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Autore: Adeia Di Elferas    23/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La luce del sole cominciava a filtrare dalla finestra con maggiore insistenza, quando il rumore della porta che si apriva e di qualcuno che entrava svegliò di colpo Caterina.

Mentre apriva gli occhi, si ricordò che dopo aver scacciato dalla sua tana il soldato che si era scelta per quella notte, invece di tornare nella sua stanza, si era rimessa un momento sotto le lenzuola, lasciandosi cullare dal calore che restava imprigionato nel loro abbraccio soffice e si era addormentata.

Si ricordava anche molto bene del motivo per cui aveva scacciato quell'amante. Non era stato, come al solito, per evitargli di sentire i suoi lamenti dovuti ai consueti incubi, né perché volesse davvero restare da sola fino al mattino dopo. Era stata una cosa molto più istintiva.

Quel soldato aveva un corpo di una bellezza innegabile e, nel farlo suo, la Tigre aveva rivissuto in parte il desiderio folle che l'aveva attraversata quando era la donna di Giacomo e, a tratti, la selvaggia fame che l'aveva presa con Manfredi. Alla fine, però, aveva sentito distintamente il bisogno di avere accanto un uomo come il suo Giovanni.

Così, mentre il suo amante occasionale le era ancora addosso, il fiato corto e i muscoli tesi, l'aveva afferrato per i capelli, tirandogli un po' indietro la testa, per costringerlo a guardarla in viso e gli aveva chiesto: “Conosci Catullo?”

Il giovane aveva fatto un paio di respiri profondi, ancora sconvolto per l'ardore con cui la Contessa l'aveva preso, e poi, cercando di pensarci, aveva risposto, incerto: “Milita in questa rocca..?”

Allora Caterina, semplicemente, aveva fatto un sorriso spento e gli aveva detto: “Lascia perdere... E adesso vattene.”

E così era rimasta sola, più di quanto volesse. Aveva fatto qualche incubo, da quel che poteva ricordare, quasi tutti su Pietro Francesco Corbizzi e su Ludovico Marcobelli, ma non si era mai risvegliata.

“Perdonatemi, mia signora...” disse una voce che le pareva di riconoscere: “Di solito a quest'ora siete già nell'altra camera...”

La Contessa, sapendo di essere nuda, si tirò le coperte fin sotto al mento, strizzando gli occhi, per inquadrare la donna che le stava parlando e che, malgrado le scuse, non accennava ad andarsene.

“Argentina, giusto?” chiese, ricostruendo finalmente dove e quando l'avesse già vista.

La serva annuì e poi, come rendendosi conto solo in quel momento della sua irriverenza, tornò verso la porta e disse: “Perdonatemi, davvero, tolgo il disturbo e passo più tardi...”

“Non è necessario.” la interruppe la Tigre: “Tanto scommetto che nella bettola in cui vivevi prima avrai visto anche di peggio...”

La serva non disse nulla, ma il modo in cui aveva incurvato le labbra dava tacitamente ragione alle sua padrona.

“Anzi...” fece Caterina, alzandosi dal letto, senza più badare al fatto di essere svestita, dato che Argentina l'aveva già vista nuda quando l'aveva aiutata a farsi il bagno: “Mi tolgo subito di qui, così potete riordinare. Anzi, le lenzuola sarebbero da...”

“Le cambio tutte le volte che capisco che le avete usate, mia signora. Come avevate ordinato.” si affrettò a dire la domestica.

Quell'accorgimento aveva fatto sorridere la capa della servitù, ma la Contessa era stata irremovibile. Per quanto a volte le dessero fastidio i commenti che la riguardavano, che la dipingevano come maniaca della pulizia – tanto da essere guardata da certi con sospetto per la frequenza con cui usava la tinozza da bagno o i suoi profumi – preferiva di gran lunga non portare due uomini diversi tra le stesse lenzuola. Visto che aveva il personale e la possibilità di farlo, preferiva far rinfrescare il letto ogni volta che era necessario.

“Siete sempre voi che mettete in ordine questa stanza?” chiese la Leonessa, recuperando la sottoveste da terra.

“Ultimamente sì.” annuì lei: “Non è un lavoro che vogliono fare in molte.” si lasciò scappare, per poi zittirsi subito e cominciare a togliere le lenzuola da cambiare.

“Come mai?” domandò la Sforza, immaginando che il motivo fosse di ordine morale più che pratico.

“Ecco...” prese tempo Argentina, accantonando in un angolo le coperte da togliere e avvicinandosi alla Contessa per aiutarla a finire di rivestirsi: “Vista la fine che ha fatto la vostra ultima cameriera personale, qualcuno teme che... Insomma, che avere incarichi che riguardano troppo da vicino la vostra vita privata sia pericoloso.”

“A sistemare l'altra mia camera, però, mi sembra che non abbiano problemi. Ho incrociato più di una serva diversa...” commentò la Tigre, perplessa da quella spiegazione, per quanto fosse in realtà comprensibile.

La fine che aveva fatto la moglie di Bernardino era di dominio pubblico e la Leonessa in persona aveva voluto che fosse così. Si era sentita tradita nel profondo, da una donna che aveva ritenuto un'amica, e ci aveva tenuto tantissimo che tutti si rendessero conto che nessun traditore avrebbe trovato pietà o perdono presso di lei.

“Perché nell'altra vostra stanza, a parte una volta, da quando è morto messer Medici non ci avete mai più portato nessuno.” spiegò con semplicità la domestica: “Tutti pensano che si venga a contatto con i vostri segreti più rimettendo in ordine questa stanza che non l'altra, mia signora.”

Un po' inquietata nel sentire quanto le sue abitudini private fossero quasi di dominio pubblico presso i suoi sottoposti, Caterina sospirò, lasciando che Argentina le annodasse i lacci dell'abito e poi concluse: “Non giudicarmi, per quello che faccio.”

Il tono dimesso e il passaggio così improvviso a un modo di porsi più colloquiale, con il tu al posto del voi, fecero aggrottare la fronte della serva, che, con gentilezza, ribatté: “Non vi giudico, mia signora. Non deve essere semplice, essere voi.”

Colpita da quella considerazione, la Contessa la guardò un istante e poi, ravviatasi i capelli, abbozzò un sorriso e la salutò dicendo: “Se non hai paura di me... Forse mi servirebbe di nuovo, una cameriera personale. Ho poche esigenze, non sarebbe un lavoro gravoso. Pensaci, con calma, ragione sui pro e sui contro, e poi fammi sapere.”

Argentina fece un mezzo inchino e poi tornò a dedicarsi alle lenzuola da cambiare, mentre la Tigre, pensando a quanto il sole fosse già alto, uscì, cominciando a pensare all'ennesima giornata infinita che l'attendeva.

 

Bartolomeo ringraziò con un cenno del capo il suo attendente, che gli aveva appena portato un calice di vino.

Aveva trovato un ottimo alloggio e aveva trovato riparo anche per i settanta cavalli che lo avevano seguito.

La sua tentazione era stata quella di sciogliere la sua compagnia per intero, ma poi aveva preferito tenere con sé almeno quei cavalieri. Si fidava delle notizie che gli erano giunte, e voleva rispettare gli ordini del Doge, tuttavia non si sentiva tranquillo.

Firenze e Venezia erano giunti a una pace, ma si diceva che Pisa non fosse ancora acquietata. Così aveva deciso di ritirarsi nel contado di Monselice per qualche giorno, nella speranza di scoprire quanto ci fosse di corretto nelle informazioni che aveva avuto.

“Da qui dove andremo, mio signore?” domandò il soldato, restando un momento in attesa.

L'Alviano prese fiato, poi, per calmare un po' la lingua, che in quei giorni gli stava dando particolarmente fastidio, bevve un paio di sorsi di vino e infine riuscì a dire, cercando di economizzare le parole per non inciampare troppo nel dirle: “Aspettiamo ordini.”

L'attendente annuì, e poi, senza chiedere altro, lasciò il suo signore libero di godersi il suo calice.

Bartolomeo guardò verso la campagna. Il porticato che gli offriva riparo dal sole era il posto ideale per passare quel pomeriggio.

Si sentiva stanco, non solo fisicamente. A quarantaquattro anni, gli pareva di averne sulle spalle almeno il doppio.

Fece schioccare le labbra, la lingua che restava un po' ingarbugliata, come gli capitava spesso da che era rimasto ferito. Quel vino non era il massimo, ma era comunque piacevole. Gli stava scaldando lo stomaco e liberando un po' la mente.

Il suo sguardo si perse per un momento all'orizzonte. I suoi cavalieri erano accampati vicini, ma non in quella direzione quindi, una volta tanto, poteva godersi un paesaggio privo di tende e padiglioni.

Con il calice in mano, si trovò a ricordare Bracciano e, con quel castello, che gli aveva regalato alcuni dei momenti più belli della sua vita, anche Bartolomea. Gli mancava terribilmente, ogni giorno di più, e c'erano momenti in cui avrebbe tanto voluto essere già sottoterra con lei.

L'idea di Pantasilea Baglioni che l'attendeva, una volta terminata quella campagna, era una delle cose che lo tratteneva ancora lontano dalla sua nuova casa. Preferiva starsene con i soldati, piuttosto che dover rimanere di nuovo solo con la sua nuova moglie.

Chiuse un momento gli occhi, la bocca che si faceva amara, malgrado il vino dolce, e ripensò alla prima volta che lui e Bartolomea si erano amati. Malgrado la loro grande differenza d'età, quel giorno si erano scoperti l'un l'altro come fossero stati entrambi ragazzini.

“Mio signore...” era ancora l'attendente a disturbare l'Alviano, ma il condottiero reagì con rabbia.

Era stato strappato a uno dei ricordi che aveva più cari e quell'interruzione lo aveva irritato in modo indicibile: “Che vuoi?” ringhiò, riuscendo a parlare molto chiaramente, malgrado tutto.

Il soldato, che come tutti aveva imparato in fretta a convivere con il caratteraccio di Bartolomeo, che si era inasprito in modo netto nell'ultimo periodo, chiese: “Devo farvi portare anche qualcosa da mangiare?”

L'uomo sospirò e poi disse: “Fai tu.” e tornò a guardare la campagna, domandandosi se e quando sarebbe mai riuscito a far pace con il destino, che aveva fatto sì che lui e l'amore della sua vita dovessero nascere a così tanta distanza l'uno dall'altro da doversi separare così presto.

 

“Se è così – disse Caterina, lo sguardo fisso alla finestra e la fronte aggrottata – allora scriviamogli dicendo che se davvero vuole fare il prete dovrà redigere un documento giurato con cui mi ringrazia per l'offerta che gli ho fatto, ma spiega che deve declinarla perché non intende sposare alcuna donna, in quanto si farà prete.”

“Pensate che un documento del genere basti?” chiese Cesare Feo, un po' scettico.

Anche Luffo Numai stava per dire la sua, ma a quel punto la Sforza tagliò corto, non avendo alcuna voglia di discutere oltre: “Certo, perché vincolerà ogni suo bene a questa promessa. Prometterà che non si mariterà mai e non chiederà mai licenza di matrimonio a me, pena vedersi sequestrare ogni cosa.”

Il cancelliere parve soddisfatto di quella soluzione e anche il Consigliere non ebbe nulla da ridire, così la Contessa ritenne concluso quel discorso. Aveva fatto bene, vista la reazione evidentemente spaventata da Sassatelli, a fare quella mossa, ma non aveva voglia di perdervi dietro più tempo del necessario.

“Se è tutto...” disse, andando verso la porta.

Cesare Feo, alzandosi dalla sedia, scartabellò un istante tra i messaggi che aveva sulla scrivania e poi disse: “No, no... Mi stavo dimenticando... Era appena arrivata questa. Poi abbiamo discusso della missiva di Sassatelli e...”

“Da dove arriva?” chiese la Leonessa, prendendo la lettera dalla mano del castellano.

“Non lo so, ma la scrive vostra sorella Chiara, mi pare di capire.” spiegò lui, con un'alzata di spalle.

La Sforza restò spiazzata da quella notizia e, anche se fino a un momento prima stava già per rompere il sigillo e mettersi a leggere, preferì non farlo davanti a testimoni. Non aveva idea del motivo che potesse aver spinto sua sorella a farsi viva con lei dopo così tanto tempo, perciò era meglio tenersi lontano da occhi indiscreti, per stare più tranquilla.

Così salutò il Feo e Numai e lasciò detto che, se l'avessero cercata, l'avrebbero trovata o nella sua stanza o in quella di suo figlio Giovanni.

“E quelle? Sono anche loro lettere da dare alla Contessa?” chiese Luffo, guardando curioso la piccola pigna di messaggi che il castellano teneva da parte.

Cesare scosse la testa e poi, alzando le spalle, spiegò: “Ho ordine di smistare la posta. Questo genere di lettere alla Contessa non interessano.”

Il Consigliere avrebbe tanto voluto chiedere delucidazioni, ma dal tono usato dal Feo capì che non avrebbe ottenuto risposta, così, con un sospiro, disse: “Vado a scrivere la lettera per Sassatelli, poi la porterò anche a voi per avere il vostro benestare.”

Il castellano annuì e fece un cenno con la mano, in segno di congedo. Rimasto solo, diede uno sguardo alle lettere che aveva attirato l'attenzione di Numai. Ne aveva accumulate troppe, nel corso delle ultime settimane. Si era ripromesso di distruggerle e poi se ne dimenticava.

Con un respiro fondo, si alzò, andò al camino, l'accese e ravvivò con attenzione la fiamma. Solo quando fu abbastanza grande, prese i messaggi e, uno per uno, li lanciò nel fuoco.

Si trattava di lettere – per lo più molto sgrammaticate o scritta da qualche scribacchino a pagamento – di vecchi amanti della Tigre, quasi tutti ormai a distanza o a Imola, che ricordavano una notte d'amore con la Contessa, o che chiedevano di poter tornare al suo fianco o, anche, che le dichiaravano il loro amore.

Cesare riconosceva subito quel genere di lettere, e le metteva da parte senza più farle vedere alla donna, come un tempo avrebbe fatto. Sapeva che lei non se ne faceva niente, anzi, che ne era infastidita.

La cosa che lo colpiva sempre, però, era vedere come i suoi amanti non demordessero, malgrado passasse il tempo.

Lanciando l'ultima lettera nel fuoco, si trovò a chiedersi cosa mai facesse sotto le lenzuola, quella donna, di diverso dalle altre, per accendere in modo così violento e duraturo la fantasia e la passione di così tanti uomini.

Sospirò e, quando tutti i resti delle lettere erano ormai cenere, spense il fuoco e tornò alla scrivania, dicendosi che forse avrebbe potuto saperlo, se suo nipote Giacomo fosse stato un chiacchierone. E invece, tra tutti i suoi difetti, almeno quello non c'era stato: quello che lui e la sua Tigre facevano nel loro Paradiso, non era mai uscito dalle sue labbra, nemmeno una volta.

 

Caterina rilesse per l'ennesima volta le parole che sua sorella Chiara aveva impresso con un grafia frettolosa sul foglio. Non le diceva dov'era, non le diceva in che condizione fosse, tanto meno il motivo reale che l'aveva portata a contattarla.

Le diceva solo che le serviva un posto sicuro in cui restare per un po'. Voleva dire tutto e niente.

Non diceva nemmeno se con lei ci fossero i suoi figli – perché se la Tigre non ricordava male, aveva avuto almeno un paio di figli da Fregosino Fregoso – né se ci fosse il marito.

Non le aveva nemmeno dato le coordinate per poterle rispondere. Le diceva solo che nel giro di qualche giorno le avrebbe mandato un messaggero fidato a cui dire sì o no.

La donna si passò una mano sulle labbra. Chiara era sua sorella, era figlia dei suoi stessi genitori, il loro legame era indissolubile, tuttavia non aveva avuto l'immediato istinto di accordarle il suo aiuto.

Ripiegò la missiva e la lasciò sul letto. Aveva bisogno di pensare. Tirarsi in casa un altro problema sarebbe stato un azzardo. Anche se avevano lo stesso sangue, anche se moralmente era la cosa giusta e anche se si sarebbe sentita un mostro a negarle ospitalità... Non sapendo da cosa Chiara stesse scappando, come poteva accettare a cuor leggero di proteggerla?

Arrivò nella stanza di Giovannino con la mente ancora imbrogliata da quel dubbio, tanto presa dai suoi pensieri da accorgersi a malapena del bambino che le correva goffamente incontro.

Aveva un anno, eppure correva già come una freccia. Secondo le balie, quel piccolo aveva imparato a correre prima ancora di imparare a camminare, quasi avesse fretta di vivere.

“Potete andare.” disse, rivolgendosi alla balia che, ben felice di vedersi sottrarre quel piccolo diavolo, che non perdeva occasione di farle dispetti, andò alla porta in un soffio.

Ammansito, come sempre, dalla presenza della madre, il figlio tese le braccia verso di lei, le piccole dita tozze che anelavano a stringerla a sé.

Prendendolo subito in braccio e stringendolo a sé con tenerezza, in un modo che, se ne accorgeva sempre con una spina nel cuore, non l'aveva mai nemmeno sfiorata con gli altri suoi figli, la Contessa si andò a mettere in poltrona.

A quel punto si dedicò solo a lui, cominciando a parlargli e, senza avvedersene, si mise a raccontargli proprio di Chiara. Il bambino la guardava con gli occhi spalancati, l'iride di un verde scurissimo che riluceva ai raggi del sole primaverile che arrivava dalla finestra.

La Sforza, parlando, gli accarezzava la fronte, poi la guancia, studiandone ogni dettaglio, come volesse ricordarselo per sempre. C'erano momenti – tanti – in cui temeva di doversi separare da lui all'improvviso e per sempre, proprio come aveva dovuto fare suo marito Giovanni. E allora voleva poter serbare almeno la memoria di quel suo ultimo desideratissimo figlio.

Perché confidava nel fatto che fosse davvero l'ultimo. Il solo spettro di avere in pancia un figlio di Manfredi, bastava a farle venire la nausea.

“Non sapevo foste qui...” disse piano Bianca, entrando in camera con discrezione: “Ho finito adesso la mia lezione di latino e volevo vedere come stesse mio fratello.”

“Hai fatto bene.” fece Caterina, facendole segno di sedersi sull'altra poltrona: “Che hai studiato, oggi, di bello?”

Come tutti gli altri suoi figli – eccezion fatta per Ottaviano e Cesare – la ragazza seguiva ancora regolarmente lezioni di quasi tutte le materie, anche se lei, essendo la più grande, era arrivata al punto di poter insistere di più sugli argomenti che prediligeva. La cosa che la madre aveva apprezzato era stato che sua figlia aveva voluto proseguire gli studi praticamente in ogni cosa, tralasciando solo qualche materia come la geometria o la strategia bellica.

“Ovidio.” rispose prontamente la Riario, sistemandosi dove le era stato indicato: “L'Ars Amatoria.”

La Leonessa si lasciò scappare un sorriso e chiese: “Ed è stata un'idea del tuo precettore, affrontare quell'opera o tua?”

Bianca arrossì appena e confessò: “Mia.”

“Io ne ho una copia completa. Era di Giovanni. Te la posso prestare.” offrì Caterina, tentando di suonare affabile.

“Davvero?” chiese la giovane, esaltata all'idea, per poi smorzare un po' i toni e soggiungere: “Io ne sarei molto felice, ma solo se a voi non serve per qualche giorno...”

“Te la farò portare in camera entro stasera, così potrai cominciare a leggerlo anche subito. È anche un ottimo esercizio di traduzione, oltre che una lettura interessante.” disse la Contessa, tornando a guardare Giovannino.

Il piccolo, adesso che anche la sorella era con lui, sembrava in paradiso. Era tranquillo, sorridente, completamente diverso da quando stava con altre persone.

I tre restarono in silenzio per un po', abbastanza da permettere alla Sforza di ricominciare a pensare. L'unico suono era il borbottio sommesso che di quando in quando usciva dalla bocca del piccolo Medici, che, però, appena veniva sfiorato dalla madre, si placava di nuovo.

“State bene?” domandò a un certo punto Bianca, preoccupata dall'espressione tesa della madre.

L'aveva vista così altre volte e sapeva riconoscere un viso semplicemente stanco e uno seriamente preoccupato. Voleva sapere che cosa l'angustiasse, perché, con buona probabilità, era qualcosa che interessava anche lei e tutti i suoi fratelli. Anche se la guerra con Venezia si era spenta, sapeva che altri pericoli incombevano e dalla morte di Manfredi avvertiva una sorta di ombra su tutti loro, quasi un presagio.

“Ma sì, ma sì, sto bene...” soffiò Caterina, stringendo poi le labbra, tentata di aprirsi con sua figlia.

In fondo, ogni volta in cui l'aveva fatto, poi si era sentita un po' più leggera. Forse valeva la pena di provare anche quella volta, benché l'argomento fosse tra i più spinosi che ci fossero.

La Riario avrebbe tanto voluto insistere, ma il tono usato dalla Contessa le lasciava intendere che, come spesso accadeva, si era trasformata in un muro e quindi sarebbe stato del tutto impossibile trovare con lei un punto di contatto.

Avrebbe voluto, allora, magari parlarle di più di quello che stava studiando con il suo precettore, o dei suoi progressi con il cucito, o anche del fatto che quasi ogni notte si trovava a fare incubi tremendi, per poi svegliarsi e scoppiare a piangere pensando a Manfredi e all'orrenda morte che aveva fatto. Capiva, però, che nessuna di quelle confidenze avrebbe trovato orecchio, in quel momento.

“Forse è meglio che vada nelle cucine... Ho sentito che vogliono preparare la spongata e...” provò a dire, alzandosi.

Mentre le passava accanto, la Leonessa la frenò, afferrandola per un braccio: “Vuoi sapere che cos'ho?”

Bianca restò in attesa, Giovannino che guardava alternativamente lei e la madre, percependo la loro tensione, ma non capendola.

“Sì, voglio saperlo.” rispose poi la ragazza, dato che quella della Contessa pareva non essere una domanda retorica.

“Ho paura, ecco che cos'ho.” confessò allora Caterina, squadrando attentamente il viso della figlia, per capire come stesse prendendo quell'esternazione.

“Paura?” chiese la Riario, con un brivido lungo la schiena: “Voi?”

“Sì.” proseguì la donna, lasciando la presa sul braccio della figlia e lasciando che prendesse dal suo grembo Giovannino per metterlo in terra.

Il bambino cominciò a giocare da solo con il suo cavaliere di legno, anche se i suoi occhi allungati continuavano a seguire imperterriti le mosse di madre e sorella.

“E di cosa avete paura?” indagò la ragazza, spaventandosi a sua volta, nello scorgere un velo di lacrime tra le palpebre della Tigre.

“Di quello che succederà quando il papa deciderà che la sua pazienza ha un limite. Di quello che porterà suo figlio Cesare quando arriverà qui a strapparmi la mia terra, perché è questo che vogliono, te lo assicuro. E poi di mio cognato Lorenzo. Di come Firenze mi sta trattando. Dei Bentivoglio. Perfino di mio zio Ludovico. Ho paura che il grano non ci basti e di non riuscire a comprarne abbastanza. Ho paura di non avere abbastanza soldati per proteggere il mio popolo. E ho paura di quello che sono capace di fare.” iniziò a elencare la Sforza, il viso che si scuriva man mano che proseguiva, per poi prendere una punta di cremisi quando arrivò al termine della lista con un appena sussurrato: “E ho paura di essere incinta.”

Bianca sentì il cuore mancare un colpo. Dovette sedersi, per riordinare le idee. In confronto a tutto il resto, l'ultima paura espressa da sua madre era un macigno, per lei.

Ricacciando indietro il pianto, evocato dalla consapevolezza di non essere mai stata realmente in gara, nella conquista del cuore del faentino che le era stato promesso, chiese: “Incinta di Manfredi?”

La madre si passò una mano sul volto e poi, guardando Giovannino per non incrociare gli occhi blu della figlia, annuì: “Sì, negli ultimi tempi avevo solo lui e quando è morto avevo già un ritardo, ma non vi avevo dato peso. Non siamo stati attenti, le ultime volte, mi sono fidata troppo della mia pozione e... Sì, se aspettassi un figlio, sarebbe suo.”

La Riario deglutì un paio di volte, le gote color del fuoco per quella confidenza che giungeva inattesa e così franca da metterla un po' a disagio.

Non era solo il modo schietto con cui sua madre le aveva parlato, però, a metterla in difficoltà. La sola idea che avrebbe potuto avere un fratello che fosse figlio di Ottaviano Manfredi le faceva girare la testa.

Però la confusione che permeava sua madre era ancora peggio di quella che stava annegando lei, perciò cercò di farsi forza e disse: “Non sarebbe un male. Un po' complicato, magari, ma non un male.”

La Contessa si morse l'interno della guancia e poi le spiegò: “Io un figlio da Manfredi non lo voglio. Non voglio mettere al mondo un altro orfano di padre. Ho già partorito otto infelici, ne ho visto morire uno e diventare assassini due. Non voglio un altro figlio, tanto meno da un morto. Me ne farei una ragione, se restassi incinta per colpa delle mie abitudini... Non saprei nemmeno di preciso l'identità del padre del bambino e sarebbe meno doloroso che saperlo figlio di un uomo che ho amato e che mi è stato strappato con la violenza. Ho fatto un voto alla Madonna di Loreto. Se non sono incinta, manderò un mio ex voto al santuario.”

La ragazza non si sarebbe mai aspettata un simile provvedimento, da parte di sua madre, e quel dettaglio, più ancora del resto del suo sproloquio, le faceva capire quanto fosse disperata: “Comunque vada, qualsiasi cosa accada, io sarò con voi.” le disse.

“Se aspettassi un figlio da Manfredi, non potrei nemmeno dargli il suo cognome...” scosse il capo Caterina: “Lui è morto e non può fare più nulla...”

“A queste cose penseremo quando saremo certe che siete incinta.” razionalizzò Bianca: “Per il momento è inutile pensarci. E poi potreste dare il vostro, di cognome, al bambino. Uno Sforza, non sarebbe male.”

La Leonessa stava apprezzando molto gli sforzi della figlia per tenerla su di morale, e decise di approfittare della sua vicinanza fino in fondo: “C'è un'altra cosa...” principiò e le spiegò della lettera di Chiara e della sua richiesta.

“Mia zia Chiara è vostra sorella.” disse, pleonastica, la Riario.

“Sì, ma siamo quasi due sconosciute, non la sento da anni, e non la vedo da ancor più tempo.” si schermì la Contessa, quasi cercando una scusa a cui appigliarsi per rifiutare l'aiuto alla sorella.

“Avete lo stesso sangue.” insistette Bianca, recuperando Giovannino che, stanco di giocare da solo, reclamava le sue coccole: “Come me e lui – sottolineò, dando un bacio al fratello – e immagino che a voi farebbe piacere sapere che, in caso di necessità, io aiuterei lui e lui aiuterebbe me.”

La Sforza non commentò, lasciandola libera di andare avanti e così la ragazza, dopo aver passato una mano tra i ricciolini del piccolo, si schiarì la voce e riprese.

“I miei nonni si amavano molto, me l'avete raccontato tante volte e mia nonna Lucrezia mi ha parlato spesso di mio nonno Galeazzo Maria. Anche se avevano tutti contro, erano stati una coppia unita. Hanno avuto quattro figli e sono rimasti vicini sempre, anche quando tra loro non poteva più esserci la passione di un tempo. Vi amavano, come amavano i vostri fratelli e vostra sorella. Lo dovete anche a loro.” la voce della giovane era sottile, come un piccolo punteruolo che andava a scardinare l'indecisione della Tigre: “Pensate a me e ai miei fratelli. Pensateci tra dieci o quindici anni, pensate a come sarebbe doloroso, per voi, vederci disuniti, anche con la scusa di non essere più stati vicini per anni. Pensateci e deciderete più facilmente che fare con vostra sorella Chiara.”

Caterina aveva ascoltato ogni singola parola come se arrivasse direttamente dalla sua coscienza.

Scoprire in sua figlia una giovane donna tanto saggio le aveva scaldato il cuore. Le aveva dato fiducia.

“Sì, so cosa farò.” annuì e poi, alzandosi dalla poltrona per dare un bacio in fronte a Giovannino e uno sulla guancia alla figlia, aggiunse: “Sono fiera della donna che sei diventata, Bianca.”

'Ut ameris, amabilis esto.' pensò la ragazza, ricordandosi una citazione dall'Ars Amatoria letta proprio quel giorno. Era d'accordo con quell'affermazione, ma non la stava mettendo in pratica solo per avere in cambio l'amore della madre. Lei l'amava davvero, così come amava i suoi fratelli, perfino i due maggiori. E voleva fare tutto quello che era in suo potere per difendere quel che restava della sua famiglia.

“Ti farò avere quella copia di Ovidio. Stai tranquilla che non mi dimentico...” concluse la Tigre, andando alla porta e riuscendo a dedicarle un sorriso che, malgrado l'ombra di tristezza che la circondava, trasmise alla figlia un senso di pace e sicurezza che non aveva prezzo.

 
 
   
 
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