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Autore: Sarane    17/11/2018    1 recensioni
"Ho pensato che, forse, riguardare il resoconto degli ultimi dieci anni della mia vita - le impressioni più oneste gettate su carta senza uno scopo, le riflessioni, le sciocchezze infantili - potrebbe aiutarmi a tirare le fila del mio essere momentaneo.
Riguardare ogni mio appunto per ritrovare un senso.
Magari, ritrovare anche un dialogo in queste sedute di nulla, dove mi smarrisco in intrecci di linee nere e mi disegno le mani, come i bambini, inseguendo pensieri che a voce non so esprimere."
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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A notte fonda le cose hanno un odore diverso.

Fa freddo e resto immobile, seduta al posto di guida, ascoltando vecchi brani rock e fingendo di contemplare un’esistenza che è sfatta in partenza.

Domani è lunedì, ho scuola, sono le tre del mattino, il vetro è appannato e non posso fare altro che restare in un parcheggio in attesa dell’alba.

È sempre stata questa la mia vita fino ad ora, un’estenuante ed eterna attesa di qualcosa che mi piombi giù dal cielo. Ho aperto la portiera, mi sono sporta fuori, ho deciso che forse avrei potuto fare due passi. Il viale alberato davanti alla fila di appartamenti era deserto ed ero l’unica figura che si muoveva nel silenzio, pozze di luce porosa provenienti dai lampioni rischiaravano ad intermittenza l’asfalto sotto i miei piedi.

I miei zii dormono, non posso entrare così tardi, non posso svegliarli. Si alzano presto la mattina, lavorano tutto il giorno e la mia cuginetta è troppo piccola per stare dietro ai miei ritmi. E allora ogni mio fine settimana si ripete medesimo: esco, cerco le mie amiche, stiamo insieme fino a notte fonda e, quando poi ci dividiamo, dormo in macchina.

Sono stanca e le occhiaie marcano il mio viso.

È strano, in realtà sono sempre stata una ragazza tranquilla. In momenti così penso che vorrei fumare o avere una bottiglia di vodka tra le mani, per giocare un poco a fare la bohemien forse, a fare l’artista bistrattata, la ragazza problematica distrutta e consumata dalle esperienze.

Invece sono solo una povera sfigata che ciclicamente la madre, per insofferenza, butta fuori casa. Niente di trascendentale, i parenti mi ci passano come fossi un pacco postale di poco conto, ogni volta mi sposto di casa in casa aspettando di poter rimettere piede nella mia.

Ho una borsa in macchina, quel catorcio di Punto datato un ventennio che è stato il mio regalo per i diciotto anni da parte della nonna – santa donna. In quella borsa ci tengo un cambio, la porto a scuola con me. Le prime volte ero in imbarazzo. Forse a diciotto anni è facile sentirsi in imbarazzo, ma pensavo di aver perso una certa patina di pudore nella mia adolescenza.

Il pudore non è mai stato un mio punto forte.

Troppe esperienze paradossali e umilianti, perché possa essere scalfita.

Eppure, davanti alla mia non esistenza, alla negazione del mio essere da parte della mia progenitrice, ho provato una sorta di strano pudore, una vergogna non dissimile dal trovarmi nuda in una stanza piena di estranei. Che ironia, pensare questo mentre aspetto, seduta su una stupida panchina di legno umido, in un parco di un paese che nemmeno è il mio, con cui ho poca confidenza ed anche un poco di paura.

Quelle paure primordiali quasi inspiegate, di quando sei consapevole che non c’è pericolo ma non puoi impedirti di guardarti attorno ad ogni minimo rumore.

Ora non provo più vergogna.

In fondo, della classe in cui mi trovo ora non conosco veramente bene quasi nessuno. La frequento da mesi e sono comunque riuscita a dimenticare o nomi o cognomi. Mi odiano, e li capisco. Nutro per loro una tale indifferenza, che se non provassero per me un rancore radicato penserei davvero di essere finita in un gruppo di volontariato per i bambini che muoiono di fame.

Per le persone non ci sono tagliata, so guardare solo le nuvole di condensa che escono dalla mia bocca, so pensare solo che la vita fa schifo, che il peggio non l’ho ancora passato, che sono solo le quattro e ho troppo tempo davanti a me, troppi giorni, troppi anni, troppo disinteresse e troppo distacco dalla vita. Penso solo che dovrei imparare a fumare e a bere, a fregarmene di più ma in modo più distruttivo, per finire tutto.

Me lo chiedo spesso, cosa può esserne di una persona come me.

Qualcuno senza origine non ha un luogo a cui fare ritorno, e avere genitori non significa necessariamente avere origini. Mio padre mi ha tenuta con sé per un po’, poi ho capito che era troppo.

Casa sua mi piaceva, mi ricordava quegli appartamenti nei villaggi al mare. Forse era il rumore del fiume lì accanto, che potevo ammirare affacciandomi al balcone, i lampioni rotondi avvolti dai rampicanti, i sentierini che collegavano le varie strutture.

Forse era che la portafinestra della mia camera dava sul balcone interno, le tende si muovevano quando la tenevo aperta e c’era il profumo di fiori del deodorante per ambienti che avevo comprato. Non avevo l’armadio, solo le due valigie aperte sul pavimento, un tavolo piccolo e due sedie su cui impilavo i miei libri, e il letto di legno conservato da quando ero bambina.

A volte sento nostalgia di quella casa. Mi ha ospitato per poco, ma è stato bello.

Quando mio padre ha deciso che ci serviva un armadio ho capito che era il momento di spostarmi, che non ce la faceva ad avermi lì.

L’ho capito dai dettagli, dalle sue abitudini.

Dall’imbarazzo impacciato delle sue scelte.

La sera, mi veniva da piangere a stare lì dentro, un magone di straniamento. Succede spesso, quando mi trovo a girovagare, di provare simili momenti di sconforto. Non durano a lungo, ma bastano per ricordarmi che non ho radici.

 Quando mia zia mi ha trovato fuori dal cancello, con le borse nel baule e l’aria di un randagio, e mi ha accolto con il calore di sempre, come se aspettasse solo di potermi tenere lì con loro, ho provato ancora quel senso di malessere.

Avrei dovuto ascoltarla anni prima, quando a quindici anni per la prima volta mi sono ritrovata con uno zaino in spalla e lo smarrimento di un rifiuto. Avrei dovuto ascoltarla, forse avrei dovuto permetterle di portarmi via da mia madre.

Mancava poco alla mia maggiore età, ed io pensavo andasse bene, pensavo che alla fine non mancava molto allo scadere del tempo. Non volevo dare un dolore a mio padre.

In fondo non volevo darlo nemmeno a mia madre.

Ho sempre avuto rabbia per loro, e frustrazione per quell’incapacità di avere cura di qualcuno al di fuori di loro stessi, eppure una parte di me è sempre stata certa che se li avessi respinti con la stessa intensità con cui loro respingevano me, li avrei uccisi.

Per questo ora è facile stare qui, con il riscaldamento della macchina acceso, a ripercorrere come ogni sabato e ogni domenica iniziata male e finita peggio la patetica storia del mio esistere.

Ho fatto un giro, mi piace guidare con il buio.

Le strade sono vuote, l’orizzonte sempre malinconico.

Mi tranquillizza.

Ho la patente da poco, non sono ancora spavalda e disinvolta alla luce del giorno, temo le altre macchine, gli incroci, le partenze. A volte sbaglio marcia e la macchina mi si spegne, se sono nervosa, e di giorno agli incroci mi capita.

Di notte è tutto più semplice.

Nel paese accanto c’è una stazione ferroviaria, il cavalcavia passa sopra ad un fiume, ci sono le cascate, piccole, che rendono l’acqua nervosa e turbolenta. Ho parcheggiato lì vicino, mi sono seduta a sentire il rumore dell’acqua che scorre.

Non posso vederla, ma scroscia forte.

Come essere seduta sulla portafinestra della casa di mio padre.

Come le lunghe passeggiate con la mia migliore amica vicino alla casa di mia madre.

 C’è sempre un fiume, da qualche parte, a delimitare il confine dei miei mondi. Ho acceso la radio e ascolto Heroes, e penso a “I ragazzi dello zoo di Berlino. Non so perché, non c’è molta attinenza.

Vengo trattata come un caso umano da che ricordo ed ora ho imparato che, per essere uno di quei soggetti disadattati che la gente guarda storto, non bisogna fare chissà cosa. Non devo per forza devastarmi, mi basta leggere. Persino il mio modo di leggere basta, seguire i miei ritmi è più che sufficiente.

Ho ritmi diversi dal resto del mondo, vivo le ore sbagliate della vita.

Domani, in classe, mi addormenterò.

Sembrerà che abbia fatto chissà cosa, ed invece ho aspettato semplicemente l’alba, con Heroes nelle orecchie a convincermi che posso vincere tutto, anche solo per un momento.

Che questa notte è mia, e fanculo ne avrò altre decine così, altre decine di momenti fuori dai ritmi normali, momenti miei, dove posso sconfiggere chiunque.

Credo mi stia bene, la musica stempera, la canto, più forte, non m’importa.

Solo per un giorno.

Notti come questa avranno un senso magari, le riguarderò e non avranno amarezza, mi resterà il fascino del trasgressivo, quando sarò più grande. E almeno mi vedrò come un’eroina che, anche solo per un giorno, è in grado di sconfiggere la solitudine della vita.

   
 
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