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Autore: FantasyAlex    19/01/2019    2 recensioni
Un antico monastero, abbandonato e irraggiungibile al centro di una foresta, si trova sospeso nel tempo. Gli echi della storia si affacciano nel presente e dal presente può arrivare la svolta decisiva per spezzare l'antica maledizione che da secoli intrappola i suoi abitanti. Ma ci sono forze che giacciono in agguato, e attendono pazientemente che le porte del monastero vengano aperte per concludere ciò che hanno iniziato secoli prima.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2


Tutta l'attrezzatura si trovava gettata alla rinfusa in giro per la stanza, come se lo zaino da montagna color verde mimetico, che si trovava ai piedi del letto, fosse esploso e avesse riversato in terra il suo intero contenuto. C'era una corda da rocciatore, scarponcini ovviamente, alcuni maglioni pesanti, una bussola, un binocolo, una borraccia, alcune bende e cerotti utili per il primo soccorso, una di quelle piccole tende a montaggio rapido da uno o due posti ed un sacco a pelo blu, correttamente arrotolato per occupare il minor spazio possibile.

«E quindi hai deciso veramente di andare?»

Domandò Luke, mentre andava ad incrociare le braccia all'altezza del petto, con un'aria per nulla convinta.

«Avevi forse qualche dubbio?»

Rispose Albert, quasi con noncuranza, mentre stava controllando che la borraccia fosse stata ben lavata dopo l'ultima scampagnata.

«Senti, non puoi farti condizionare la vita da Mark. Quello è un idiota e lo sanno tutti. Anche se ti ha sfidato a raggiungere il monastero, non significa che devi farlo per forza. Nessuno gli darà peso e, fra un paio d'anni, quando avremo finito la scuola, chi vuoi che si ricorderà mai di questa storia?»

Albert poggiò la borraccia sul letto e si voltò verso l'amico. Era sempre stato più alto di lui, ma non di molto. In effetti erano entrambi piuttosto piccoletti, un metro e settantadue uno, un metro e settantacinque l'altro. Entrambi capelli castani, ma Albert aveva gli occhi azzurri, Luke marroni. Il fisico era normale, non troppo robusto, ma nemmeno troppo magro, anche se Luke era un po' più gracile e pallido dell'amico.
Albert si avvicinò e poggiò le mani sulle spalle dell'altro con un fare quasi fraterno.

«Lo so che è un idiota, ma ha voluto fare il gradasso con la persona sbagliata. Se riesco davvero a raggiungere il monastero, se torno con una delle pietre nere delle sue mura, lo zittirò per il resto dell'anno. Ogni volta che gli verrà la voglia di chiamarci "fidanzatini" mi basterà sventolargli davanti alla faccia la pietra per ricordare a tutti che lui ha fallito in qualcosa che io sono riuscito a fare.»

Era determinato, dannatamente determinato. E questo Luke lo sapeva bene, conosceva il carattere di Albert e sapeva che quando si metteva in testa una cosa nessuno era in grado di smuoverlo, eppure era preoccupato per quella spedizione, per le leggende, certo, ma anche perchè temeva che avrebbe corso qualsiasi azzardo pur di trovare quella pietra.

«Già ma se fallissi ti prenderebbe in giro come non ha mai fatto prima.»

«Esattamente come farebbe se non ci andassi. Quindi perchè non provarci?»

Albert liquidò con quella frase ed una semplice alzata di spalle l'obiezione di Luke e tornò ad esaminare la sua attrezzatura. Era già capitato che andassero a fare passeggiate nei boschi, quindi aveva tutto l'occorrente per entrare e uscire dalla foresta, ma quella strana sensazione di disagio ancora non voleva saperne di andarsene.

«E partirai domattina?»

«Domani è sabato e non abbiamo scuola. Inoltre in questo modo, se non riesco a raggiungere il monastero in giornata, posso fermarmi a dormire e tornare il giorno dopo, senza perdere alcun giorno.»

«Ma tuo padre...»

«Lui sa che domani dormo da te.»

Albert si voltò verso Luke, mostrandogli un sorriso ampio e beffardo, un modo per ricordargli qual era la scusa che aveva ideato per sparire dalla circolazione un paio di giorni senza destare sospetti e senza sorbirsi tutte le lagne apprensive della madre. Ma nel suo sguardo c'era anche un che di minaccioso. Come a volergli intimare di non azzardarsi a cambiare idea. Si era dichiarato disposto a reggergli il gioco e adesso non poteva più rimangiarsi la parola, altrimenti sarebbe saltato tutto.

«Sì, per tutti, domani sera tu dormi da me. Tanto mia madre esce a cena fuori con il suo nuovo fidanzato, quindi tuo padre non potrebbe in alcun modo chiamare per controllare. Però, per favore, tieni acceso il telefono e informami di dove sei e dei tuoi spostamenti.»

Albert sorrise, questa volta senza doppi fini, un semplice sorriso di sincero ringraziamento, ma, come suo solito, cercava di mascherare i sentimenti con il sarcasmo.

«Non ti metterai mica a piangere ora, vero Luke?»

Questa volta fu Luke a sollevare le spalle, senza minimamente voler raccogliere quella provocazione.

«Idiota. Dovresti essere un po' più gentile con l'unico amico che hai.»

«Ma tu non sei l'unico amico che ho.»

Albert oramai si era di nuovo voltato e aveva cominciato a mettere nello zaino tutto l'equipaggiamento che aveva preparato.

«Forse, ma se l'unico di cui ti fidi, altrimenti non diresti che passi le serate a casa mia quando invece ti inoltri da solo nella foresta. Comunque ora vado, ci sentiamo.»

Ed entrambi sapevano quella frecciatina chiudeva il discorso. Albert non aveva intenzione di replicare a quello che, in fondo, era la verità, e Luke aveva avuto quella piccola vittoria personale sul suo amico, che forse era l'ultima volta che avrebbe visto. Quel pensiero lo investì in pieno, come un camion scagliato a tutta velocità sull'autostrada, non appena varcò la soglia della camera di Albert. E se fosse davvero accaduto qualcosa? Se quelle strane sensazioni che gli si stavano contorcendo nello stomaco fossero state più che mero timore ma una qualche forma di premonizione?
Luke era impietrito, incapace di fare alcun passo e improvvisamente i racconti e le leggende che aveva sentito narrare sul monastero, fin da quando aveva memoria, affiorarono tutte insieme. Ad un tratto fu come se non fosse più in casa dell'amico ma in mezzo alla foresta. Davanti a sè vedeva le mura nere del monastero che si stagliavano in alto, sempre più alto, molto più di quella che era la loro altezza naturale. E fu in quel momento che si accorse di non essere affatto ai piedi della costruzione, ma sospeso nel vuoto. Stava precipitando da un'altezza incalcolabile, senza che la superficie liscia e nera fornisse alcun appiglio, fino ad arrivare a schiantarsi al suolo.
Quando si riprese era ancora in casa di Albert, fermo immobile subito fuori dalla sua camera. Si voltò e posò lo sguardo sull'amico che lo osservava perplesso, non capendo per quale motivo si fosse fermato e fosse rimasto pietrificato in quella posizione per qualche istante.

«Albert!» Disse con un tono di voce perentorio, molto dissimile a quello suo attuale. «Voglio venire anche io!»



*******



I primi raggi del sole stavano timidamente facendo capolino dalle alture che si intravvedevano all'orizzonte e la piana, teatro della battaglia del giorno precedente, veniva poco alla volta illuminata. In alcuni punti si potevano scorgere dei bagliori, probabilmente dovuti al riflesso delle luci dell'alba su qualche punta di lancia, su qualche lama spezzata di una spada o su qualche pezzo di corazza che era rimasto abbandonato sul terreno quando avevano recuperato i cadaveri, all'imbrunire del giorno precedente.
Ma quello che attirava realmente l'attenzione del Capitano Bouchard, un uomo di circa trent'anni alto un metro e ottanta, era il colore rossastro del suolo, imbevuto del sangue di centinaia di soldati. No, centinaia di bravi ragazzi che erano partiti abbandonando i genitori, le mogli e i figli e avevano tristemente trovato la fine su quella piana.

«Una volta era un prato bellissimo.» Bouchard stese la mano, davanti a sè, a mostrare l'intera area da cui avevano un'ottima visuale sopra la collinetta dove era stato installato il loro accampamento. «Un'erba così verde e folta che sembrava di camminare su un tappeto. E qualche volta l'ho anche fatto. Camminare a piedi nudi intendo, era così soffice. Casa mia non è molto distante. Venivo qui con mia sorella da ragazzo e ci divertivamo a rincorrerci e a giocare fino alle pendici della montagna, là in fondo. E guardala ora. Una terra brulla e desolata. L'erba strappata dagli stivali ferrosi dei soldati e dagli zoccoli dei cavalli, e i pochi ciuffi che hanno resistito alla devastazione della guerra, sono oramai rossi, zuppi del sangue di coloro che non torneranno più a casa.»

Il giovane soldato, che era appena uscito dalla sfarzosa tenda a cui era stato assegnato come picchetto, lo guardava con aria perplessa. Non capiva perchè un alto ufficiale gli raccontasse quella storia e, meno ancora, capiva cosa avrebbe dovuto rispondergli. Quindi gli disse l'unica cosa che un soldato ligio al dovere potesse dire ad un suo superiore: «Il Generale Burroughs l'attende, signore!»
Bouchard abbassò il braccio, conscio che le sue riflessioni erano troppo sofisticate, o forse troppo malinconiche, per la loro situazione. Si voltò verso il soldato, gli fece un cenno di assenso con il capo e poi, dopo avergli dato una pacca sulla spalla, scostò il drappo di velluto viola che copriva l'ingresso della tenda e vi entrò.

Per quanto fossero su un campo di battaglia, la tenda del generale assomigliava più ad un piccolo salottino. Le pareti erano tutte di stoffa, naturalmente, ma la dimensione ricordava più quella di una stanza di un palazzo nobiliare che una tenda da campo. Una dimensione che avrebbe potuto ospitare posti letto per almeno una trentina di soldati, se ben stipati.

Ai lati della pianta quadrata c'erano diverse rastrelliere di armi e manichini per le armature e qualche piccolo mobiletto di legno, trasportato da qualche facchino sul campo di battaglia. Persino il letto non era un misero giaciglio ammassato alle bell'è meglio sulla nuda terra, ma aveva una struttura in legno a tenerlo sopraelevato e un altro baule di legno era posizionato ai suoi piedi. Dalla sommità della tenda, sistemate in posizioni strategiche, pendevano le catene che sostenevano quattro bracieri, con i fuochi accesi nei loro piatti per illuminare la stanza. E sulla destra, al suolo, un braciere più grande, anch'esso acceso, quasi come se volesse simulare il caminetto di una stanza padronale.
Al centro della stanza c'era il pesante tavolo di legno, su cui il generale aveva posizionato le gialle cartine della zona, con sopra bandierine e modellini di legno che indicavano le truppe e dove dovevano collocarsi. A vederlo così sembrava buffo, quasi un gioco, ma ogni pupazzetto o cavallino di legno rappresentava, in realtà, centinaia di uomini che, se collocati male, erano destinati ad una fine orribile.

Burroughs era un uomo alto quasi due metri, di circa cinquant'anni, esperto di decine di battaglia. Per quanto l'età e gli scontri ne avessero indebolito la struttura e affaticato il portamento, indossava ancora la sua armatura splendente con fierezza, sebbene leggermente incurvato in avanti. La corazza era perfetta, pulita e d'un lucido scintillante, con le borchie sugli spallacci e sul petto finemente decorate di motivi floreali color oro e, sul torace, spiccava in rilievo un grifone, simbolo nobiliare della sua casata. Era un'armatura completa che davvero lasciava pochi spazi scoperti e se Bouchard avesse dovuto affrontarlo in battaglia, davvero avrebbe fatto fatica ad individuare un punto debole da colpire. Il lato negativo era il peso e la difficoltà dei movimenti che una simile protezione causava al suo portatore. Si trattava forse di qualcosa di più adatto ad una parata che una battaglia, ma dava senza dubbio un'idea di forza e uno strano senso di invulnerabilità, ed era proprio questo che doveva ispirare nei soldati o far temere dai nemici. Il generale aveva una folta barba grigia, con alcune zone più bianche e anche i capelli, lunghi e arruffati, erano di un bel bianco latte. Dei lineamenti del volto si vedeva ben poco, tutto coperto da peluria, eppure Bouchard era sempre stato colpito dal colore dei suoi occhi. Di un blu intenso che ricordava il laghetto nei pressi della sua casa natia.
Non appena il generale lo vide entrare, gli fece cenno di avvicinarsi e, quasi all'unisono, gli altri quattro comandanti che si trovavano assieme a lui attorno al tavolo si voltarono nella sua direzione.

«Allora mi dica, Capitano Bouchard, ci sono notizie del messo?»

Diretto e senza preamboli, come da sua abitudine. Con un tono di voce profondo e leggermente roco. Ma il capitano non potè far altro che scuotere lentamente il capo in segno di diniego.

«Ancora nessuno, Generale. Ma non è partito nemmeno da ventiquattro ore, quindi per ora attendiamo»

Lo sguardo di Burroughs si fece più duro, accigliato, e ora gli occhi azzurri più che alla superficie di un laghetto sembravano essere una lastra di ghiaccio da quanto erano gelidi.

«Si rende conto di cosa stiamo rischiando se non dovesse riuscire ad arrivare in tempo a destinazione?»

«Me ne rendo conto, ma ancora non è il tempo di perdere la speranza.»

«Le guerre non si vincono con la speranza.» Duro e inflessibile. «Si vincono con le armi e con le strategie giuste. La sua è giusta, Capitano?»

Bouchard rimase a fissarlo per un istante, senza distogliere lo sguardo per un secondo dal suo comandante. Se pensava di fargli tremare le gambe, come ad un soldatino alle prime armi, aveva capito male. Se pensava di intimidirlo, aveva capito ancora peggio. Era sopravvissuto a decine di battaglie, e tutte sul campo, gomito a gomito con i suoi uomini, non da un'altura al piacevole tepore della sua tenda. Era troppo esperto per farsela addosso solo perchè un superiore faceva la voce grossa.

«Lo è!» Con tono fermo e deciso.

Burroughs sostenne lo sguardo del sottoposto e fece un cenno deciso di assenso con il capo.

«Molto bene. Prepari le sue truppe, Capitano. I nemici si stanno riorganizzando e la battaglia è imminente.»

Bouchard si batte il pugno destro all'altezza del cuore, producendo un suono metallico del guanto d'arme che urtava la corazza, quindi, senza aggiungere altro, si voltò ed uscì dalla tenda.
   
 
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