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Autore: crissi    27/01/2019    10 recensioni
Il mio lavoro mi costringe a volte a diventare invisibile nelle famiglie; obbligato a rimanere, indesiderato testimone, anche in momenti che intimi e segreti dovrebbero restare. E a restare imperturbabile, saldo, professionale, anche quando il loro dolore diventa mio.
Missing moments molto liberi visti da una personaggio marginale, una figura professionale ricorrente nell’anime, che ho voluto immaginare sempre come lo stesso individuo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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11 inevitabile follia
Gennaio 1788


Una finta neve scende oggi, pochi granelli ghiacciati che cadono veloci e, spinti da un vento nordico, come spilli pungono il volto, si incastrano nei baffi, intorpidiscono le labbra. Nulla a che vedere con i fiocchi soffici, grandi, leggiadri, che nelle sere d'inverno rischiarano il cielo nero e rasserenano lo spirito. Solo ghiaccio, gelido e tagliente.
Sono già trascorsi quasi due anni da quando se n'è andata e più di uno da quando sono stato elegantemente dispensato dai miei doveri a corte ed invitato a prendermi un periodo di riposo. Questo da Sua Maestà in persona, evidentemente allarmato dal mio stato di depressione, con tono che non ammetteva neppure un fiato in replica.
Lasciare Versailles definitivamente non mi è pesato. Vedevo Alexandra ovunque, nella nostra casa, nell'ambulatorio, per i corridoi della reggia.   Il periodo di aspettativa impostomi dalla Corona sta sortendo i suoi benefici, forzati effetti. Un poco come un galeotto mi sono rassegnato a portare i miei ceppi e quasi non ne avverto la costrizione.
Ho ripreso a tempo pieno l'università: le mie ricerche, i miei allievi, mi tengono la mente occupata, cosicché gli oscuri pensieri non tornino ad impadronirsi di me.
Fingo. Fingo che la vita abbia un senso, fingo che possa interessare se il sole sorgerà domani.
Non vaneggio più pubblicamente pensieri inquietanti, non vago più per casa come un folle in camicia e barba incolta come accadeva sotto Natale, quando le famiglie si riuniscono ed i vuoti lasciati sono lì a rinnovare il dolore. E tutto diventa più freddo attorno.
Curo la mia persona, abbellisco questo guscio vuoto, questa pelle svuotata della mia parte più viva, sostituita  da misera, arida paglia.
Un animale impagliato, ecco cosa sono.
La vita riprende un corso regolare, agli occhi degli altri se non altro. Regolare e monotona: casa università e di nuovo casa.
Mi stringo nel cappotto di pelliccia, il solo abbraccio caldo che mi concedo, ed esco dalla nostra casa di Parigi. … dalla sua casa, quella che ormai è solo mia. Vuota, triste, inutile. Come me.
- All'Università, dottore? - domanda come fa ogni giorno il mio cocchiere, forse sperando che lo sorprenda con un'altra destinazione.
- Sì, Louis, e sono in ritardo.
Salgo sulla piccola carrozza nera per gli spostamenti veloci in città. Fa veramente molto freddo, pochissime persone per la strada questa mattina. Le nevicate abbondanti hanno creato cumuli un po’ dovunque che restringono le vie e diventano delle infide piccole montagne di ghiaccio. E celano pericoli.
Un sobbalzo improvviso seguito da un colpo secco ci costringe a fermarci.
Louis scende a constatare i danni. Scuote il capo amareggiato.
- Devo chiamarle una vettura pubblica, dottore. Noi purtroppo non possiamo continuare: ha ceduto il mozzo; devo trovare un fabbro che lo ripari prima che si spezzi del tutto.
- Lasciate perdere, Louis, vado a piedi.
- No, dottore non è saggio. Non è una zona sicura! - esclama ansioso.
Lo ignoro, che è ciò che mi riesce meglio con chiunque e per qualunque cosa, e mi incammino.
Passo dopo passo, i miei piedi scricchiolano nella neve polverosa. E lo sento.
Di nuovo.
Lo scampanellio.
Come  quando lei, immobile nel letto, mi chiamava : “dindon, tesoro, è tardi!”, “Dindon, amore, qualcosa non va…”, “dindon dindon… ho tanta paura”...
Anch'io ne avevo, Alexandra… Te ne stavi andando e nulla potevo.
Scrollo le spalle, irritato con me stesso, cercando di riacquistare la ragione.
Ecco un altro scampanellio.
Infastidito svolto in un vicolo, come a voler sfuggire questi richiami.
Din don, din don…
Basta! Mi fermo di colpo, serro gli occhi. È nella mia testa, mi dico, solo nella mia testa.
Lei è morta! è fredda! è polvere!
Faccio per procedere dritto ed eccolo nuovamente, din don. Mi blocco, svolto in un altro vicolo, dindon… maledizione! Mi fermo, non riconosco la zona da tanto ho svoltato, mi sono perso. E ricomincia a nevicare fitto.
Din don din don… Mi blocco in questo vicolo deserto, lo sguardo nel vuoto, le lacrime che si mescolano ai fiocchi bianchi... Sei tu Sandrine? Sto impazzendo? O forse è il mio bisogno di sentirti vicino a me?
Mi scuoto, scrollo il capo, furente: rifiuto di ricaderci, di sperarci, e nemmeno dovrei definire speranza ciò che la ragione conosce perfettamente: è follia e nient'altro.
Din don din don… Mi fermo ancora, di colpo: mi gira la testa, il sangue pulsa, il cuore impazza. Forse è il freddo, mormora la ragione che tenta di procurarmi un'alternativa.
Di fronte a me l'insegna di una taverna ondeggia nel vento, sospesa a due catene cigolanti: “La bonne table”. Chissà, ma ha l'aria di non avere nulla di buono questo posto di infimo ordine.
Ma un bicchiere di vino speziato mi farà bene, mi riscalderà e forse mi riporterà ad oggi, alla vita che nonostante tutto deve continuare.

Entro oltrepassando la pesante e malmessa porta; lo scampanellio che odo, lo riconosco come reale.
Dentro tutto ha un aspetto unto, sporco, triste; perfino l'aria sa di vecchio e malsano. Eppure c'è di peggio, specie in questi tempi di miseria. Non sono il solo cliente, stranamente per quest'ora. L'oste mi riconosce come persona di riguardo e mi viene incontro profondendosi in salamelecchi. Mi fa accomodare ad un tavolo vicino al camino dopo aver dato una veloce e formale spolverata alla sedia.
Faccio la mia ordinazione che mi viene servita in pochi minuti. Non mi aspettavo tanta solerzia. Ed è anche profumato questo vino, probabilmente la riserva buona. Odore di garofano, cannella e frutta, pizzica la lingua ed è dolce. Il calore mi invade e mi sento bene.
Dall'altro capo della stanza, ad un tavolo in ombra, sta seduto un uomo che affoga i dispiaceri in solitudine. Alza appena la mano dal tavolo per chiedere che gli venga riempito nuovamente il boccale; una cameriera impegnata a riordinare, accorre. L'uomo mette mano alla sacchetta dei soldi che rovescia in quantità superiore al necessario. La ragazza, attirata dalla disponibilità economica dell’ avventore, gli si accomoda accanto, abbandonando la brocca del vino, e si propende a baciarlo sul collo, provocandolo. La reazione inaspettata, rumorosa e violenta di lui che la respinge, facendola quasi cadere dalla panca, la spaventa ed attira la mia attenzione.
- Ho detto che voglio solo bere! - biascica a voce alta - Bere, niente altro che bere… Non importa quanto starò male dopo...- ripete abbassando il tono. - Ci ho provato … - borbotta tra sé prendendo la mano della ragazza in una stretta che sa di scuse - Ci ho provato, ma non serve se il cuore è lontano… Nemmeno bere serve... - ammette lasciandola e tornando a concentrarsi sul boccale - Ma almeno dimentico per qualche ora...minuto… istante…
Tracanna un lungo sorso e poi, involontariamente, sbatte il boccale sul tavolo, quasi rovesciandolo, ormai i sensi intorpiditi.
Lo guardo meglio. Tiene la testa china, i capelli scuri calati a nascondere il volto, ma la voce mi è familiare.
Mi convinco ad avvicinarmi. Lui ormai è con la fronte alla tavola.
Lo osservo e con un certo orrore lo riconosco.
- André!? Siete voi? Di grazia, che vi è accaduto?
Lo scuoto. Egli solleva il capo, volgendo su di me lo sguardo, vago, perso, di quell'unico verde occhio privo di speranza.
- Dottore? … - mormora dopo qualche istante, avendo trovato la lucidità necessaria a riconoscere la mia persona - Che è accaduto? - ripete sorridendo amaramente, uno di quei sorrisi che confinano con la disperazione - Ho rovinato tutto… tutto…
- Da quanto siete qui, André?
Egli tenta di portare il boccale alle labbra, schiavo, ma glielo levo, allontanandoglielo. Si lamenta, ma non reagisce, troppo confuso per farlo.
- Un'ora, un giorno… che importa… Ho rovinato tutto… - ripete.
- È arrivato ieri sera… - mormora la cameriera che nel frattempo è tornata alle sue faccende. - Era talmente sbronzo che ha dormito qui, in un angolo sulla panca laggiù.
- Buon Dio… Ma Oscar sa  che siete qui a ridurvi in questo stato? - sbotto.
- Oscar?… Non devo più occuparmi di lei. - biascica.
- Che significa? - chiedo ancora, certo d'aver male inteso.

André, senza rispondere, torna a posare la fronte sul tavolo, come se fosse sul punto di perdere i sensi.
Allora decido. Chiedo all'oste di cercarmi una carrozza e quando questa arriva mi faccio aiutare a caricarlo.
- Non potete tornare a Versailles ridotto in questo modo. Non ce la fareste a reggervi a cavallo. E nel caso, vostra nonna ve la farebbe pagare - dico replicando alle sue deboli obiezioni.

In vettura si accascia contro il vetro freddo, nuvole di vapore dal suo alito opacizzano il finestrino; il folto ciuffo di capelli scuri che diventano ancora più scuri inumidendosi con la condensa, aderiscono al vetro; l'unico occhio, lucido, arrossato, perso a guardare il fioccare della neve, o forse il nulla.

Arriviamo al mio palazzo che fu del primo marito di Alexandra e che ne porta ancora il nome: palazzo Grimaldi.
La servitù incaricata della accoglienza,
accorre solerte e su mia richiesta lo conducono dentro, su, nelle camere riservate agli ospiti. Ordino al mio segretario di avvisare l'università che non avrei tenuto lezione e di recarsi alla locanda per recuperare il cavallo del nostro ospite. Quindi di inviare un messaggio a palazzo Jarjayes per informare che André si trovava presso di noi.
Mi volgo a guardare questo vecchio giovane amico. Cerco in lui tracce del bambino che fu e vi ritrovo solo l’infinita tristezza dell'orfano che conobbi allora.

André siede sul letto aiutato da un valletto, mentre cameriere gli levano stivali e giacca.
Si oppone, malamente, scoordinato come tutti gli ubriachi, ma lo riprendo immediatamente.
- Non potevate tornare dai Jarjayes in queste condizioni. - replico al suo bofonchiare.
- Non ho un posto ove tornare...
- Vostra nonna non sarebbe d'accordo.
- Non mi sento bene… - dice sbiancando improvvisamente.
Ad un mio gesto arriva il domestico col secchio.
Appena in tempo e ore ed ore di alcool cercano di ritornare sul loro cammino d'andata.
- Bevete! - ordino indicandogli una tazza fumante portata da una domestica.
- Cos'è!
- Solo latte caldo e miele.
- No, vi prego..  già solo l'odore mi fa rivoltare lo stomaco - dice portandosi una mano alla bocca
- L'intenzione è quella, mandare tutto giù o tutto su. - spiego indicandogli il catino -  Avete bevuto troppo, non potete tenerlo in corpo.
Come egli temeva, già solo ad avvicinare il bicchiere alle labbra, il vomito si scatena.
Distolgo lo sguardo. Vorrei poter dire di essere abituato a queste situazioni, ma non è vero.
Allontana il secchio da sé, porta la pezza che gli è stata offerta alle labbra.
- Scusate…
Scuoto il capo.
- Non dovete scusarvi per aver dato di stomaco, ma per esservi ridotto in questo stato. Che vi sta accadendo?
- È tutto perduto..
Penso alla sua visita dell'altra settimana.
“Dottore, sto diventando cieco”, aveva chiesto.
“No” avevo mentito consapevole di farlo.
- Non è sicuro che perderete la vista ed in ogni caso…
- Oscar ha detto che non dovrò più occuparmi di lei. - mi interrompe.
- Oh… bè, non potrete essere sempre con lei, ma continuerete ad essere amici, confidenti…
- Non vuole più vedermi - nuovamente mi ostacola.
- Non credo…
- Sono un mostro! - dichiara con un tono di voce esageratamente alto.
Respiro profondamente cercando di mantenermi calmo.
- Avete perduto l'occhio e forse, dico forse, diventerete cieco; ma ciò…
- Non è per quello. - sussurra.
Mi zittisco, non capisco.
- Un tempo vi dissi che lei ed io camminavano su due sponde dello stesso fiume… e mi bastava. Per molto tempo mi è bastato.
- Ohssignore André, che avete fatto?
Scoppia in lacrime.
- Ho rovinato tutto… tutto...

Alza il capo verso di me, senza dire altro.
Solo il suo occhio disperato parla e mi torna alla mente quella prima volta ad Arras, quando l'accompagnai, lei Alexandra, al villaggio, perché l'avrei accompagna ovunque, già preso nella rete. Andammo a far visita a quella povera famiglia dei loro fattori, i Sugane.
La moglie stava poco bene e da poco avevano rischiato di perdere il figlio più piccolo. Ovviamente ero rimasto colpito dalla povertà e, nonostante Oscar avesse provveduto a soccorrere il piccolo Gerard e rifornito la loro fattoria in modo che nulla potesse più obbligarli a scelte terribili, potevo vedere tutto attorno a loro la disperazione, oltre alle malattie dovute alla malnutrizione ed ai lavori usuranti.
“Ricordi di guardare negli occhi i suoi pazienti, dottore: vedrà molto più del dolore che raccontano o di quanto spiegherà la sua scienza” , mi disse Alexandra.

Fu così che capii che non sarebbe bastato l'aiuto economico di Oscar a guarire quelle persone, perché il male era già radicato nell'anima e sarebbe cresciuto concimato da stenti e delusioni.
Ed ora il male era nell'anima di André, non nella sua cecità incombente.
- Quella locanda non era posto per voi, André. Che sta succedendo? - mormoro.
- Non esiste posto per me al mondo. E di certo non a palazzo Jarjayes. Non ho più un lavoro e neppure speranza. … Un mostro… e lei...
Mi siedo accanto a lui sul letto.
- Dov'è Oscar ora?
- È andata in Normandia. Non vuole più che mi occupi di lei.
- Ditemi che non avete fatto ciò che temo…
Si guarda la mano sinistra come se vedesse qualcosa stretto nel pugno.
- Io ero accanto a lei per proteggerla ed invece… Mi sono fermato, ma… Non riesco a smettere di vedermi coi suoi occhi, col suo sguardo di quella sera. Ho visto il mostro che stavo diventando, come in uno specchio … Lo specchio degli occhi di lei.
Distende la mano lentamente, arreso, e la porta al cuore.
- Sì…Credevo di essere un uomo migliore, invece le ho dimostrato di essere una bestia come tante - conclude amaramente senza concedersi appello.
Lo guardo consumarsi nel rimorso per un gesto vile, indegno, e non lo riconosco.
Situazioni come questa sono un fallimento professionale, per me, che non ho dato peso ai sintomi del suo malessere ed un fallimento personale in quanto amico, che negli anni non è stato in grado di supportarlo; e benché mai detto sarebbe più appropriato ora di “medico, guarisci te stesso”, non posso ignorare il suo stato.

So che un medico non guarisce le ferite del cuore, non è suo compito mi dico, ma so anche che esse possono diventare una cancrena e come tale divorare dall'interno finché nulla resta della persona che eri.
- André, siete l'uomo che si è fermato. - riesco a dirgli, tentando di rincuorarlo - Magra consolazione lo so, ma già questo vi rende migliore. Siete voi che non riuscite a perdonarvi; sono certo che lei lo ha già fatto.

Non emette fiato, forse lo sa anche lui, ed è solo la vergogna a fargli pensare il contrario. Forse lo spera soltanto e teme di illudersi.
- Riposate ora, domani a mente fresca penserete a come rimediare.
Si stende, muto, docile. Non si contrastano gli ordini del dottore.
Al contatto con le coltri pulite e calde, lo sento sospirare di involontario sollievo.
E mi rilasso anch'io.

La neve ha smesso ancora di cadere, indecisa come noi, trasformandosi in pioggia.
La verità è come l'acqua, trova sempre il modo di risalire alla luce e lavare via il sozzume: aver confessato la sua colpa è un primo passo verso la redenzione, verso la pace interiore.
Ma la verità è anche che i sentimenti di André per Oscar sono irrealizzabili.
Solo un sogno, solo un bel sogno. Ed è doloroso scoprire che i propri sogni non si potranno avverare.
André deve smettere di coltivare questi folli pensieri, per il suo bene ed anche per quello di Oscar. È un amore che non potrà mai essere in questo mondo, mi urla la ragione, sebbene una parte di me, lo auspicherebbe.
Mi dico che è una fase . Presto capirà che questi sentimenti sono irrealizzabili e tornerà ad essere l'amico fedele sul quale Oscar ha sempre contato.
Me ne convinco mentre nel mio studio continuo il mio lavoro, concentrato sul nuovo testo di medicina che vorrei mandare alla stampa entro fine mese.
Da tanto concentrato non mi rendo realmente conto del passare del tempo ed è solo quando il maggiordomo viene a chiamarmi per la cena che alzo il capo. E c'è una novità.
- Come sarebbe a dire “andato”?
- La governante si è recata nella sua stanza per controllare che stesse bene e domandare se volesse cenare, ma non c'era più. Lo abbiamo cercato ma lo stalliere ha detto che ha preso il suo cavallo e se ne è andato. Ha lasciato detto di porgervi i suoi saluti e ringraziarvi.
Poso la piuma nel calamaio.
- Grazie, scenderò a cena tra un attimo. - dico congedandolo.
Mi alzo, guardo fuori il buio.
Spero che André sia tornato a palazzo Jarjayes e non in una bettola o a qualche altro genere di follia che gli permetta di starle vicino ad ogni costo.


Per anni sono rimasto a guardare questi due amici percorrere le rive del fiume, insieme e separati ad un tempo.
Ho atteso che i sentieri paralleli calpestati prima da  due bambini, poi da ragazzi,  quindi da adulti, si avvicinassero, che un ponte potesse congiungere ciò che le leggi umane mantenevano distante.
Sono diventato romantico con il tempo. E sognatore.
Vorrei qualcosa di “giusto”, vorrei un lieto fine diffuso attorno a me. Ma così non è.
La vita diventa sempre più feroce. Il senso di ingiustizia, il desiderio di resa, la voglia di farla finita mi impregnano.
E nella testa, i fantasmi sussurrano.


***

Perdonate la lentezza: il dottore ha tempi tutti suoi.
Avrà più senso una volta finita, leggendola in una volta sola. Spero.
Grazie ancora a chi segue.

   
 
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