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Autore: Alicat_Barbix    09/12/2018    1 recensioni
Trama:
John, forse il migliore agente a servizio dell'MI6, viene inviato sotto copertura ad indagare in uno dei più eminenti Night Club di Londra, per stanare la mente criminale più pericolosa che il mondo abbia mai conosciuto. A questa missione John è pronto, sa che non può fallire, che nelle sue mani vi è il destino di Londra e non solo. O almeno, crede di essere pronto, ma un bizzarro incontro con uno dei dipendenti del locale ha il potere di ribaltare le carte in tavola.
Sherlock, decisamente il miglior prostituto all'interno del Morningstar, vive felicemente la sua vita densa di sesso, avventure e disinibizione. Sherlock ama il suo lavoro, lo trova divertente e sa di essere il migliore e che niente potrebbe mai cambiare la sua vita da condannato all'Inferno che però tanto adora. O almeno, crede che niente possa cambiare la sua vita "perfetta", ma un bizzarro incontro con un ex medico militare così facile eppure difficile da leggere con le sue deduzioni ha il potere di stravolgere la sua intera esistenza.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 

Swear You Won't Fall For Me
 
Nel cielo notturno londinese, una cosa che difficilmente era possibile trovare, erano le stelle. Nelle serate più terse e calme, quelle più ariose e meno umide, si intravedevano le loro timide e fioche luci, dietro il blu intenso di quel manto notturno.
Erano passati ormai quattro giorni da quando aveva dovuto fingersi uno stalker ossessionato da Sherlock per parare il culo ad entrambi. Durante quel lasso di tempo in cui si era dovuto tenere distante dal moro, si era comunque intrufolato il più furtivamente possibile nel locale, alla ricerca di una pista da seguire. La nottata passata con Mary aveva sorbito i suoi effetti: la ragazza aveva fatto in tempo a condurlo in camera, prima di crollare sul letto, in preda all’esuberanza dettata dalla polverina che lui le aveva disciolto nel cocktail e si era dimostrata come un libro aperto. Aveva scoperto del coinvolgimento del loro capo – il cui nome però non era stata abbastanza audace o più semplicemente abbastanza drogata da rivelare – con la clinica di Culverton Smith, quel fetente ed insignificante ometto che sponsorizzava associazioni di beneficienza solo per accrescere la popolarità del suo nome. A quanto pareva, gli avversari del capo del Morningstar, quelli scomodi e che si trovavano in mezzo alla sua strada, venivano inviati in quell’ospedale con la scusa di una disintossicazione, a volte anche per droghe che in vita loro non avevano mai assunto, ma d’altronde era la parola loro contro quella di una clinica specializzata, anche se corrotta. Avrebbe dovuto, dunque, indagare anche su Smith. In secondo luogo, il capo aveva una notevole influenza persino nel campo del giornalismo ed era associato ad un certo Magnussen, uno dei più importanti giornalisti non solo in Inghilterra, ma persino in Europa. Da quanto aveva capito dai discorsi farneticanti di Mary, colui che gestiva il locale vendeva a Magnussen informazioni – che loro chiamavano col nome di pressure points – su soggetti appartenenti all’alta società, come politici o ambasciatori, giudici e magistrati, che poi il giornalista catalogava nel suo archivio segreto per ricattare i malcapitati. E, ultimo ma non per importanza, l’apparenza gentile ed innocente della ragazza che aveva appena messo KO era solo una facciata: Mary era un sicario e apparteneva alla cerchia vicina al capo assieme ad altri quattro agenti su cui, però, era stata in grado di tacere. Estorta la confessione, John si era limitato a farsi una rapida doccia, approfittando di quel lussuoso bagno, e a prepararsi ad affrontare Sherlock.
Con un sospiro, si passò i palmi delle mani in viso, gli occhi che gli bruciavano a causa delle molte ore trascorse su internet alla ricerca di informazioni utili su Culverton Smith e Charles August Magnussen. Era mortalmente stanco e nonostante le informazioni raccolte, si sentiva sempre troppo lontano dalla verità e, soprattutto, dal liberare Sherlock. Per quella sera, avrebbe cercato di mettere da parte il lavoro, la missione, Mycroft, il Morningstar e sì, anche Sherlock. Quella notte si sarebbe concesso delle sane ore di riposo, in modo che l’indomani si sarebbe svegliato ristorato e determinato. Si alzò dalla scrivania, la schiena che doleva appena per le numerose ore seduto, ma improvvisamente qualcosa lo paralizzò sul posto.
Il motore di una moto. Sempre più vicino, sempre più vicino… Infine fermo di fronte a casa sua. Attese, la moto che, di colpo, tacque. Si rese conto che l’intera casa era avvolta dal buio e che quella era l’unica stanza con la luce accesa. Estrasse con movimento fluido la pistola dalla cintura, mentre faceva per avvicinarsi cautamente alla finestra e spiare chiunque avesse parcheggiato di fronte a casa sua, ma inaspettatamente il vetro di fronte a lui venne colpito da un sasso dalle dimensioni infime. Che razza di esecuzione era mai quella? Si appiattì contro la parete e, nascondendosi dietro alla tenda, allungò l’occhio verso la strada che si stendeva di fronte alla sua residenza. E ciò che lo vide, gli provocò turbamento e, al contempo, sollievo.
Aprì la finestra di scatto, bloccando uno Sherlock in procinto di lanciare un secondo sasso contro la finestra. Con un’espressione allusiva, fece roteare alla luce del lampione la pistola nera e lucida.
“Cos’è, stavi per suicidarti tanta era la mia mancanza?” gli domandò il moro da sotto, a voce alta.
“In realtà stavo per puntartela contro.”
Sherlock si dipinse in viso uno sguardo allibito. “Non ci siamo ancora sposati e già vuoi sbarazzarti di me?”
“Che razza di concezione hai dei matrimoni?”
“Sposami e lo saprai!”
“E’ una proposta ufficiale?”
“Solo se accetti, se rifiuti farei la figura del coglione.”
“Non ti sei neanche messo in ginocchio.”
“Ho ancora una dignità, Rose!”
John ridacchiò e infilò la pistola nella fondina, scuotendo appena la testa, un gesto che era ormai solito fare in presenza di quel folle.
“A questo proposito, chi cazzo è John Watson? C’è il suo nome sull’etichetta accanto al citofono.”
“Quello che abitava qui prima di me. Non ho ancora avuto modo di sostituirla. Aspetta che scendo.”
E infilandosi una giacca, scese le scale di corsa, fino ad arrivare al piano terra dove, prima di uscire, si osservò nello specchio che troneggiava sopra al mobiletto delle scarpe. Preso un respiro profondo, uscì all’aria fresca della sera.
Sherlock lo aspettava con fare provocante, appoggiato lascivamente alla sella della motocicletta e intento ad osservarlo come un dolce vivente. “Salve, dolcezza.”
“Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto a trovarmi? Tu hai una moto?”
“Piano, piano, piano.” lo frenò il moro ridacchiando e sventolandogli davanti le mani disposte a simboleggiare il time out. “Una domanda alla volta: ti ho trovato rintracciando il segnale GPS del tuo telefono; tecnicamente la moto è di Victor ma me l’ha, inconsapevolmente, prestata; infine sono qui perché per stasera il Morningstar è chiuso alla clientela per celebrare il compleanno di Irene e lei ha espressamente chiesto di volere una festicciola intima, solo dipendenti.”
John incrociò le braccia, un sopracciglio inarcato. “Il che non spiega perché tu sia qui visto che saresti tenuto a partecipare.”
“Dio, come sei noioso! Quasi quasi me ne ritorno a quella tortura. Se in trecento sessantaquattro giorni l’anno i lavoratori all’interno di un bordello sanno perfettamente come divertirsi, c’è sempre quel giorno, il loro compleanno, in cui perdono completamente lo spirito e si dedicano a balli di gruppo, giochi infantili come quello delle sedie o quello della mela… Non fraintendermi, sarei morto dalla voglia di partecipare alla festa e cantare Happy birthday to you alla cara Irene, ma poi ho pensato che tu avresti passato la serata solo soletto, a casa tua, senza nessuno accanto… E così mi sono dovuto sacrificare.”
“Immagino quanto ti sia costato.” sogghignò Watson di rimando. “Ad ogni modo, avrei anche potuto avere compagnia. Stai dando per scontato che io sia solo come un cane.”
“Andy, Andy…” sospirò Holmes sentitamente esasperato. “Credevo che ormai avessi imparato a non chiedermi di sottolinearmi l’ovvio. Un uomo con dei saldi principi morali come te, come abbiamo già potuto appurare la prima sera che ci siamo conosciuti, non avrebbe mai potuto frequentare un bordello se immischiato in una relazione. Non sei tipo da tradire.”
“Magari frequento il bordello per altri motivi.” replicò l’agente assumendo la stessa espressione saccente dell’altro.
“Ah sì? Illuminami.”
“Magari sono una spia incaricata di indagare su di te e sul vostro covo di amoralità.” continuò celando una mezza risata. Forse si stava esponendo troppo, ma Dio se gli piaceva giocare col fuoco, giocare con Sherlock.
“Beh, a questo punto…” iniziò il moro staccandosi dalla motocicletta argentea e avvicinandoglisi pericolosamente, le dita che presero a giocherellare con i primi due bottoni della camicia dell’altro che si era dimenticato di chiudere. “… ci sono molti modi per estorcere informazioni, sai?”
“Sul serio?”
“Sì…” continuò Holmes scostandogli i due lembi della camicia e rivelando la sua pelle abbronzata, pelle che quello si perse a contemplare con interesse. “Sono certo che, con i giusti mezzi ovviamente, saresti capace di farmi urlare qualsiasi cosa tu stia cercando…”
John cercò di celare il disagio e l’inadeguatezza che provava ogni volta che allusioni come quella lasciavano le labbra di Sherlock, sbuffando e afferrando il casco appoggiato sulla sella della moto.
“Ehi, quello è mio…” borbottò l’altro con volto corrucciato.
“Non più, mi spiace.”
Montarono in sella e se l’intento di John era quello di riacquistare il controllo che sembrava essere sempre più debole quando si trattava del moro dagli occhi acquamarina che tormentava il suo cervello da un po’ di tempo, allora era solo un povero illuso e un idiota. Sherlock gli prese le braccia ciondolanti completamente a caso e se le portò ai fianchi, incoraggiandolo ad avvicinarglisi e a premersi contro di lui. John seguì i suoi movimenti con riluttanza e insicurezza, terrorizzato all’idea che il suo corpo avesse potuto commettere qualche sciocchezza da un momento all’altro. “Agitato, signor spione?”
“N-no.” balbettò, chiudendo la mandibola sulla lingua non appena si rese conto del suo tono tremante di voce.
Sherlock ridacchiò e con gesti sicuri mise in moto e partì, John, dietro, che gli si stringeva contro con disperazione per resistere alla velocità. Al primo semaforo, l’agente ebbe la tentazione di scendere e piantarsi in mezzo alla strada col muso per quella completa pirateria stradale.
“Non potresti andare più piano!?” sbottò allora allentando la presa e cercando di riacquistare la distanza.
“Lo vedi? Se andassi piano non ti spiaccicheresti contro di me. E’ bello sentire ogni parte del tuo corpo.”
“Cristo santo, Sherlock, un’altra parola, una sola parola e ti assicuro che…”
Ma il rombo del motore gli fece ingoiare l’intera frase e lo spinse a premersi contro la schiena dell’altro. E va bene, si disse, questo match glielo avrebbe anche concesso, ma la guerra contro Holmes era ancora lunga. Molto lunga. Dopo una decina di minuti, arrivarono ad un locale all’apparenza non troppo grande, con un’incessante musica che sembrava risuonare ovunque prorompente e disinibita. John scese rapidamente dalla motocicletta, lieto che quel supplizio fosse finito, ma poi si ritrovò a fissare dubbiosamente l’edificio di fronte a lui.
“Una discoteca?”
“Avevo voglia di ballare.”
“Non ho mai sentito di questo posto.”
“E’ un posticino per pochi intimi. Io conosco bene la proprietaria, viene al Morningstar almeno tre volte la settimana, quando non è impegnata qui.”
Annuì un paio di volte. “E immagino che s’intrattenga con te.”
“Oh, sì, solitamente passiamo il tempo giocando a burraco. Sono le serate più estreme.” scherzò Sherlock sfiorandogli la schiena e provocandogli una serie di brividi incontrollabili. “Andiamo?”
“Okay…”
Entrarono nel locale che, effettivamente, non era grandissimo né pieno zeppo di gente. Era un posticino niente male, se proprio doveva ammetterlo, con un gusto nell’arredamento raffinato ma al contempo semplice. Due ragazze presero loro i cappotti e porsero loro due drink offerti dalla casa. John si soffermò un secondo in più a contemplare la figura di una delle due e non si accorse dello Sherlock infastidito che si diresse a tutta velocità verso la pista da ballo con tanto di broncio e sospiri.
Quando, finalmente, distolse lo sguardo dalla donna – terribilmente somigliante ad Anthea, l’assistente di Mycroft – cercò la figura dell’altro in mezzo alla pista, ma lo trovò piantato in disparte, le braccia conserte e il volto corrucciato.
“Dov’eri finito?” gli chiese avvicinandoglisi con tono infastidito.
“Scusa se mi ero stancato di aspettare che la tua analisi a raggi x della tipa finisse.” sputò improvvisamente sulla difensiva il moro.
“Ehi, ma che ti prende tutto ad un tratto?”
“Niente, Andy, niente.”
Attesero in silenzio, lì impalati come due statue, per una decina di minuti abbondante, finché una ragazza con l’aspetto di una scolaretta troppo cresciuta, con tanto di occhiali e cravattino, non si avvicinò loro e invitò Sherlock a ballare. John avvertì subito un fastidio non indifferente nello scorgere il sorriso spontaneo che affiorò sulle labbra dell’altro.
“Divertiti.” borbottò allora con un sospiro.
Il moro sussurrò qualcosa all’orecchio della ragazza che annuì con un mezzo risolino e tornò in pista, mentre lui si accostò nuovamente a Watson, un’espressione divertita in volto. “La prima.”
“La prima che?”
“La prima vittima. La seconda sarà quel tizio tutto muscoli là. Poi sarà il turno di quel ragazzo con i capelli rossi e infine…”
“La ragazza che al momento è in bagno a rifarsi il trucco?” ironizzò John con un sopracciglio inarcato.
Lo sguardo di Sherlock si tinse di ombroso mistero. “No, sarai tu.”
E prima che potesse rispondere, il moro si volse e seguì la ragazza di prima in pista, in un punto abbastanza vicino a John perché lo potesse vedere. Ammirare. Gli occhi blu dell’agente erano sgranati, rapiti nell’osservare quei movimenti sinuosi e provocanti. Sherlock non si limitava a ballare, no, la sua filosofia nel muoversi non era quella di divertirsi, di limitarsi a seguire la musica… La sua filosofia era di attrarre su di sé ogni sguardo, di provocare, di sedurre… La ragazza era sempre più vicina, sempre più eccitata, le sue braccia circondarono il collo del moro, il suo bacino si attaccò al suo e John avvertì il bicchiere che gli era stato offerto dalle due all’entrata stridere, tanta era forza la sua presa sul bicchiere. Poteva essere geloso? Geloso di Sherlock? Così geloso di Sherlock? C’era qualcosa fra di loro, non poteva negarlo, ma da lì a provare una simile emozione distruttiva troppo doveva correre. Giusto?
Improvvisamente, Sherlock si separò dal corpo della ragazza per avvicinarsi ad un uomo muscoloso, lo stesso che prima aveva indicato come seconda vittima. E quello osò ancora di più della biondina: si accostò a lui, le mani che scivolarono verso le sue natiche e John avrebbe davvero voluto intervenire e… e cosa? Non lo sapeva nemmeno lui. Ma il culmine della gelosia si scatenò quando, dopo una mezz’ora buona che Sherlock ancheggiava senza freni attorniato da chissà quante altre vittime che non aveva calcolato, il rossino designato come terza preda conquistò completamente la sua attenzione, distaccandolo dal resto del gruppetto e tenendoselo stretto in un abbraccio possessivo, le mani che percorrevano ogni centimetro della sua schiena.
John, finalmente, dopo minuti di supplizio di fronte a quella visione, si staccò dalla parete a cui si era praticamente incollato dall’inizio della serata e marciò verso i due, scansando brutalmente gli ostacoli che gli si paravano davanti. Il rossino stava ghermendo i fianchi magri di Sherlock da dietro, le sue labbra che sondavano la pelle del collo latteo dell’altro, e John… John sentiva la rabbia dirompere, fluire, eruttare nel momento in cui riuscì a stento a trattenere l’irrefrenabile impulso di ghermire il braccio del moro e tirarlo via da quel tizio. Invece, si limitò a schiarirsi la voce con malcelato fastidio.
E la verità era che non avrebbe mai creduto potesse funzionare. Sherlock si volse con un sorrisino malizioso stampato in viso, come se non aspettasse altro che rinfacciargli la sua gelosia. Anche se, ovviamente, John non era geloso.
“Scusa, amico, sarà per un’altra volta. Mi trovi al Morningstar, se sarai ancora così eccitato.”
John inarcò un sopracciglio nel momento in cui l’altro si abbassò sul rossino, rubandogli un bacio a stampo, per poi limitarsi ad allontanarsi per avvicinarsi a lui che, nel frattempo, non aveva più la minima idea di che cosa fare. “Allora, signor spione, come vede ho sempre ragione.”
“E quello cosa significava? Mi hai portato qui per attirarti nuovi clienti? Quelli che già hai non ti bastano?”
C’era seccatura nel modo in cui la sua voce aveva pronunciato quelle parole e lui ne era, sfortunatamente, ben consapevole. E quel fottuto sorriso che Sherlock non pareva volersi sciacquar via dalla faccia non faceva che aumentare quel malessere che provava. Avrebbe voluto fare così tante cose in quel momento – prenderlo a pugni, fracassargli il naso, spaccargli un labbro, fare tutto questo a quel rossino che, ancora, non aveva distolto gli occhi dal suo amico, e… Dio. Quando quell’ultimo pensiero si affacciò alla mente di John, si trovò spiazzato, la gola improvvisamente secca. Ci sarebbe stato un modo per ribaltare le carte in tavola al signor stronzetto lì presente, ciononostante non avrebbe rinunciato alla sua dignità solo per battere quel fetente.
Sherlock si spinse contro di lui, circondandogli il collo con le braccia e accostandosi a lui con sguardo lascivo. “Vuole avere il monopolio, signor spione?” sussurrò mentre la musica disco si abbassava, lasciando posto ad un lento. “Non vuole condividermi con nessuno?” Le mani di John formicolavano. Non aveva la più pallida idea di cosa farne, avrebbe tanto voluto che sparissero, ma improvvisamente Sherlock spinse con provocante lentezza il proprio bacino contro il suo, mentre con le labbra si abbassava su di lui, raggiungendo l’orecchio. “Può anche poggiarmele sui fianchi, Mr gelosia.”
“Quanti titoli hai ancora in mente?” domandò il biondo ignorando quel contatto allusivo e la voce calda dell’altro ad un soffio da lui.
“Credimi, Andy, non sono ancora a metà e se mi permettessi di spingermi un pochino oltre potrei trovarne altrettanti, se non di più.” rispose semplicemente l’altro.
John sospirò, mentre le sue mani indugiavano sui fianchi magri eppure morbidi di Sherlock. Ballavano lentamente, rimanendo praticamente fissi sul posto, ondeggiando tra tante altre coppie perse in quegli abbracci che chissà quanto rappresentavano per loro. Sherlock e John, invece, erano lì per caso, corsi su di una motocicletta rubata – o presa in prestito – solo per sfuggire un po’ alla noia di un party di compleanno, arrivati in quel locale per scambiarsi battutine cariche di malizia e per scommettere su loro stessi.
“Sette.”
“Come, scusa?”
“Sette persone che hanno ballato con te prima di me, da quel che ho potuto contare.”
Sherlock ridacchiò appena. “Mi sorprende tu li abbia contati.” Mentre la musica si faceva più struggente e, al contempo, appassionata, fece scivolare la sua testa sulla spalla di John, nonostante la differenza d’altezza, e in quel vero e proprio abbraccio continuarono a muoversi piano, quasi non respiravano, e c’era davvero qualcosa di magico in quei passi, in quegli occhi semichiusi, in quei corpi stretti l’uno all’altro. Fu in quel momento, che John lo sentì. Forse fu un abbaglio, forse fu un’effimera illusione, eppure… Il cuore di Sherlock, contro il suo petto, galoppava ad una velocità irregolare. Si staccarono appena, gli occhi allacciati insieme, le mani ancora serrate sui fianchi e sulle spalle uno dell’altro. Erano vicini e un bacio avrebbe potuto spezzare ogni equilibrio, ogni certezza, perché un bacio era esattamente quello che sarebbe potuto scaturire da un minimo avvicinamento fra loro. Ma un bacio sarebbe stato paragonabile ad un peccato mortale. Non potevano, non dovevano. John era un agente sotto copertura e Sherlock era un prostituto di professione, abile, ingannevole. Chissà quanti altri stratagemmi aveva in sacco per sconfiggere quel rimasuglio di buon senso ancora aggrappato alle sue pareti cerebrali.
“Mi gira un po’ la testa.” sussurrò allora, scostandosi appena.
“Ci vuole così poco per piegare la tua resistenza, Rose? E io che credevo avrei conseguito un record a letto con te.”
John, di riflesso, scoppiò a ridere, mentre la musica taceva e veniva sostituita da una più movimentata, che indusse la maggior parte delle persone in pista a riprendere i loro movimenti scoordinati e confusionari. Scorse gli occhi dell’altro sfrecciare alle sue spalle e un debole cenno del capo, come di saluto.
“Vieni, ti presento una persona.”
E detto questo, Sherlock gli prese una mano e lo tirò con sé verso la figura di una donna dai morbidi capelli castani che le ricadevano sul fisico robusto.
“Janine.” la salutò il moro schioccandole due baci sulle guance.
“Sherl.”
Sherl? si ripeté John inarcando un sopracciglio.
“Andy, lei è Janine, la proprietaria di questo locale. Janine, questo è Andy Rose, la persona di cui ti ho parlato.”
“Le hai parlato di me?”
Janine ridacchiò, un’espressione furba dipinta in volto. “Oh, sì. Mi ha chiesto di cambiare apposta la musica una volta che quel biondino da favola, come ti ha definito, lo avesse raggiunto in pista. Non mi sarei mai aspettata di avere l’onore di incontrare il ragazzo di Sherl.”
“Non sono il suo ragazzo.” ribatté prontamente l’agente.
“Per altro” continuò lei come se non l’avesse sentito. “non credevo nemmeno che i dipendenti di un bordello potessero avere una relazione vera e propria al di fuori di quel posto. Devi essere un tipo molto tollerante, Andy.”
“Non sono il suo ragazzo.” ripeté allora lui, un’espressione esasperata in volto.
“E a letto com’è? Intendo, è passionale? Aggressivo? Violento? Disperato?”
“Tutti questi insieme, Janine. Io e Andy, col sesso, facciamo scintille.” intervenne il moro lanciando uno sguardo allusivo in sua direzione che, per tutta risposta, corrugò la fronte in un’esemplare manifestazione d’astio.
“Non sai che invidia, Andy.” sospirò quasi tristemente la donna.
John alzò gli occhi al cielo. “Sì, beh… A questo proposito, Sherl, perché non andiamo a casa?”
“Di già? Non è neanche mezzanotte.”
“Sai, per mostrarmi tutti questi lati di te ci vuole un po’ di tempo.” rispose semplicemente prima di sfoggiare un sorriso di circostanza in direzione di Janine. “E’ stato un piacere.”
“Per me non troppo, se devo essere sincera.” rise lei stringendogli la mano e piegandosi, all’ultimo, su di lui. “Tienitelo stretto.” mormorò al suo orecchio prima di scostarsi, baciare sulla guancia Sherlock e defilarsi.
Arrivati di fronte alla sua casa, John scese rapidamente, sfilandosi il casco e porgendolo al moro che, a sua volta, era balzato giù dalla moto. “Grazie della serata.” borbottò il biondo, non troppo convinto.
“Non mi inviti a salire?” domandò subitamente l’altro con un accenno di sentita speranza nella voce e in volto.
“Al primo appuntamento? Questa sera mi hai chiesto di sposarti, ho ballato e ho scoperto di essere il tuo ragazzo. Un po’ troppo insieme, non trovi?”
“Per me non esiste la parola troppo.” ribatté Sherlock con un sorriso diabolico. “Comunque, se davvero dev’essere un primo appuntamento che si rispetti, uno di quelli insensati da film, allora mi merito, almeno, un bacio.”
John gli rifilò un occhiata di biasimo a quelle parole, ciononostante non retrocedette per tornarsene a casa come si era prefissato di fare, no, rimase immobile qualche istante ancora, infine, si alzò sulle punte dei piedi e le sue labbra depositarono un bacio casto. Sherlock chiuse gli occhi, nonostante, molto probabilmente, dentro lo stesse maledicendo per quello stupido contatto da elementari e, forse, anche asilo. Però Sherlock chiuse gli occhi e non disse niente. Quando, infine, John si staccò e fece per imboccare l’ingresso, la voce baritonale del moro lo trattenne: “Un bacio sulla fronte, Andy? Cosa sei, mia madre?”
Si volse con un sorrisetto ironico a stirargli le labbra. “Non era un bacio. Stavo solo controllando se la febbre fosse definitivamente scesa. Fortunatamente se n’è andata.”
“Anche la mia pazienza, dottore.” rimarcò Sherlock ficcando le mani in quel giubbetto di pelle nera così inusuale per un tipo da giacca e cravatta come lui.
“Forse devi solo spostare il tuo mirino su qualcun altro.”
“Non lo farò. Non lo faccio mai.”
“Allora ti guarderò perdere malamente, Holmes.” rise John prima di accennare un gesto di saluto con la mano e rientrare in casa, lasciando uno Sherlock perso a scrutare il vuoto sotto una volta celeste senza stelle.
 
Molly Hooper era una ragazza di appena sedici anni. A guardarla, il suo viso etereo pareva quello di una bambina in fasce, innocente, inconsapevole, inadatta a frequentare quel luogo. Era un’aspirante ballerina, stava lavorando sodo sotto lo sguardo critico di una Mary, quel giorno, dispotica e nervosa. John era da poco entrato nel locale ancora chiuso al pubblico e si era accinto ad uscire quando aveva scorto il corpo della ragazzina attorcigliarsi in movenze seducenti, quando la voce di Mary lo aveva costretto a rimanere.
“Le farà bene un po’ di pressione dall’esterno.”
Molly era vestita con una tuta abbastanza coprente, costellata di strass, e aveva il viso imbrattato di un trucco pesante, ma nonostante tutto, lo sguardo che gli rivolse corrispondeva a quello di una bambina implorante.
“Non voglio che si senta a disagio.”
“Non deve sentirsi a disagio, Andy, deve ballare e far eccitare chiunque la guardi, direi che siamo lontani anni luce da questo risultato.” ribatté con voce secca e severa l’altra, le braccia incrociate e gli occhi freddamente fissi sull’allieva. “Avanti, tu, che stai aspettando? Vuoi un biscottino?”
Era diversa, Mary. Solo uno stupido non se ne sarebbe reso conto e di certo John non era uno di quelli. Insomma, sapeva perfettamente di quello che aveva fatto, del sangue che scorreva sulle sue mani, dietro a quel sorriso serafico, ma quell’atteggiamento improvvisamente aperto e disinibitamente ostile nei suoi confronti lo mise in allarme, così, mentre Molly si apprestava a riprendere l’allenamento, si sforzò di sfiorarle delicatamente una spalla. “Va tutto bene?”
Mary gli rifilò un’occhiata truce. “Se va tutto bene? No, Andy, non va tutto bene. Che cazzo ci fai qui? Sei venuto per lui, non è così?”
“Io…” Ma fu costretto a mordersi il labbro, con aria colpevole. Lo sguardo che dimorava sul volto della donna era un mix letale di odio e tristezza, due emozioni così ossimoriche da confondere e turbare se accostate insieme.
“Ho saputo, sai, della tua ossessione per lui. Qui dentro non si parla d’altro. Non credevo che anche tu potessi essere così demente da infatuarti di uno simile!” gli urlò contro, isterica. “Vuoi scoparti uno strambo? Uno psicopatico? Accomodati, è su di sopra che si tira l’uccello pensando a te e alla tua perversa ossessione!”
John le si fece vicino indurendo lo sguardo al punto da sembrare minaccioso, ambo i pugni chiusi in una morsa con cui avrebbe felicemente spaccato qualcosa se non si fosse trovato nel bel mezzo di una grande pista da ballo spoglia. “Non osare più rivolgerti a lui in quel modo. Sono stato chiaro?”
“Altrimenti che fai, eh? Non puoi niente qui dentro! E’ il mio regno. Sono tra i favoriti del capo e anzi, parlami ancora come hai appena fatto e non ti assicuro che tornerai tutto intero a casa.”
“Se stai cercando di spaventarmi, mi spiace ma non funzionerà.”
“Certo! Certo che no! Perché sei pazzo, proprio come quello per cui ti struggi tanto!” ruggì lei di rimando, pestando un piede a terra. “Sai che c’è? Fottiti, Andy Rose, e fa’ in modo che non debba più incrociare la tua stupida faccia di nuovo!”
John osservò la schiena di Mary allontanarsi verso il piano di sopra, probabilmente diretta all’ala destinata ai ballerini di lap dance. Non riusciva a spiegarsi una simile scenata – ovviamente non ne era affatto sconvolto, al contrario. Provava un ribrezzo istintivo per quell’isterica biondina che, a quanto pare, l’aveva preso più che in simpatia. Con la coda dell’occhio, scorse Molly Hooper scendere dal palchetto e afferrare una camicetta aperta con cui avvolgersi le spalle, ma quando capì che aveva intenzione di sparire a sua volta, la richiamò.
“Molly?” La ragazza si gelò sul posto, la schiena rigida, e le braccia a tirarsi ancora più prepotentemente la camicetta addosso. “Posso parlarti?” domandò ancora in tono dolce, avvicinandosi a passo incerto. Era come avere proiettato davanti agli occhi il fascicolo di quella povera ragazza completamente abbandonata a se stessa, chiusa in un orfanotrofio dalla nascita e ripetutamente delusa da tutte le potenziali famiglie adottive. La sua storia era stilata in pochi trafiletti, troppo breve, troppo concisa, troppo riassuntiva, perché una vita simile, seppure breve, seppure priva di episodi eclatanti, non poteva venire accorpata in poche righe d’inchiostro. Sin da quando quel fascicolo gli era capitato in mano, aveva atteso il momento di incontrare quella coraggiosa Molly Hooper, data per dispersa dall’orfanotrofio da più di due mesi e che, a quanto pareva, aveva trovato rifugio tra quelle infide mura.
“Che cosa vuole?” chiese di rimando lei, senza voltarsi. “Come sa il mio nome?”
“Beh, ecco… Mary mi aveva parlato di te.”
“Impossibile. Mary mi detesta.”
Un sorrisetto schiuse le labbra dell’agente. “Non ho mai detto ne avesse parlato in bene.”
“Infatti.” concordò la ragazza degnandolo appena di un’occhiata incerta. “Nessuno parla bene di me. Non l’hanno mai fatto prima non lo fanno adesso, né mai accadrà. Sono insignificante, nessuno mi vede o mi considera, io sono… sono nessuno.” L’amarezza in quella lapidaria frase lo colpì in pieno, lasciandolo completamente a bocca aperta, ma non ebbe tempo di ribattere che lei aveva già ripreso la parola. “Ad ogni modo, grazie.”
“Per che cosa?”
“Per aver difeso Sherlock.” rispose lei con una semplice scrollata di spalle. “Sono in pochi, ormai, che lo fanno. Persino Victor e Irene, quelli a lui più vicini, hanno smesso di proteggerlo da simili diffamazioni.”
“Lo conosci bene?”
Un lieve rossore le imporporò le gote. “No, io… L’avrò intravisto sì e no un paio di volte… Però mi piace. Non in quel senso! Intendo che… intendo che è un tipo apposto… E che non merita le cattiverie che qui dentro girano su di lui.”
“Pensavo godesse di ottima fama.”
Molly sospirò, voltandosi, finalmente, verso di lui. “Forse fuori, ma dentro… lo odiano tutti per la sua… abilità, chiamiamola così.” Un nuovo alone d’imbarazzo le chiazzò il volto. “Tra l’altro, tutti sanno quanto il capo gli sia legato.”
“Sì, ho sentito parlare del loro… legame.” sputò con acidità lui, le nocche che si sbiancavano ancora di più a causa della stretta a cui stava esercitando i suoi pugni.
La ragazza si cinse il suo stesso corpo con le braccia, gli occhi che luccicavano di lacrime. “Sai… Una volta… una volta io l’ho visto…” sussurrò tremante. “Ero in giardino ed ero uscita per respirare e urlare tutti gli insulti che avevo trattenuto nei confronti di Mary… E’ stato un caso, se non mi fossi voltata in quel punto preciso probabilmente neanche lo avrei visto, però… Era nascosto dietro un cespuglio di rose, ricordo di aver riconosciuto subito i ricci, l’unica cosa che spuntava tra le foglie. Quando mi sono avvicinata l’ho visto… curarsi le ferite. Quello che mi colpì fu… il vuoto che c’era nei suoi occhi – non dolore, non tristezza, non rabbia – solo vuoto. E quello sguardo ancora me lo sogno. Ho provato ad aiutarlo, a fare qualsiasi cose avrebbe potuto tirarlo su, ma lui mi ha detto che… che non era niente, che sarebbe passato, che lui era un Angelo caduto e che quindi stava ancora guarendo dalle ferite della caduta. E’ stato quel giorno che io…” Lasciò la frase in sospeso, perfettamente consapevole che l’altro aveva inteso, poi si passò una mano in volto, due lacrimoni le rotolarono giù dagli occhi nocciola. “Da quel giorno, ho sempre cercato di stare in guardia, di accorgermi dei segnali, del suo dolore… Ma la verità è che io non conto, che sono solo una ragazzina che se non si fosse perdutamente innamorata di un uomo che lavora qui sarebbe scappata di nuovo all’orfanotrofio a trascorrere gli ultimi due anni che la separavano dalla maggiore età nella solitudine e nell’abbandono… Io non conto... Però lei è diverso.”
“Diverso? Il mio è solo un tormento interiore, un pensiero fisso da cui non riesco a distaccarmi, non è un sentimento vero come il tuo…”
“So che sta mentendo.” lo interruppe la ragazza con un sorriso triste. “So che tiene a lui. L’ho vista, sa, quel giorno in cui Sherlock si era fatto. Il modo in cui si è preso cura di lui nonostante quasi nemmeno lo conoscesse non è stato un gesto dettato dal suo essere medico. Io ho visto affetto nel suo sguardo e quando, poco fa, lo ha difeso dagli insulti di Mary, ho visto… ho visto amore. E un grande coraggio, visto che per quanto possa tenere a lui io non sono mai riuscita a lottare.”
John avrebbe voluto negare e continuare a recitare la parte dello stalker, del pazzo ossessionato da un prostituto, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, non di fronte allo sguardo candido di quella giovane che gli ricordava tanto se stesso. In lei rivedeva lo stesso smarrimento, la stessa incertezza, lo stesso timore, e lo stesso senso di nullità che prima di arruolarsi non faceva che divorargli le viscere. Molly Hooper era come uno specchio che rifletteva la sua immagine distorta, quella più vera, quella più nascosta agli altri.
“Due sere fa è scomparso dalla festa di Irene e… due ore dopo si è ripresentato con un sorriso enorme. E’ stato con lei, vero?”
L’agente deglutì a vuoto un paio di volte. “Non in quel senso… Però sì, siamo usciti e siamo andati in un locale a ballare.”
“Sono passati cinque minuti prima che sul suo viso quel sorriso scomparisse, lasciando posto alla tristezza. Cinque minuti lontano dalla realtà che vi siete creati fuori di qui. Non l’avevo mai visto né felice né triste prima del suo arrivo. Lei lo rende più umano, anzi, lei tira fuori da lui la sua parte umana. E forse mi sbaglio, ma credo che lei, per Sherlock, rappresenti molto più di quanto crede…”
Il discorso cadde nel silenzio. Soggetto e riflesso si osservavano mutamente. John era spiazzato da quell’amore che campeggiava negli occhi della ragazza. Aveva sedici anni ma sembrava così adulta. Era scappata dall’orfanotrofio perché stanca dei continui rifiuti, dei continui no, e, disperata, aveva chiesto asilo all’Inferno invece che al Paradiso. L’amore per Sherlock l’aveva trattenuta, il suo senso di protezione l’aveva trattenuta, la sua paura per l’incolumità dell’uomo che amava l’aveva trattenuta. E John, John che era diviso in due, John che combatteva contro se stesso, John che fingeva anche quand’era solo, non poteva fare altro che ammirarla.
Le si avvicinò lentamente, quasi timoroso che, come un gatto randagio, lei potesse schizzare via, e tese le braccia in sua direzione. Molly non esitò un istante a correre nell’abbraccio di uno sconosciuto a cui aveva appena fatto l’esatta radiografia. Soffocò qualche singhiozzo contro quel petto caldo e tonico in cui un cuore batteva tristemente incompreso dal padrone.
“Sei la persona più forte che io abbia mai conosciuto. La tua capacità di amare è disarmante, Molly. E io ti auguro di trovare una persona che sia degna di tutto questo amore.” Di fronte ad un singhiozzo disperato e a stento trattenuto, si trovò in dovere di proseguire e di dare voce a tutti quei pensieri che, alla rinfusa, gli affollavano la mente. “E non pensare mai di essere debole o insignificante, perché chiunque pensi questo di te è un idiota. Sai che dice Sherlock? Che il mondo è fatto di idioti. Per cui abituati, perché con tutta probabilità di queste falsità ne sentirai ancora, ma non pensare mai di essere tu quella sbagliata, hai capito? Mai. Nemmeno se altre coppie verranno all’orfanotrofio, ti illuderanno e poi ti lasceranno.”
Molly, a quelle parole, si paralizzò e John solo in quel momento comprese la portata dell’errore che aveva appena commesso. Ma a dispetto delle aspettative, la ragazza non si sottrasse a quell’abbraccio, né prese ad urlargli domande da interrogatorio, anzi, fece più pressione sul suo corpo e gli parve quasi di sentire il suo volto strusciarsi infantilmente contro di lui. “Ha qualche segreto, eh?”
“Qualcuno.” ammise infine lui con un sospiro.
“Non può svelarmi niente, vero?”
“Beh, io sono…” Nel cercare le parole adatte, scansò delicatamente il corpo esile della ballerina e le puntò addosso uno sguardo intenso, unito ad un dolce sorriso quasi paterno. “Io sono qui per salvare Sherlock, te e chiunque altro voglia essere salvato qui dentro.”
“E’ il nostro Superman personale.”
“Una cosa del genere, sì, anche se non ho un mantello e tutti quei muscoli né tantomeno so volare.”
Molly scoppiò a ridere. “Beh, io le sembro una ballerina di lap dance?”
“No, in effetti no.” rispose lui, contagiato da quella risata.
Improvvisamente, dal piano superiore si udì lo sbattere rabbioso di una porta e, a quel suono, entrambi sussultarono. “Che cos’è stato?” domandò John in un soffio cercando la risposta sul volto della ragazza che si era di colpo fatto terreo, gli occhi sgranati in cui si rifletteva una paura folla.
“E’ successo di nuovo.”
“Cosa?”
“Sherlock.”
Bastò quel nome per farlo staccare dal corpo di Molly e correre su per le scale, saltando i gradini a due a due e impugnando l’inseparabile pistola consuetamente attaccata alla cintura. Tutto d’un tratto, il terrore di quello che avrebbe potuto trovare gli precipitò sulle spalle, rallentando, quasi, la sua corsa verso Sherlock. Percepiva il cuore pompare disperatamente, le tempie pulsare, un peso oscuro sovraccaricargli il petto…
Sherlock… Sherlock… Sherlock…
Si ripeté quel nome ad ogni porta di fronte a cui passava, se lo strinse al cuore ogni passo che lo avvicinava a lui, si impresse in mente l’immagine di quel pazzo strafottente che lo aveva stregato dal primo momento in cui l’aveva visto.
Sherlock… Sherlock… Sherlock…
La stanza 21A gli si parò davanti completamente per caso, come le porte, all’interno dei sogni, che ti conducono in un’arena piena di leoni o in una gabbia di serpenti velenosi. Ma John sapeva perfettamente che ciò che lo attendeva al di là di quella barriera di legno era ben peggiore di fiere o pitoni.
Istintivamente, neanche bussò. Aprì e basta, e come si era aspettato, trovò la serratura schiavata. Entrò nella stanza a passo cauto, guardandosi intorno con circospezione. La camera era avvolta nel caos: vestiti a terra, il letto disfatto, la sedia rovesciata… Ma quello che catturò il suo sguardo fu qualcos’altro. Qualcosa di scuro. Di vermiglio. Una scia sulla moquette. I suoi occhi si riempirono d’orrore a quella vista e si chinò subitamente su quella traccia di sangue così estesa da mandare in crisi perfino lui, lui, medico militare, lui, spia esperta, lui, pratico di interrogatori cruenti… Lui, John Watson, che mille atrocità aveva visto, dinnanzi a quella scia di sangue dall’appartenenza inconfondibile, andò in panico. Si alzò di scatto e il suo sguardo catturò appena in tempo la porta spalancata del bagno della suite. Vi si avvicinò silenzioso, felpato, la mano che stringeva la presa sulla pistola. Ma, come un riflesso automatico, nel momento in cui si apprestava a sporgersi nella seconda stanzetta, sapeva già che non avrebbe dovuto fare uso di alcuna arma.
Di fatti, appena i suoi occhi ebbero accesso al vano di piastrelle bianche, alcune delle quali tappezzate di sporadici schizzi di sangue, abbassò la mano armata, ritrovandosi, sconfitto, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e gli occhi avvolti da un velo di tristezza. Sherlock se ne stava lì, di fronte a lui, appoggiato al lavandino. Gli voltava le spalle, ma John era in grado di vederne il viso tramite lo specchio, sebbene, da un lato, avrebbe preferito rimanerne ignaro. Non c’era più alcun rimasuglio di sangue, sulla pelle lattea del volto del moro – doveva essersi sfregato via ogni traccia con disperata determinazione – ciononostante un’estesa tumefazione gli aveva deformato quel viso etereo, a volte furbo, a volte serio, a volte nostalgico, a volte sereno, a volte… appassionato. Il viso che John aveva imparato a contemplare e riconoscere in ogni sua sfaccettatura… ma quel dolore, quell’immenso e rassegnato dolore mai avrebbe pensato di poterlo scorgere proprio su Sherlock.
Il moro lo scorse dallo specchio, ma non si scompose, non si volse, non fiatò. Rimase immobile a fissare gli occhi di John riflessi nel vetro. Era sconfitta ciò che dominava. Sconfitta e impotenza. Rassegnazione e disperazione. E per John era troppo da sopportare associate alla figura dell’altro.
“Chi ti ha fatto questo!?” sbraitò con un tremore alla voce dovuto all’angoscia che gli stritolava il cuore. “Dimmelo!”
Ma quello continuò a studiarlo imperscrutabile, finché non fu l’agente a muovere il primo passo, a tendere la mano a sfiorare la sua spalla. Gonfia anche quella. Chissà in che stato era ridotto quel corpo che aveva avuto l’onore e, da un lato, anche il piacere di ammirare quando aveva imbastito la storia dello stalker.
“Sherlock…” mormorò allora, comprendendo, accettando, firmando quel contratto invisibile che come clausola, per il momento, prevedeva il silenzio. Riprese ad avvicinarsi, dunque, fino ad arrivare ad un soffio da lui. Gli accarezzò i capelli con delicatezza e allacciò il suo sguardo con quello riflesso del moro. “Sherlock…” mormorò un ultima volta mentre faceva scivolare le braccia attorno al corpo dell’altro e si stringeva a lui prudentemente, timoroso di potergli recare dolore, le labbra che si posarono gentilmente su quel collo d’alabastro dove, per la prima volta, e forse fu un pensiero stupido, futile, scorse due piccoli nei, vicini come due stelle nel firmamento.
Non seppe quanto trascorse prima che la mano di Sherlock si posò sulle sue allacciate cautamente sul petto magro del moro. Non seppe quanto trascorse prima di percepire le lievi carezze sul suo dorso cullarlo al pari di una ninna nanna. Non seppe quanto trascorse prima che la voce di Sherlock gli giunse nitida e gutturale alle orecchie: “Andy, voglio che tu mi faccia una promessa.”
John riportò lo sguardo verso lo specchio, in volto impressa una serietà perentoria. “Qualunque cosa.”
Sherlock dovette prendersi alcuni secondi per ponderare le parole, deglutendo ripetutamente a vuoto, una ruga d’espressione a deturpargli la fronte. Il biondo si domandò che cosa mai lo turbasse tanto. Che cosa frullava in quella mente contorta? Che cosa pensava il suo Sherlock? Che cosa lo faceva esitare tanto?
“Promettimi che non ti innamorerai di me.”
John sgranò gli occhi, spiazzato, il mento appoggiato alla spalla dell’altro, e rimase per interminabili istanti saldo nella sua immobilità e nel suo mutismo. Stentava a credere a quello che Sherlock gli stava chiedendo e la verità era che non ne capiva il motivo. Forse perché la sola idea di innamorarsi gli risultava ridicola, forse perché fino ad allora aveva inconsciamente scartato a priori l’ipotesi che qualsiasi sentimento al di sopra dell’amicizia potesse essere un’opzione, forse perché era consapevole che l’amore non poteva essere controllato da una promessa, o forse perché… perché era impossibile non amarlo ora o in futuro.
“Sherlock…”
“Promettimelo, John. Promettilo, altrimenti ho paura che non sarò più in grado di starti accanto.”
E forse sbagliava, forse era solo un abbaglio, ma nello specchio John vide l’ombra di una lacrima al lato dell’occhio destro del moro. E pur di non farlo soffrire, pur di non staccarsi da lui, pur di restare così per sempre, sarebbe stato disposto a tutto. “Non mi sembra troppo difficile. Non potrei mai stare con un simile idiota petulante come te.” rispose in un mormorio, accompagnando quelle parole con un sorriso ironico, eppure immensamente amaro.
“Giura.”
“Lo giuro.”
Rimasero così a lungo, forse l’intero pomeriggio, magari anche l’intera notte, finché lui non prese per mano Sherlock, infilandolo sotto le coperte, visto che quel giorno e anche i seguenti, il moro sarebbe stato esente dal lavoro. Si limitò a sedersi sulla sedia e a guardarlo mentre contemplava assente il soffitto. Soffriva, John, nella sua ignoranza, nella sua debolezza, nella sua impotenza. Ora si sentiva come Molly Hooper. Incapace di fare qualsiasi cosa. Insignificante. Gli tenne la mano, nel sonno e nella veglia, negli incubi e nei tormenti da sveglio. Si sarebbe preso cura di Sherlock, a qualunque costo.
 
SPAZIO AUTRICI
Hello Gays! Ops, scusate, volevamo dire Hello Guys! Ci siamo lasciate coinvolgere dall'atmosfera gaia della storia... Anyway, capitolo arduo, eh... Abbiamo il John gelosone che è il TOP, Sherlock che gli chiede di sposarlo, il loro quasi bacio, Janine - love Janineeeee -, ma d'altra parte abbiamo anche Moriarty che chissà cos'ha combinato e Sherlock che si fa promettere da John di non innamorarsi di lui... Chissà che cos'è successo... Niente paura, non lo scoprirete nel prossimo capitolo! xb Ops... Dovrete portare pazienza.

 
Nel prossimo capitolo, comunque, ne accadranno delle BELLISSIMISSIME, quindi non mancate, eh!

Ad ogni modo, informazione di servizio: durante le vacanze di Natale pubblicheremo probabilmente due volte a settimana in modo da concludere il tutto per la fine dell'anno. E poi, anno nuovo long fic nuova! (su cui stiamo già lavorando... eheheheh). 

Bene, è tutto - per il momento. Vi aspettiamo a Sabato prossimo, gente. Sciauu
*kiss*
Alicat_Barbix 
   
 
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