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Autore: yonoi    06/12/2018    8 recensioni
Storia di un albero di ciliegio, di un umano randagio e di un gatto ormai giunto alla sua settima vita.
Dalla campagna alla città, il gatto Mozzicone è alle prese con la sua missione di "animale protettore". Una missione non facile: seminare nei cuori difficili degli umani una scintilla di tenerezza, di forza, di compassione.
Una storia di formazione, di strani cambiamenti che fanno sì che una ragazza si trasformi in un ragazzo, di una piccola campionessa e un’anziana signora che arrivano a perdere tutto per poi riuscire a trovare ciò che è davvero importante, e di un gatto senza coda, a cui spetterà tirare le fila di tutta la vicenda.
Prima classificata al contest "Racconti di pioggia e di luna" indetto da Wurags sul Forum di EFP e al contest "Mille e una fiaba", indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP, a pari merito con "Anche con il mondo contro" di Molang.
Questa storia partecipa al contest "Il mio Babbo Natale segreto", indetto da Claire Roxi sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Accatastata per il fuoco
la fascina
comincia a germogliare”
(Nozawa Boncho, 1640-1714)


 
 3. La vaniglia e “I Ciliegi”



Finché non fui cacciato praticamente da un giorno all’altro, rimasi a presidiare la casa di Venturina in attesa del suo ritorno. Non avevo alcun dubbio: prima o poi la mia umana sarebbe nuovamente comparsa sulla soglia, levandosi il soprabito e scuotendo la pioggia dalle pieghe dei ricci. Dopo la malinconia del tempo dell’assenza, la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso. Sicché mi facevo un punto d’onore di mantenere l’ordine assieme a Garibaldi.
Come una vedetta, dall’alto della cornice su cui cominciava a crescere un dito di polvere, il vecchio militare sorvegliava col suo cipiglio i cucù, che non pensassero mica di darsi alla pazza gioia in assenza della padrona, e smettere di far girare molle e ingranaggi per segnare le ore con la massima precisione.
Tutto doveva continuare a funzionare a regime, nell’attesa che Venturina tornasse.
Qualche ragno che si improvvisava giocoliere su e giù per le casette degli orologi a cucù, veniva prontamente spedito a capitombolo dall’uscita precipitosa degli uccelletti. Con il loro strepito mettevano in fuga persino i riccioli di polvere che andavano formandosi, pigri, sotto ai mobili.
Sotto al quadrato di cielo del nostro giardino interno, le rose spilungone, il ciliegio e le ortensie continuavano a seguire il ritmo delle stagioni.
Dal mio quartier generale sulla vecchia poltrona davanti alla tivù, sorvegliavo il mio territorio e rizzavo le orecchie al minimo rumore. Ogni volta pensavo che fosse la padrona, e invece un giorno arrivò un tizio dell’agenzia immobiliare che mi cacciò di casa.
In breve la villetta della signora Venturina fu chiusa, e il cartello Vendesi comparve con due pezzi di adesivo sopra alla porta.
Quel tizio in giacca e cravatta veniva ogni tanto a far visitare la casa ai possibili acquirenti. Ogni volta, per prima cosa, mi cacciava dal cortile dove mi ostinavo a restare in attesa del ritorno, ormai sempre più improbabile, della mia umana.
Neppure la Marisa mi voleva tra i piedi. I primi tempi mi lasciava un piattino sul muretto del condominio, ma poi evidentemente qualcuno ebbe da ridire. Anche da lì fui cacciato, a colpi di ramazza da una portinaia più pelosa di me e grande come quattro ante d’armadio.  
Devo ammettere che non si trattò di una gran perdita. A dispetto delle cene che spesso organizzava con ospiti e tintinnii di posate che arrivavano fino sul marciapiedi, dove io attendevo affamato, la Marisa non aveva nessun talento per la cucina: non sapeva che il polpettone richiede gentilezza e va trattato coi guanti, altrimenti si apre; che il ragù deve essere morbido ma non unto, altrimenti le tagliatelle, per quanti sforzi facciano, non riescono a tirarlo su a forchettate.
Tutti questi particolari io li avevo imparati durante i pomeriggi trascorsi a osservare la signora Venturina, quando si affaccendava nei preparativi per la visita dei figli. Lei cucinava col pensiero dei suoi ragazzi e dedicava tempo al lievito e ai ricordi. E forse per effetto delle giuste proporzioni tra ingredienti ed amore, la pasta si gonfiava sotto agli strofinacci, il ragù borbottava energico sul fornello, i biscotti profumavano tutta la casa.
La cucina della Marisa era frettolosa e priva di grazia. Anche se io ero ben disposto ad accontentarmi degli avanzi come ai tempi della campagna, roba così terribile non l’avevo mai assaggiata, neppure tra gli scarti dal mio vecchio padrone.
Forse, a rendere cattivo tutto il cibo del mondo era la nostalgia che provavo per la mia umana e per la nostra vita insieme. Mi mancavano le carezze delle sue dita rese callose dal puntaspilli, il tepore della coperta serale sulle ginocchia, il suo odore di acqua di rose e di vaniglia. Quella traccia che ancora restava sulla soglia della sua casa si stava assottigliando col passare dei giorni, e ben presto sarebbe scomparsa per sempre.
Io l’avvertivo ancora, e con la sola forza del mio rimpianto continuavo a tenerla stretta tra i baffi. Era l’ultimo filo che mi legava a lei, ogni giorno sempre più fragile e inconsistente.
Prima che potesse svanire completamente, mi venne in mente che quel filo io potevo seguirlo, per vedere fin dove mi avrebbe portato. Era un’impresa ardua persino per l’odorato di un gatto, ma se c’era anche solo una possibilità di ritrovare Venturina, valeva la pena di darsi da fare sul serio.
Era passato molto tempo da quando l’ambulanza aveva chiuso il suo portellone sulla padrona, e più volte la pioggia aveva ripulito il marciapiede dagli odori. Mi avviai ugualmente tenendo tra i miei baffi quell’ultimo filo tenue, e cominciai la mia avventura nella città. Più volte smarrii la traccia effimera che seguivo, tra gli scarichi delle auto, il catrame bollente che un gruppo di operai spargeva sulla strada, l’odore degli umani sotto alle pensiline, che salivano e scendevano a spintoni dagli autobus.
Ogni tanto perdevo la mia preziosa traccia, ma poi poco più in là la riacchiappavo al volo. Non sapevo neppure se era proprio quella, eppure proseguivo.  
Mi addentrai nel mercato, un intreccio caotico di fragranze e fetore. C’era il tepore appena sfornato del pane, dei ragù oleosi e le teglie di pasta al forno. Poi l’aroma pungente degli insaccati, i prosciutti, le spezie. Più oltre l’acqua stagnante e il terriccio dei fiorai, i sacchettini di lavanda dei profumieri e le essenze spruzzate sui polsi delle donne. L’alcool che evaporava lasciava una traccia di rosa e di vaniglia, che però non era quella dolce della padrona.
Imparai che ogni essenza, sulla pelle degli umani, ha una nota diversa. Mi aggrappai di nuovo all’esile filo che conoscevo, e continuai a seguirlo tra i banchi dei macellai e l’odore del sangue. I polli che pendevano con le loro zampe gialle e la carne senza sangue, mi fecero pensare all’ultimo viaggio delle mie galline impazzite.
In fondo avevano avuto ragione a dar di matto: persino i polli capiscono quando arriva la fine, lo fiutano nell’aria perché gli odori, a noi bestie, parlano anche del destino che ci attende.
Poco più in là c’erano le bancarelle del pesce. Siccome anche quel giorno l’ora di colazione era passata da un pezzo, decisi di non lasciarmi sfuggire l’occasione per un buon pranzo al sacco.
Passando radente a un banchetto acchiappai al volo un bel pezzo di sgombro, salvo poi sobbarcarmi una corsa da giaguaro per sfuggire al pescivendolo.
Uscito dal mercato, mi fermai solamente il tempo necessario a consumare il mio pasto, quindi cercai di riprendere il filo delle mie ricerche.
Purtroppo, la fuga mi aveva condotto completamente fuori strada.
Provai a fiutare l’aria in cerca di un appiglio e mi smarrii nei molteplici odori della strada: l’ombra di borotalco di un neonato tutto avvolto nella plastica nuova del suo passeggino, la stanchezza e il sudore all’uscita di un’officina, qualche traccia di forfora sulla sciarpa di un anziano, la stampa del quotidiano che portava sottobraccio. C’era della vaniglia, ma si trattava delle poche briciole di un biscotto caduto a terra, e già attaccato dalle formiche.
Senza darmi per vinto continuai ad annusare, a cercare, ad andare avanti.
Quel giorno scoprii i mille modi di essere, le infinite possibilità della vaniglia: la ritrovai in un cono che si scioglieva sul marciapiede, più oltre l’annusai sulla soglia di una pasticceria, così intensa che mi ritrovai a starnutire.
Continuai a girovagare per tutto il pomeriggio. Di tanto un tanto scoprivo una traccia ma si trattava sempre della vaniglia sbagliata.
A un certo punto cominciai ad avvertire tutto il peso della stanchezza, e quello ancor più grave dello scoraggiamento. Non mi ero mai sentito così abbandonato, e forse anche il cielo era del mio identico umore, perché a un certo punto qualche nuvola scese, e a gocce lente e sconfortate come lacrime incominciò a piovere.
Mi rifugiai sotto al davanzale di una finestra, in un piccolo spazio asciutto di riparo.
Il muro conservava un poco del calore dell’ultimo sole. Di fronte a me, sul viale, cominciava un autunno di foglie gialle e rosse, portate qua e là dal vento insieme alla pioggia.
Le nuvole erano scese così tanto da far buio in anticipo, le auto filavano lustre con i fari già accesi.
Il mondo non poteva essere più triste di così, eppure fu in quel momento che l’odore di Venturina mi raggiunse: non avevo alcun dubbio, stavolta si trattava della vaniglia giusta.
Con un balzo riuscii a portarmi sul davanzale. Da uno spiraglio di finestra lasciata aperta intravidi l’oscurità di un salone ampio, in un angolo un cesto di giochi per bambini, animali di pezza e vecchi pupazzi. Eppure dei bambini non c’era traccia, mancava il loro odore di talco e caramelle appiccicate alle dita.
Aperti qua e là su lunghi tavoli vuoti, c’erano dei volumi. Stampati a lettere grandi, pieni di macchie e con le pagine arricciate, davano l’idea di esser lì da un bel po’.
Probabilmente erano stati sfogliati così a lungo che in quelle illustrazioni non c’era più meraviglia. O forse chi li sfogliava li trovava sempre nuovi e tutte le mattine tornava a sedersi là, a guardare le figure senza ricordare di averle già viste il giorno prima, e quello prima ancora.
Chissà perché, quello stanzone mi suggeriva un’idea di un vuoto tanto grande da stringere persino il mio piccolo cuore di gatto. Forse era per via della puzza di rancido che ristagnava ovunque, mescolando scaglie di forfora e medicinali, pannoloni pieni di urina e verdure lessate.
Ma a un unico odore io prestavo attenzione: la vaniglia di Venturina, che si stendeva sopra a quella cappa come un velo di grazia ed era proprio quella, senza ombra di dubbio.  
Non ci pensai due volte e saltai nello stanzone.
Feci appena in tempo a nascondermi prima d’essere scoperto da un donnone in grembiule e cuffietta, che entrò di spinta insieme a una raffica di vento. Da sotto allo scaffale dove mi ero nascosto, seguii il fruscio delle sue ciabatte pesanti, mentre si affrettava a chiudere la finestra per poi sparire subito da dove era venuta. L’eco dei suoi passi si perse in un corridoio che portava ad altre stanze più interne.
Di là proveniva un filo di luce, un tanfo ancora più intenso e su tutto la traccia dolce della mia umana.
Sgattaiolai rapido in quella direzione, a debita distanza da quel donnone del calibro della portinaia della Marisa, che indubbiamente possedeva la medesima grazia nel menar colpi con la ramazza.
Arrivai a un’altra sala di gente radunata attorno a un televisore. Scene di un telefilm con risate preregistrate, nella sala qualcuno fissava lo schermo apatico, molti altri sonnecchiavano accasciati sopra a sedie a rotelle. Qualcuno si agitava con spasmi incontrollati e spandimenti di bava.   
L’aroma di vaniglia era più intenso che mai: se avessi avuto la coda, l’avrei tenuta ben dritta per la concentrazione, mentre allargavo le pupille nella penombra in cerca di Venturina. 
 

 
******

        
Nel tentativo di distrarla, suo fratello le aveva portato la chitarra da casa:
“Ecco qua, fratellone.” Quello era il soprannome che le aveva appioppato, da quando erano cominciati tutti quei problemi d’identità. “La musica fa bene, dicono addirittura che aiuti a guarire.”
Per un po’, la chitarra era rimasta appoggiata al comodino, e lei l’aveva completamente ignorata. Ma una volta esaurite persino le risorse del malumore, e una volta subentrata la noia, la Livietta s’era decisa a riprenderla in mano e a fare un giro di accordi.  
Era sera, e quel giorno la sua vicina di letto, il femore Poggi, viveva in pieno il suo dramma. La placca che le avevano innestato sulla frattura aveva incontrato l’unico bacillo a piede libero nella sterilità della sala operatoria; e siccome la convivenza tra estranei è sempre il frutto di equilibri sottili e i bacilli sono notoriamente permalosi, per una serie imponderabile di ragioni si era scatenato un ascesso in piena regola. 
La gamba della signora era tutta rigida e gonfia, in linea con la faccia della sua proprietaria, a cui era stato appena comunicato che il giorno seguente sarebbe tornata in sala per un secondo intervento. Per tutto il pomeriggio la Poggi si era abbandonata a una crisi di sconforto in piena regola, a cui comunque nessuno aveva potuto dar retta. Gli ortopedici si erano dileguati, pressati da altri casi, altre radiografie da esaminare in controluce, pazienti da visitare, parenti a colloquio.
Le infermiere passavano con i loro carrelli di terapie agli orari, fleboclisi da infondere, bendaggi da rifare, e chi rifiutava le pillole, chi aveva la febbre alta, chi strappava via tutto e voleva tornare a casa. 
Milioni di richieste e una stanchezza che esauriva ogni pazienza: per il femore Poggi e le sue lamentele proprio non c’era margine, perché la fatica prosciugava persino le parole, e ancor prima la voglia di dire qualcosa.
A quel punto era intervenuta la chitarra della Livietta. Seduta in carrozzina, dando di spalle alla Poggi proprio per non sentirla, la Livietta aveva ripreso in mano il suo strumento e si era concentrata dapprima sugli arpeggi.
Timida da principio, la chitarra aveva incominciato ad armonizzare i suoni, a legarli l’un l’altro e a intrecciare un canto. Anche le dita possiedono una loro memoria, e i polpastrelli della Livietta ricordavano bene quei brani che così spesso le erano serviti per scacciare la malinconia della notte.
Man mano che le dita recuperavano scioltezza, alla melodia delle corde si era unita la voce della Livietta. La sua estensione possedeva la limpidezza femminile, e il tepore accogliente delle tonalità maschili. Era armoniosa, e non solo: innalzava una sorta di cupola protettiva attorno a chi ascoltava, e come la Livietta scoprì quella sera stessa, accolte in quel riparo le ferite ricominciavano a guarire, le cellule si ridestavano dall’inerzia, le trame dei tessuti si rinsaldavano. Il sangue riacquistava calore ed energia, per contrastare le infezioni e il cattivo umore.
I dolori cessavano, perché la potenza del suono rapiva e risollevava. I crampi si allentavano e i pazienti arrivavano persino a dimenticarsi perché erano là.
La Livietta se ne accorse perché quando terminò la sua esecuzione la raggiunse la voce del femore Poggi, ed era una voce nuova, priva della tensione continua dell’angoscia:
“Per favore, signorina, continui.” La Livietta si voltò, stupita, a fissarla.
“Sa che quando lei canta mi sento molto meglio?”
Allora lei riprese a cantare più forte, stavolta senza preoccuparsi di disturbare. Quando infine levò gli occhi dalla chitarra, una serie di applausi la colse di sorpresa. Sulla porta della camera si era radunata una piccola folla di infermieri, inservienti, familiari e pazienti. La Poggi, stretta nel suo sciallino e col femore paonazzo in scarico sul cuscino, aveva addirittura le lacrime agli occhi.
“Ma lo sa, signorina, che mi ha ricordato tempi in cui mio io e marito eravamo morosi, e d’estate andavamo a cantare sulla spiaggia e si faceva l’alba? Non si offenda, signorina, ma la sua voce è uguale a quella che aveva mio marito da giovane.”
La Livietta si strinse appena nelle spalle, ma la vecchia Poggi la costrinse a sorridere.
“Lei non può saperlo, ma mio marito è morto da tanti anni e io ormai vivo solamente di memorie. Eppure, guardi che strano: era da tanto tempo che non pensavo più a quelle notti passate a cantare sulla spiaggia. Adesso, grazie a lei, ho ritrovato un altro prezioso ricordo.”
La Livietta era senza parole. Si limitò a riprendere in mano la chitarra la mattina seguente, e a cantare ancora finché vennero a prendere la sua compagna di stanza per riportarla in sala.
Mentre gli addetti controllavano i documenti, la signora Poggi le strinse la mano.
Figlia mia, ti rivelo un segreto. La notte scorsa, non ero mica qui: ero là, sulla spiaggia assieme ad Arturo, insieme abbiamo ascoltato il rumore delle onde, e quante stelle c’erano, abbiamo provato a contarle ma erano infinite. Poi lui ha incominciato a cantare, ha cantato fino al mattino.”
Il femore Poggi non fece più ritorno nel reparto di ortopedia.
Dopo il secondo intervento, passò in terapia intensiva. Là, durante l’orario di visita, la Livietta veniva a suonare per lei che aveva gli occhi chiusi e non li apriva mai, ed era collegata a tanti cavi e tubi da aver paura ad avvicinarsi.
Alla giusta distanza per evitare intralci e irreparabili danni, la Livietta si accomodava su una sedia. Da qualche giorno aveva cominciato a muoversi con le stampelle, presto avrebbe rimosso il fissatore esterno, e di nuovo lo spettro della ginnastica cominciava ad angosciarla. Riprendere la stessa vita di prima, riprendere e fare finta di essere come le altre, non se ne accorgerà nessuno, io sono una ragazza, e invece cominciava a sentire sempre più estranea la femminilità tipica delle ginnaste, i volti troppo truccati, i movimenti aggraziati. Gli inchini dopo le esibizioni, i nastri, le clavette. Fingere per tutta la vita, persino alle Olimpiadi. Fingere in mondovisione.
Cercava di non pensarci e allora cantava: andava per i reparti e cantava durante i cambi dolorosi delle medicazioni, cantava in pronto soccorso per la gente che attendeva sulle barelle, cantava in pediatria e i bimbi, sbalorditi, smettevano di piangere e battevano le manine.
In terapia intensiva, il suo canto era appena una variazione nel ritmo continuo dei monitor, nel fruscio dell’ossigeno, nel susseguirsi dei tracciati sugli schermi che riportavano i dati di pressione, frequenza cardiaca e respiratoria, elettrocardiogramma.
Dalle loro postazioni simili a navicelle sul ponte di comando di un’astronave, gli altri pazienti ascoltavano appesi ai loro drenaggi, alle sacche bianche di nutrizione artificiale. Le cellule del corpo avvertivano le vibrazioni della musica, sugli schermi i parametri diventavano più regolari.
Solo il femore Poggi, gli occhi chiusi e caduti nelle orbite e sul cuscino, il corpo ridotto a una minima increspatura sul bianco delle lenzuola, era ormai irraggiungibile persino dalla musica.
Dietro al letto snodabile si apriva una parete di sole vetrate. Col buio precoce delle sere invernali si riempiva di stelle e dava l’impressione che l’anziana paziente volasse nello spazio, col suo materasso ad aria e la mascherina per l’ossigeno da astronauta.
Dietro di lei il cielo era un viaggio infinito.
La signora Evelina Poggi, che sulla terra non aveva più legami a trattenerla, visitò molti mondi nelle sue ultime notti. Stelle più gigantesche e ardenti del sole, pianeti dalle temperature talmente sottozero che non potevano viverci neppure i pinguini, galassie simili a carovane di luce.
Finché una notte, proprio mentre si apprestava a levare gli ormeggi per il suo consueto viaggio spaziale, venne a visitarla Arturo, suo marito: aveva con sé la chitarra, il rumore del mare che andava e veniva incessante, e un firmamento intero di stelle tra le mani.
Evelina sorrise, ravviandosi i capelli per mettersi un po’ in ordine. Mosse con cautela le gambe, indebolite dalla lunga permanenza nel letto. Scoprì che in realtà la reggevano meglio di quando aveva vent’anni. Del resto anche Arturo, che le porgeva il braccio con la stessa galanteria dei loro primi incontri, sorrideva con un volto limpido e senza tempo.
Il mattino seguente la Livietta trovò il letto vuoto, già rifatto in attesa del prossimo paziente.
Non fece domande. Tirò con forza i capelli dietro alle orecchie, accordò la chitarra, incominciò a suonare. 
Se si fosse chinata a guardare sotto all’ex postazione del femore Poggi, avrebbe visto qualche granello di sabbia, forse un poco di polvere di stelle conservate a lungo nelle tasche, proprio per quell’occasione.

 
******

        
Contro ogni aspettativa, il donnone a quattro ante che avevo intravisto la prima sera, quando mi ero intrufolato in quello stanzone altrimenti detto sala di ricreazione, aveva il cuore grande almeno quanto il suo fondoschiena: che era come dire le dimensioni esatte della mietitrebbia del mio vecchio padrone. La Clelia amava le bestie, e si limitava a ridere sotto i baffi quando mi vedeva sgattaiolare nei corridoi in cerca della mia umana. In più, era la capo cuoca della casa di riposo I Ciliegi, e anche se cucinava peggio della Marisa mi teneva sempre da parte un pezzo di polpettone, due fegatini di pollo, un piattino di latte.  
Io mi leccavo i baffi e subito tornavo al mio solito posto, sul davanzale dello stanzone dove gli anziani passavano le ore sfogliando vecchi libri illustrati: gli stessi che avevo visto il giorno in cui, seguendo la fragile traccia della vaniglia, avevo ritrovato la signora Venturina.
La sera in cui ero riuscito ad infilarmi nella sala tivù, mi si erano rizzati tutti i peli sulla groppa: la mia umana era l’ombra della donna ben curata che avevo conosciuto. Come la maggior parte degli ospiti che vegetavano in quel gattile per umani, era su una sedia rotelle. Come tutti gli altri aveva lo sguardo spento, gli abiti appiccicati dall’odore di urina e di cavolo lesso.
Stentavo a riconoscerla ma lei, appena mi vide, aprì immediatamente le braccia per accogliermi.
Un balzo, ed ero già sopra alle sue ginocchia.
Intorno, gli altri ospiti componevano uno scenario da incubo. Un paio si agitavano sulla sedia a rotelle, con sobbalzi che parevano spasimi di dolore. Qualcun altro dormiva, e continuava a farlo ovunque si trovasse: davanti alla tivù, a mensa davanti al pasto e col cucchiaio in mano. Forse dormire era una l’unica strategia per sfuggire a quel posto dove, se non entravi demente, lo diventavi nel giro di qualche mese. E se non eri depresso, ti si asciugava presto tutta la voglia di vivere.
Quegli anziani parcheggiati nella sala tivù mi ricordavano le piante del nostro giardino, che vegetavano ognuna nel proprio angolo, destinate a rimanerci fino alla fine. L’unica differenza era che le piante fiorivano, perdevano le foglie, le mettevano nuove. Mentre questi umani si limitavano a deperire.
Eppure quella sera, mentre mi accomodavo in braccio alla mia padrona e cominciavo a far le fusa, mi resi conto che molti ospiti della casa si erano accorti di me. Alcuni mi guardavano sorridendo, altri facevano gesti ancora più scomposti, qualcuno allungava la mano per cercare di accarezzarmi. Tutti erano felici per questa novità insolita che era la presenza di un gatto in struttura.
La Clelia fu la prima a rendersene conto: quando mi consentiva l’ingresso nello stanzone, di nascosto da tutti, allora l’atmosfera si animava improvvisamente. Gli anziani smettevano di contare le ore davanti alle figure sempre uguali dei libri e dicevano micio micio. Chi allungava un pezzetto di pane, chi una mano per accarezzarmi mentre passavo, chi una caramella come si fa coi bambini.
La mia missione di animale da protezione assumeva nuovi risvolti, e ne ero assai fiero.
Una sera, confortato dal fatto che i vecchietti mi adoravano e le inservienti, in genere, erano troppo distratte per fare caso a me, ebbi il coraggio di mettere a segno una bravata in piena regola. Nell’ora in cui le addette facevano il giro per assicurarsi che gli ospiti fossero a letto e tutto filasse liscio, sgattaiolando di stanza in stanza riuscii a raggiungere Venturina.
Restai acquattato a lungo sotto al suo letto. Poi, quando non si udì più alcun rumore, saltai sulla coperta e riposai insieme alla mia padrona tutta la notte, per la prima volta dopo tanto tempo.
Il mattino seguente si scatenò il parapiglia. Spalancando la porta di colpo – quello doveva essere lo stile del posto, perché tutti sbattevano gli usci, la mobilia e anche i vecchi – entrò una di quelle inservienti basse, sgraziate, sottopagate, che trattavano gli anziani con ancor meno garbo di quello che usava il mio padrone della campagna coi sacchi della farina. L’inserviente cacciò un urlo terrorizzato, come fanno gli umani quando scoprono qualche bestiaccia a un tiro di schioppo.
“Un topo! C’è un topo enorme sul letto della Tibaldi!”
Le parole le si strozzavano in gola, mentre scappava fuori urlando e spazzolandosi le gambe frenetica. Arrivano altre inservienti come lei, arrivò l’infermiere che era un ragazzo giovane, sempre con le cuffiette di musica nelle orecchie per sopravvivere alla tristezza di quel posto. Arrivò soprattutto la caposala, una tipa paffuta che scambiava la maleducazione per ordine, la cattiveria con l’essere energici, gli strilli in faccia agli anziani come un modo per comunicare con quelli che, secondo lei, erano tutti dementi.
Prima che si scatenasse una caccia in piena regola, riuscii a darmela a gambe infilando i corridoi a testa bassa, passando tra le gambe di chi saliva le scale per andare a vedere quel topo che ormai aveva raggiunto proporzioni da incubo. Grande come una casa esclusa la coda, che peraltro io non avevo neppure.
Correndo come una scheggia urtai calzini e ciabatte, e sembravo davvero un ratto quando finalmente riuscii a guadagnare il portone, passando sotto agli occhi esterrefatti della Direzione.
Quell’avventura, purtroppo, segnò la fine delle mie scorribande all’interno della struttura.
Una volta esaurite le indagini del caso, la colpa di tutto fu appioppata alla capo cuoca. Questo perché ogni volta che ai Ciliegi succedeva qualcosa, la prima cosa da fare era trovare il colpevole, come nei gialli. Tutti i tentativi per far capire che la presenza del gatto era ben vista dagli ospiti e li tirava fuori dal loro torpore, si risolse in un nulla di fatto. Alla Direzione, in realtà, non importava nulla se gli ospiti vegetavano o erano vispi e in forze. Tanto i parenti venivano a trovarli di rado, pagavano la retta col bonifico in banca senza prendersi il disturbo di venire fin qua.
Io non mi diedi per vinto. Tornai al mio avamposto sul davanzale della sala di ricreazione, ma mi rendevo conto di essermi bruciato tutte le possibilità. La Clelia aveva ricevuto l’ordine tassativo di non darmi più da mangiare, così prima o poi quella bestiaccia se ne andrà.
Le altre inservienti mi scacciavano con la scopa, e quanto alla caposala, badavo bene a filarmela non appena sentivo la sua voce per le scale.
Iniziò per me un periodo difficile, anche perché eravamo nel pieno dell’inverno. Il gelo stringeva e chi passava per strada lo faceva di fretta, senza aver certo il tempo e tanto meno la voglia di far caso a un randagio.
D’altra parte, io non sapevo più dove andare.
Non volevo abbandonare Venturina e neppure la mia missione di animale protettore.
Ma una sera di neve, in cui il buio pareva fatto di schegge che tagliavano il muso, scoprii di non avere neppure più la forza di tremare per il freddo. Già cominciavo a perdere la sensibilità e il gelo s’era trasformato in dolcezza, in uno stato di stupore ormai prossimo al sonno. Con l’ultimo barlume che ancora mi restava, provai a tirare le somme di quello che era stato e di ciò che potevo attendermi per il domani. Ormai anch’io ero anziano, ero giunto alla fine della mia settima vita e in fondo avevo cercato di fare del mio meglio.
Le strade erano deserte, si sentiva soltanto cadere la neve a grossi fiocchi fragili, come lana di gelo.
Decisi di lasciarmi morire sulla soglia dell’ultima dimora, triste, di Venturina. Già mi ero accucciato come facciamo noi gatti quando sentiamo che è giunto il momento di andarcene.
Non ci sarebbe stata per me un’altra vita. Potevo solo rinascere sotto forma di sentimento, e fu allora che pregai di poter rimanere nel cuore di Venturina come un filo di speranza, di nuova energia per vivere in quel luogo deprimente, in quel gattile per vecchi.
Chiusi gli occhi e posai il muso sulle zampe.
In quel momento sentii una mano sollevarmi, ed era calda e gentile. In breve mi ritrovai avvolto in una giacca, coperto da una sciarpa pesante e quella mano, dolce, mi accarezzava.
 
  
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