicino,
mi sono seduta a sentire il rumore dell’acqua che scorre.
Non posso vederla, ma scroscia forte.
Come essere seduta sulla portafinestra
della casa di mio padre.
Come le lunghe passeggiate con la mia
migliore amica vicino alla casa di mia madre.
C’è
sempre un fiume, da qualche parte, a
delimitare il confine dei miei mondi. Ho acceso la radio e ascolto
Heroes, e
penso a “I ragazzi dello zoo di Berlino. Non so
perché, non c’è molta
attinenza.
Vengo trattata come un caso umano da
che ricordo ed ora ho imparato che, per essere uno di quei soggetti
disadattati
che la gente guarda storto, non bisogna fare chissà cosa.
Non devo per forza
devastarmi, mi basta leggere. Persino il mio modo di leggere basta,
seguire i
miei ritmi è più che sufficiente.
Ho ritmi diversi dal resto del mondo,
vivo le ore sbagliate della vita.
Domani, in classe, mi addormenterò.
Sembrerà che abbia fatto
chissà cosa,
ed invece ho aspettato semplicemente l’alba, con Heroes nelle
orecchie a
convincermi che posso vincere tutto, anche solo per un momento.
Che questa notte è mia, e fanculo ne
avrò altre decine così, altre decine di momenti
fuori dai ritmi normali,
momenti miei, dove posso sconfiggere chiunque.
Credo mi stia bene, la musica stempera,
la canto, più forte, non m’importa.
Solo per un giorno.
Notti come questa avranno un senso
magari, le riguarderò e non avranno amarezza, mi
resterà il fascino del
trasgressivo, quando sarò più grande. E almeno mi
vedrò come un’eroina che,
anche solo per un giorno, è in grado di sconfiggere la
solitudine della vita.