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Autore: yonoi    04/02/2019    10 recensioni
La mattina del 19 maggio 1845, due velieri della Marina Britannica, la Her Majesty’s Terror e la Her Majesty’s Erebus, salparono in direzione del Mar Glaciale Artico: scopo della spedizione, tracciare la rotta del passaggio a nord ovest, e aprire una nuova via di comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico.
Inviate sotto il comando del capitano John Franklin, la Erebus e la Terror scomparvero insieme a tutti i componenti dei due equipaggi.
Numerose spedizioni di ricerca furono inviate sulla rotta di Franklin, senza riuscire a ritrovare alcun superstite e riportando in patria notizie sconvolgenti sul destino dei dispersi. Da ultimo, quando ormai Franklin e i suoi marinai erano stati dichiarati ufficialmente caduti al servizio di Sua Maestà, una donna tenace decise di giocare la sua ultima carta: acquistare una nave e inviarla sulle tracce dei marinai scomparsi in quelle terre di ghiaccio e di oscurità.
Primo classificato al contest "I doni della medicina" indetto da Dollarbaby e valutato da Shilyss sul Forum di EFP a pari merito con "La verità su Ingeborg Barrow" di Old Fashioned.
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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“Che cosa bizzarra la vita - questo misterioso congegnarsi
di implacabile logica in vista di uno scopo tanto futile.
Il più che se possa sperare è una certa qual conoscenza di se stessi
 - che giunge troppo tardi - e una messe di inestinguibili rimpianti”
(Joseph Conrad, “Cuore di tenebra”)
 

2. La spedizione della volpe dell’Artico

 
Acquistato tramite a una pubblica sottoscrizione che raccolse contributi persino dalla Terra di van Diemen, dove le lavoratrici del bagno penale organizzarono una colletta con i proventi delle trapunte, lo schooner a vapore Fox, di lì a poco ribattezzato la volpe dell’Artico, salpò dal porto di Aberdeen la mattina del 2 luglio 1857.
Al comando della spedizione accettò di partire sir Francis Leopold McClintock, insieme a venticinque uomini della ciurma, tra cui un piccolo gruppo di volontari.
Tra questi, il fratello minore di un certo John Torrington, anonimo fuochista a bordo della Her Majesty’s Terror nonché uno dei pochi membri dell’equipaggio la cui morte risultava sicuramente accertata. Durante una delle prime spedizioni di ricerca, la sua tomba assieme a quella di altri due marinai era stata rinvenuta sulla spiaggia di ghiaia, vento e desolazione dell’isola di Beechey: un granello di terra ancorato ai ghiacci della banchisa e completamente disabitato.
La lapide posta sopra alla sepoltura lo identificava senza ombra di dubbio, e faceva risalire la data del decesso al primo gennaio 1846: appena sette mesi dopo la partenza dell’Erebus e della Terror dall’Inghilterra.
Di professione necroforo nella città di Manchester, senza nessuna esperienza di navigazione ed anzi soggetto a crisi angoscianti di mal di mare, il sedicenne Henry Torrington aveva insistito per imbarcarsi, con l’intenzione non solo di vedere coi propri occhi la tomba del fratello, ma di procedere a una riesumazione in piena regola.
“John aveva vent’anni, godeva di ottima salute e non c’è alcun motivo che possa spiegare perché sia morto praticamente all’inizio del viaggio.”
Sir Francis McClintock spiegò i nervi e le carte sopra alla scrivania dell’ufficio di reclutamento, installato per l’occasione nel salotto di casa Franklin. Per carattere, non era particolarmente incline alla pazienza, specie quando si trattava di avere a che fare con gente del tutto a digiuno delle cose del mare.
“Trascorrere un inverno nell’Artico non è come aprire l’ombrello a Manchester perché nevica.” Tra due pile di carte annotate da una calligrafia aguzza e meticolosa, il suo sguardo era severo. “Tutti i viaggi di esplorazione comportano dei rischi, e quasi mai l’equipaggio rientra in patria al completo.”
Il ragazzo, un biondino esile che stropicciava tra le mani una fotografia che lo ritraeva identico al fratello, giocò quella che riteneva la sua carta vincente:
“Nostra madre non può venire fino a Beechey per visitare la tomba di John. È mia ferma intenzione di riportarlo a Manchester, a costo di scavare la fossa con le mie mani.”
A quel punto, McClintock aveva perso le staffe:
“Questo è esattamente ciò che farete, Torrington. Se non sbaglio, è il vostro lavoro. Portatevi pure la vanga e preparatevi a spuntarla contro almeno cinque piedi di terreno ghiacciato. Sarà come scavare nel ferro, ma se è questo ciò che desiderate, vi dò il benvenuto a bordo.”
A quanto pareva, la spedizione organizzata da Lady Franklin pareva fatta apposta per attirare tutti coloro che avevano ancora qualche conto in sospeso con i dispersi.
Insieme al giovane Torrington, perorò la sua causa e ottenne l’autorizzazione all’imbarco anche il colonnello in pensione Edward Marlowe, cognato del tenente Richard Colby: sopravvissuto a quattro attacchi cardiaci, oltre a un numero imponderabile di missioni di guerra ai quattro punti del globo, come esperienza di mare vantava la partecipazione, a quattordici anni e in qualità di mozzo, alla battaglia di Trafalgar contro Napoleone.
Anche in questo caso, McClintock aveva tentato di dissuadere l’anziano e rispettabile volontario:
“L’Artico è l’ultimo posto sulla faccia della terra dove un infartuato può sperare di cavarsela.”      
“Mia sorella sta morendo di crepacuore. Non riesce a darsi pace, e io mi sto consumando nel vederla così. Crepare a Londra o tra i ghiacci, per me non fa davvero nessuna differenza.”
Il vecchio colonnello aveva mostrato a McClintock l’ultimo biglietto inviato da Colby alla moglie: poche righe scritte durante l’ultima sosta effettuata da Franklin prima di inoltrarsi alla ricerca del passaggio a nord ovest.
La baia di Disko, in Groenlandia, segnava il limite delle rotte conosciute nei mari del nord: a Disko, prima di avventurarsi tra i ghiacci dove tutto poteva esserci fuorché un ufficio postale, i marinai o chi per loro avevano scritto a casa. Le lettere erano state consegnate alla nave militare Her Majesty’s Rattler, che insieme al mercantile Baretto Junior avevano scortato la Erebus e la Terror fino al punto d’avvio della spedizione vera e propria.
Fosse il frutto di qualche sinistra premonizione, o di chissà quali intenzioni recondite, il messaggio di Colby alla moglie era decisamente inquietante: “Non tornerò più, non cercarmi. Dimenticami, come io ti ho già dimenticato.”
Di fronte al colonnello, e soprattutto a quello scritto sibillino, sir Francis McClintock si era limitato a osservare:
“Voi rischiate la vita per qualcuno che aveva già deciso di far perdere le proprie tracce.”
“Devo scoprire cos’è accaduto. Non devono esserci ombre nella nostra famiglia”.  
Tra i volontari, gli unici potenzialmente in grado di rendersi utili erano due ufficiali già imbarcati a suo tempo sulla Her Majesty’s Erebus: proprio in occasione della sosta a Disko Bay erano stati rimpatriati a bordo della Rattler, in quanto già malati.
“La polmonite,” asserivano a colpo sicuro, “ha ucciso quei tre disgraziati sull’isola di Beechey, e forse anche tutti gli altri.”
Gli anziani graduati erano stati al seguito di Lady Franklin ancora ai tempi dei suoi viaggi intorno al mondo: erano sopravvissuti a tempeste implacabili nello stretto di Messina, ad almeno un naufragio al largo di Gibilterra, ad assalti di pirateria a Giava, allo scorbuto nell’Oceano Indiano, ai cannibali in Melanesia. Si erano imbarcati a bordo della Erebus per ragioni di fedeltà, dopo avere promesso a Lady Franklin di ricondurre il capitano in patria con la fama e gli onori del caso, ove si fosse scoperto il fantomatico passaggio, ma soprattutto di riportarlo vivo e vegeto.
Di fronte alla polmonite che per poco non li aveva spacciati al primo impatto col gelo della Groenlandia, si erano arresi al disonore della promessa mancata: ma in sconto a quella mancanza si erano proposti per tutte le successive missioni, finendo per essere puntualmente scartati.
“Avete avuto la fortuna di scamparla una volta”, aveva commentato McClintock, inesorabile. “E adesso, a cinquant’anni, volete sotterrarvi con le vostre stesse mani.”
Tuttavia, e a differenza di tutti i suoi predecessori, sir Francis accettò di buon grado la presenza dei due ufficiali sulla Fox.
Il motivo di quell’inspiegabile simpatia non era da attribuirsi tanto alle informazioni che i due avrebbero potuto fornire, quanto al fatto che lo stesso McClintock si sentiva vincolato da un patto di ferro nei confronti di Lady Franklin.
 “Sul mio onore,” le aveva garantito prima della partenza “non credo di potervi restituire vostro marito. Ma di sicuro non intendo tornare prima di aver acquisito prove certe in merito alla sua scomparsa, e su come in realtà siano andate le cose.”
Con quel patto, McClintock intendeva riscattarsi del fallimento di una precedente missione, l’ultima finanziata dall’Ammiragliato inglese alla ricerca di Franklin. In quell’occasione, non solo s’era smarrito lungo rotte illusorie, probabilmente mai percorse dalla Erebus e dalla Terror. Al largo di Terranova la nave affidata al suo comando, la Her Majesty’s Resolute, era entrata in collisione con un iceberg: quindici uomini erano morti prima che gli scampati, semiassiderati a bordo delle scialuppe, fossero tratti in salvo da una baleniera di passaggio.
Il relitto della Resolute era stato recuperato dalla Marina statunitense, riarmato e di seguito restituito all’Inghilterra: a titolo di cortesia, e auspicando che il Regno Unito contribuisse alle spese per le ulteriore ricerche che la U.S. Navy aveva in programma di effettuare sulle tracce di Franklin.
Ma il Regno Unito era deciso a chiudere la faccenda una volta per tutte: “Vi è ragione di credere che l’intero equipaggio della Erebus e della Terror sia perito al servizio di Sua Maestà”, aveva sancito l’Ammiragliato, che era appena entrato in possesso del resoconto di Rae e riteneva più conveniente non indagare oltre.[1]
Dal canto suo, McClintock avvertiva su di sé tutto il peso del fallimento: i fantasmi dei marinai annegati sotto al suo comando non cessavano di perseguitarlo, presentandosi a batter cassa alla sua coscienza a ogni calar del sole.
Alle larve nutrite dal rimorso di ogni giorno, si univano gli spettri - ben più numerosi - della spedizione Franklin, ormai perduta per sempre.
Nel suo tormento interiore, sir Francis non aveva dubbi: a causa del suo smacco, che imputava a un colpo di sfortuna epocale, le ricerche dei dispersi erano state sospese definitivamente.
Ammesso che ci fossero ancora delle speranze di ritrovare qualche sopravvissuto, magari presso qualche remoto villaggio inuit, queste erano svanite con la stessa rapidità con cui, quella mattina, l’iceberg era affiorato a diritta di prua, così improvvisamente da non riuscire a scansarlo.
Anche la spedizione messa in piedi da Lady Franklin prese piede, a dire il vero, sotto i peggiori auspici. Per una serie di ragioni che McClintock non esitò a imputare alla malasorte, la Fox riuscì a mettersi in mare soltanto a luglio, quando la stagione era già inoltrata: con la sicura prospettiva d’incappare nell’inverno ancor prima di aver individuato l’ultima rotta percorsa dagli scomparsi.
 “McClintock è evidentemente segnato dalla sventura”, si diceva all’Ammiragliato. “Oppure è un incapace, ovvero uno che le sventure se le procura con le sue stesse mani. Avrebbe dovuto insistere per partire l’anno prossimo. Finirà per rimediare un altro naufragio, e le cinquemila sterline promesse da Lady Franklin serviranno per i funerali di prima classe.”
Stavolta, il fallimento si prospettava fin dal principio.
Ma in un soprassalto d’orgoglio, sir Francis McClintock era deciso a prendersi la sua rivincita, e a dare riposo una volta per tutte ai numerosi fantasmi che gli logoravano l’anima.
 
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Disko Bay e Beechy Island, estate 1857
 
A metà luglio, la Fox fece tappa alla baia di Disko, nel pieno della fresca estate della Groenlandia: il disgelo scopriva una vegetazione di arbusti inclinati per la disperazione del vento, che spingeva alla deriva intere porzioni di costa sotto forma di iceberg.
L’incubo personale di sir Francis MacClintock iniziava da qui: la Groenlandia era la terra natale degli iceberg, che salpavano lentamente dalla banchisa come velieri giganteschi e silenti.
Nell’entroterra più riparato, un barlume di vera estate insisteva: macchie pallide di betulle e pozzanghere si alternavano a un’effimera fioritura, dovuta allo scongelamento degli strati più superficiali del terreno. Si aprivano all’improvviso, fugaci come sogni ad occhi aperti, praterie punteggiate di petali rossi e gialli, valli di erba tenera che scendevano a precipizio nei fiordi.
Dieci anni prima, anche la Her Majesty’s Terror e la sua gemella Erebus avevano sostato alla baia di Disko, per fare scorta di carne fresca: circa dieci bovini trasportati fin lì a bordo del mercantile Baretto Junior furono macellati e stivati sulle due navi.
A Disko, i membri dell’equipaggio avevano scritto alle famiglie: Franklin si era dilungato in un’ottimistica lettera  a Lady Jane; John Torrington, analfabeta, aveva dettato la sua missiva al cappellano; Colby, dal canto suo, aveva rilasciato quel suo enigmatico e allarmante messaggio.    
Espletate le ultime formalità, la Erebus e la Terror erano salpate in direzione della baia di Baffin: qui erano state avvistate per l’ultima volta da due baleniere nell’agosto 1845, mentre attendevano le condizioni favorevoli per proseguire il viaggio.
Le dichiarazioni rese dai marinai della Prince of Wales e della Enterprise riferivano di due velieri che, a bassa velocità, si avventuravano tra i lastroni della banchisa.
Le navi avevano proseguito il loro tragitto fino a scomparire nella nebbia.
Dopo di che, il nulla.
Nel tentativo di ripercorrere la rotta di Franklin, e condividendo in fondo le ragioni che angustiavano il giovane Henry Torrington, all’inizio di agosto McClintock fece tappa sull’isola di Beechey. Vi trovò esattamente ciò che era stato ampiamente descritto nei resoconti precedenti: tre lapidi solitarie su una spiaggia di ghiaia aguzza, dello stesso colore plumbeo della risacca e di un cielo basso e crepuscolare.
Le tre sepolture in fila sulla spianata parevano occupare un proprio spazio, interdetto ai curiosi, che imponeva il silenzio persino allo scricchiolio dei passi sul pietrisco.
McClintock aveva fretta. Già la stagione incominciava a declinare lenta verso l’inverno: ogni giorno perdeva un minuto di luce e ne acquistava uno in più di oscurità e di nebbia.
Si avvicinò all’esile figura di Henry Torrington, che sostava avvilito presso la tomba al centro, sulla lapide il nome e le date del fratello: ma all’ultimo momento, invece di sollecitarlo a non perdere tempo e a cominciare a scavare, si limitò a mettergli una mano sulla spalla.
Di seguito, diede ordine all’equipaggio di munirsi di vanghe e lui stesso si mise all’opera, con tutta l’energia di cui era capace.
Mentre sentiva scorrere il sudore sulla schiena, e le mani iniziavano a spellarsi dentro ai guanti, pensò che almeno per quella notte le sue ombre gli avrebbero concesso un po’ di tregua: se non altro per la stanchezza, forse sarebbe riuscito a dormire qualche ora.
Il terreno era molto più duro del ferro evocato da sir Francis nel corso del suo colloquio con il giovane Henry: contro la scorza del permafrost le vanghe si spuntavano, spargevano intorno schegge con stridori da raccapriccio, senza riuscire minimamente a scalfire quel baluardo di terra e di ghiaccio stratificato da milioni di inverni.
Sfiancati dalla fatica e incalzati dal buio, i marinai furono costretti a interrompersi ben prima di riuscire a raggiungere quelle spoglie che, a quanto pareva, avevano messo radici e non volevano saperne di tornare in superficie.
Ne nacque una contesa. Gli ultimi colpi di vanga avevano evocato la risonanza di una cavità vacua: secondo Henry Torrington, che era del mestiere, quella bolla di vuoto segnalava in maniera inequivoca la presenza della cassa, e il fatto che il recupero era tutt’al più questione di poche ore.
Altre ore da spendere, però, McClintock non ne aveva.
L’equipaggio era sbarcato nel primo pomeriggio: il crepuscolo polveroso che aveva tinto la costa di rosso e di viola aveva ormai ceduto il passo all’oscurità, e a un vento che spazzava senza misericordia.
Trascinate esattamente sopra alle loro teste da quelle raffiche impietose, pesanti nubi di neve illuminavano il cielo di una tenue fosforescenza. Di lì a poco, cominciarono a scaricare una tormenta che cadeva a stracci furiosi, impedendo di vedere al di là del proprio naso.
A quel punto, McClintock aveva dato l’ordine di risalire a bordo senza sprecare un solo colpo di vanga in più.  
“Non possiamo morire tutti per cavar fuori un cadavere”, aveva urlato nelle orecchie di Henry Torrington, che continuava a scavare febbrilmente nel punto in cui la cassa cominciava ad affiorare.
Ma vuoi perché le parole non facevano in tempo a uscire che subito venivano trascinate lontano, vuoi perché il giovanotto fingeva di non sentire, McClintock fu costretto a cavarlo dalla fossa di peso, a prendersi una scarica di calci furibondi e di imprecazioni ancora più furiose, a dargli un colpo in testa che avrebbe steso un bue e a ordinare ai suoi di riportarlo fradicio ed esanime sulla Fox.
La tomba di John Torrington fu abbandonata al suo destino di ostaggio delle intemperie: nel giro di pochi minuti la neve tornò a riempire la fossa, cancellando ogni traccia dei lavori di scavo[2]
Nei giorni successivi, McClintock assicurò a Henry Torrington che la spedizione avrebbe tentato un nuovo recupero durante il viaggio di ritorno, al più tardi la prossima estate. Tutto induceva a credere, tuttavia, che a quell’estate il giovane non sarebbe mai arrivato: il capitano aveva sufficiente esperienza per saper riconoscere i segni della morte, e il volto del ragazzo, che spiccava tra i panni ammucchiati sulla cuccetta, sembrava aver assorbito talmente tanto gelo che attorno ai suoi lineamenti c’era quasi un’aureola di candore lucente.
I capelli già chiari parevano quasi bianchi, e sulle ciglia si posavano cristalli così perfetti da sbalordire: in realtà quei ricami, di tale complessità e finezza che neppure l’orefice più valente sarebbe stato in grado di scolpirne di eguali, rappresentavano una nota sinistra.
Sia perché nonostante il calore della stufa non accennavano a sciogliersi, impedendo al malato di chiudere gli occhi. Sia perché quel nitore contrastava decisamente con le lunghe dita nere che stringevano la coperta, e procuravano a Henry un dolore così evidente che gli zigomi parevano forare la pelle.
“Bisognerebbe amputare”, sosteneva il medico di bordo, “ma le condizioni del paziente sono scadenti. Di sicuro non riuscirebbe a sopravvivere all’intervento.”
Per giorni, il volto di Henry non cessò di sprigionare tutta la luce del freddo che si portava dentro. Gli uomini dell’equipaggio, radunati sottocoperta per ingannare il tempo con giochi di carte, non ebbero alcun bisogno di accendere le lampade: la strana fosforescenza che emanava dal volto del malato era più che sufficiente a illuminare quel breve spazio che la tempesta, da fuori, riempiva di scricchiolii, sospiri e presagi.
Con la complicità della morte che soffiava dalla cuccetta di Henry Torrington, l’attesa dei marinai si riempì di timori.
“Andare a disturbare i morti che riposano porta sempre scalogna”, brontolavano i più esperti, convinti che il destino avesse una forza propria, quella della disgrazia, contro la quale c’era ben poco da fare.
“Sir Franklin ha seppellito a Beechey Island tre dei suoi”, mormoravano gli altri, “e noi ci prepariamo a seppellire il primo.”  
Gli oscuri presentimenti che turbavano i marinai della Fox erano roba da nulla in confronto agli scrupoli toglievano il sonno a McClintock.  
Il capitano riteneva di esser stato fin troppo permissivo nei confronti del giovane Torrington, e di un progetto che c’entrava molto col sentimentalismo, poco con la ricerca della spedizione Franklin e nulla con il buonsenso.
Fosse o no il risultato dei suoi sensi di colpa, della carenza di sonno oppure della bottiglia a cui McClintock si attaccava assai spesso e volentieri, una notte il capitano ricevette una visita.
Un’ombra silenziosa si materializzò dal nulla nella sua cabina privata, e continuò a fissarlo cavando a tratti un fazzoletto dalla tasca, per asciugarsi il ghiaccio che gli colava dal naso.
Immobile di fronte alla sua scrivania, lo spettro lo fissava con occhi severi, duri come le schegge che le vanghe dei marinai avevano sparso ovunque nel tentativo di disseppellire John Torrington.
Quello sguardo che proveniva da un altro mondo seguiva McClintock ovunque: sia che sfogliasse le carte nautiche per la centesima volta, sia che si alzasse per raggiungere l’armadietto e versarsi un goccio di qualcosa di forte. Se il capitano provava a dormire, si ritrovava quella larva biondiccia di fronte alla cuccetta.
Alla fine, McClintock perse la pazienza.  
“Si può sapere che vuoi? Che cosa pretendevi, che crepassimo tutti per cavar fuori due ossa? Invece di importunarmi va’ a vedere tuo fratello, che molto probabilmente si trova anche lui all’ufficio di collocamento dei morti di freddo.”
Ma a quel punto la fastidiosa apparizione aveva puntato un dito sulle carte che segnavano l’ipotetica rotta seguita da sir Franklin: continuando ad asciugarsi il naso e a fissarlo, aveva indicato un percorso che conduceva a un approdo sulla costa nord ovest della King William Island.  
“Che cosa vorresti dire?” sbottò McClintock, esasperato. “So bene che dobbiamo raggiungere quella maledetta isola. Però le indicazioni contenute nei resoconti” e qui fece volare dappertutto quei fogli già accuratamente ordinati sopra alla scrivania, “i resoconti dicono che Franklin o chi per lui si è diretto a sud. Dobbiamo cercarli a sud, e voialtri all’inferno siete male informati.” 
Con l’orecchio alla porta, gli uomini della ciurma tendevano l’orecchio ai deliri che provenivano dalla cabina del comandante.
“Ma con chi sta parlando? C’è qualcuno, lì dentro?”
“Qualcuno, o forse qualcosa. Molto probabilmente, una bottiglia di gin.”
“È uscito di senno definitivamente.”
Eppure, quando il giorno dopo sir Francis ordinò di far rotta verso la costa nord ovest della King William Island, nessuno ebbe da ridire.
Il mare era di nuovo piatto come una tavola. I marinai erano ben contenti di riprendere il viaggio, di lasciarsi alle spalle la desolazione di Beechey Island e tutte dicerie che avevano preso piede nei giorni della tempesta.
Contrariamente a ogni più fosca previsione, l’esile Henry Torrington riuscì a racimolare, cavandole da chissà dove, forze sufficienti per riuscire a riprendersi.
Una volta superata la fase più critica, il medico di bordo aveva provveduto ad amputargli cinque falangi, e il colonnello Marlowe si era preso l’impegno di assisterlo.
Evidentemente il vecchio soffriva di solitudine, sicché tra i due era nato uno strano sodalizio: Marlowe andava avanti a parlare per ore, del cognato e della sorella, di Trafalgar e Napoleone, di questo e di quello; Henry annuiva senza rispondere, come se avesse perso l’uso della parola.
Solo di notte, quando cadeva in preda agli incubi, a volte capitava di sentirlo gridare: “Va’ via! Vattene via!”
Chissà cosa vedeva, brontolavano gli uomini della ciurma: forse il fantasma di quell’uomo che erano andati a disturbare nel suo riposo si trovava ora a bordo della Fox, e avrebbe portato iella all’intera spedizione. Qualcuno, suggestionato dal fatto che John Torrington era stato fuochista sulla Terror, riferì di avere notato strane ombre in sala macchine. C’era chi sosteneva di avere udito starnuti e colpi di tosse, nasi che gocciolavano lungo i corridoi della Fox, naturalmente quando non c’era nessuno.
“Provate a bere meno”, tagliò corto il capitano, illudendosi che nessuno fosse al corrente delle bottiglie custodite nel suo armadietto. “Vedrete che anche i fantasmi scompariranno.” 
McClintock, dal canto suo, non mise a parte nessuno delle strane rivelazioni ricevute in via del tutto informale. Con la massima attenzione, aveva segnato il punto che John Torrington gli aveva indicato sulla mappa della King William Island: di là quel dito bianco, coperto da una sottile mucosa di ghiaccio, aveva tracciato un percorso che seguiva la costa scendendo verso sud, fino al punto in cui uno stretto braccio di mare divideva l’isola dalla terraferma del Canada.
A quel punto lo strano ospite aveva scosso il capo, continuando a guardare fissamente il capitano.
Più oltre, la sua unghia traslucida era scesa fino alla foce del Great Fish River.
Di nuovo s’era fermato, senza proseguire oltre.
Nuovamente John Torrington aveva scosso il capo, diventando se possibile ancora più pallido.  
 
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Dalla testimonianza di Christian Fraser, bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror.
Insediamento inuit di Gjoa Haven sulla King William Island, giugno 1848.
 
Avendo ormai terminato i fogli su cui ho provveduto a stendere la prima parte del mio resoconto, ciò che seguirà sarà scritto sulle pagine di questo libro, che porto con me dal giorno in cui abbandonammo la Terror al suo destino: se e quando la mia vicenda giungerà al termine, sarà mia cura consegnare questa testimonianza ai nativi di questa comunità di Gjoa Haven, che ci hanno accolto nel tentativo di salvare gli ultimi superstiti da morte sicura.
Allego a questa copia di “Cime tempestose” il mio precedente rapporto: a beneficio che coloro che forse tra molti anni giungeranno fin qui, per avere sentito parlare di noi, partiti alla ricerca del passaggio a nord ovest e mai più ritornati.
Oltre a far luce sulle ultime vicissitudini di questa spedizione, intendo altresì liberarmi dal peso dei ricordi per poter dimorare, quando verrà il momento, nella pace e nel silenzio: ben sapendo che la memoria è nemico mortale del riposo dell’uomo, l’ultima cosa che voglio è tornare dall’al di là per aggirarmi ancora su questa terra di ghiaccio, in preda ai rancori di un mancato perdono.
Pertanto inizio oggi, 20 giugno 1848, il resoconto di ciò che accadde dal momento in cui il nostro capitano Francis Crozier decise di dividere la spedizione in due gruppi: l’unica imbarcazione rimasta in nostro possesso non era infatti in grado di trasportarci tutti al di là dello stretto che le nostre mappe indicavano col nome di Simpson Sound. Il rischio di capovolgersi, o di sfasciarsi sulla banchisa dopo aver perso il controllo, purtroppo era reale.  
Il primo contingente partì da questa spiaggia all’alba del 3 giugno, agli ordini di Crozier e del comandante in seconda Richard Colby.
In attesa del ritorno della scialuppa, siamo rimasti in trentasei uomini oltre al capitano Fitzjames, già comandante della Her Majesty’s Erebus: non è mai corso buon sangue tra Fitzjames e Colby, e forse per dare a questi una lezione d’onore, Fitzjames si è offerto di restare con noi.
Dubito assai che Colby, che si è imbarcato per primo e senza voltarsi indietro neppure per un istante, sia stato in grado di recepire la lezione.
D’altronde, ogni supposizione risulta ormai ampiamente superata dai fatti.
Dopo una settimana di attesa, trascorsa nel tentativo di rimediare del cibo pescando sulla riva, e tornando ogni mattina a far la conta degli uomini per ritrovarci sempre con qualcuno di meno, ci siamo dovuti arrendere all’evidenza: come temevo fin dal principio, la scialuppa non è più tornata a riprenderci.
Bloccati sulla costa senz’altra prospettiva che quella di morire di stenti, ci siamo stretti attorno a Fitzjames. Il capitano  proponeva di costruire una zattera per varcare lo stretto, oppure di metterci in marcia fino al più vicino avamposto inuit segnato sulla mappa.
Con quali materiali Fitzjames intendesse realizzare la zattera, dal momento che intorno a noi c’era soltanto neve e qualche tratto di prateria acquitrinosa, ora non saprei dirlo: a ripensarci, credo che delirasse in preda a qualche visione consolatoria, causata dalla carenza di cibo e dal freddo.
Quanto al villaggio inuit molti di noi temevano, suggestionati da Colby, che i nativi del luogo ci avrebbero infilzati e messi a cucinare dentro a qualche paiolo, come si vede nelle vignette sui cannibali dei mari del Sud.
“Almeno, saremo al caldo”, commentarono alcuni. Ma al di là di tutte le ipotesi fantasiose, di fatto non eravamo in grado di metterci in marcia, e di andare a verificare personalmente cosa poteva attenderci a Gjoa Haven.
Furono gli inuit a trovarci, quando eravamo ormai allo stremo e il nostro accampamento era ridotto a un cimitero di spettri.
Quando quella mattina giunsero presso di noi, sulle slitte trainate da quei cani così simili a lupi con gli occhi azzurri, si trovarono di fronte a uno scenario da apocalisse: uomini intontiti che attendevano la morte seduti nella neve, o vagando qua e là con lo sguardo perso nel vuoto; quelli che ancora conservavano le forze erano impegnati a contendersi la carcassa di un uccello trovata in mezzo agli scogli; altri ancora si stringevano attorno a un fuoco di legni verdi che non scaldava affatto, ma produceva solamente un gran fumo.
Fu forse per il fumo che i nativi si accorsero della nostra presenza, e per curiosità si avvicinarono alle nostre tende. In una di esse avevamo buttato alla rinfusa i cadaveri, dopo averli spogliati di tutto ciò che poteva ancora tornarci utile. Io avevo notato gli sguardi famelici di alcuni di noi, nel trasportare quei corpi che tutto sommato erano fatti di carne proprio come le grasse foche del litorale, che puntualmente ci sfuggivano, e le gazze marine di cui ormai divoravamo anche le ossa.
Ma Fitzjames vigilava, sicché nessuno osò discendere l’ultima china, e avventurarsi in territori da cui sarebbe stato impossibile fare ritorno.
Per un lungo momento, gli inuit rimasero ad osservarci con i loro volti impenetrabili: finché uno di loro, poco più di un bambino, mise mano agli involti caricati sulle slitte e cominciò a spiegarli davanti ai nostri occhi.
Quello che accadde allora fu incontrollabile e allucinante: un assalto di disperati che si gettavano sugli involti, ricacciando indietro i più deboli ed esibendo certe facce stralunate ch’erano più da bestie che da creature umane.
Molti di quelli che a stento si reggevano in piedi si gettarono nella mischia, cominciando a scalciare e a mordere come pazzi. 
Qualcuno riuscì a raggiungere la tenda sbrindellata che custodiva le armi: da tempo quegli arnesi non erano più in grado di sparare un bel nulla, ma come corpi contundenti funzionarono a meraviglia. Il primo a essere colpito fu Fitzjames, che si era messo in mezzo nel tentativo - e sembra una facezia dirla in questi termini - di raffreddare gli animi e riportarli all’ordine: un calcio di fucile gli aprì in due una tempia, e prima che potesse levarsi il sangue dagli occhi, almeno altri due uomini si trovarono a terra col cranio sfracellato.
La rissa spinse gli inuit ad allontanarsi rapidamente, prima che alcuni di noi decidessero di assalirli per divorare persino i cani da slitta.
Fortunatamente, i piccoli elfi tornarono il giorno dopo.
A quel punto, di noi non restavano più di dodici uomini. Il cibo era stato ingurgitato talmente in fretta che quella stessa notte gli accaparratori erano morti nel loro vomito, tra spasimi disgustosi.
Il comandante Fitzjames stavolta non si fece cogliere impreparato: si era impossessato dell’unico fucile ancora funzionante, aveva passato tutta la notte a ingrassarlo e il mattino seguente ci aveva avvisato: “Alla prossima intemperanza io non avverto, sparo”.
Noi tutti ci facemmo da parte di buon grado quando Fitzjames, che conosceva qualche parola in lingua inuktitut, si avvicinò agli indigeni per domandare il loro aiuto.
Gli inuit si consultarono tra loro con brevi occhiate, poi quello che pareva il capo della piccola spedizione chiese consiglio a un anziano, un tizio monumentale che indossava una pelle con code colorate. Lo sciamano pronunciò solo poche parole. Non appena ebbero udito quel sussurro, che non era più forte dello scricchiolio dei ghiacci della banchisa, tutti gli inuit iniziarono a darsi da fare: esprimendosi a gesti con quei loro sorrisi aguzzi, ci invitarono a salire sopra alle loro slitte, coricarono gli sfiniti e li coprirono con spesse coperte di pelli.
Non c’era posto per tutti, ma Fitzjames ci aiutò a salire uno ad uno, fino all’ultimo uomo.
 “Ecco qui la zattera che vi avevo promesso. Come vedete, ce n’è addirittura più d’una”, annunciò e potete credermi se vi dico che sorrideva.
“Andate, e cercate di fare di tutto per sopravvivere.”
I deboli non riuscivano più a parlare, e molti di loro, stremati, morirono durante il viaggio. Ma anche quelli che tra noi che erano ancora lucidi non osarono dir nulla: si strinsero al fasciame e alle corde delle slitte, davvero come naufraghi soccorsi in mezzo al mare.
A quel punto io, Christian Fraser, bibliotecario e forse l’uomo più inutile di questa spedizione,  trovai il coraggio per farmi avanti. Anch’io ero stato ricoverato su una slitta, trasportato di peso essendo ormai incapace di muovere un solo passo. Dritto in piedi sullo sfondo del nostro accampamento ormai abitato soltanto dagli spiriti dei morti, il capitano Fitzjames non mi era mai sembrato così in forze, il perfetto candidato per la sopravvivenza.
“Cosa volete dirmi, Fraser?” mi sollecitò quando si accorse che le parole non riuscivano a uscirmi di bocca.
“Voi non venite con noi, capitano?” domandai, conoscendo già la risposta.
“Io devo rimanere in attesa della scialuppa. Questi sono gli ordini che ho ricevuto da Crozier.”
Senza rendermi conto che Fitzjames mentiva per rassicurarmi, non potei fare a meno di dar voce a quei dubbi che mi ero tenuto dentro per così tanto tempo:
“È probabile che Crozier sia morto ancora prima di mettere piede a terra. Lo sapete anche voi, capitano: non torneranno a riprenderci, neanche se dovessimo restare qui ad attendere fino al Giorno del Giudizio.”
“Voi non siete un militare, quindi non potete saperlo: il primo dovere di un ufficiale è aver cura dei propri uomini, e preoccuparsi di evitare perdite inutili.”
“Venite con noi, vi prego. Tutte queste cose, ormai, non hanno più alcun valore.”
“Ognuno ha un proprio codice d’onore, Fraser. Come uomo di lettere, voi dovreste saperlo: è in casi come questi che i principi più alti dovrebbero guidare tutte le nostre azioni. Io non sono mai venuto meno ai miei valori, e non intendo farlo ora.”
Riuscii a convincerlo solamente a seguire le slitte insieme agli inuit, che procedevano a piedi aiutando i cani a trainare il carico sulla neve. Camminava al mio fianco e io mi assopii un poco, cullato dal rollio della slitta. Mai come in quel momento, Fitzjames incarnava per me tutto ciò che di grande e di buono c’era al mondo.
Quando mi ridestai dopo un lungo tragitto, ebbi un presentimento.
Lo vidi a lato della carovana mentre ci guardava passare, sfinito eppure immobile nel saluto militare. Fu solo un breve istante: aprii bocca per avvertire gli inuit, ma una tempesta di neve s’era levata a un tratto, e le mie parole si persero come i fiocchi nel vento.
Gli inuit continuavano a procedere a capo chino, ben consapevoli del fatto che non potevamo fermarci. Dal resto della fila proveniva solo il silenzio. Il vento che spazzava il gemito dei morenti cancellò così presto quella figura sull’attenti, che arrivai a convincermi di avere sognato.

 
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[1] Quando la Her Majesty’s Resolute fu messa in disarmo nel 1879, la Regina Vittoria fece costruire, con i fasciami della stessa, una scrivania che fu inviata in dono all’allora Presidente degli Stati Uniti, Rutherford B. Hayes. A far data dall’Amministrazione Kennedy, La Resolute Desk si trova nello studio ovale della Casa Bianca, a Washington. 
[2] Nel 1982 un gruppo di studio guidato dal prof. Owen Beattie, antropologo presso la University of Alberta del Canada, ottenne l’autorizzazione a procedere alla riesumazione dei tre componenti della spedizione Franklin sepolti a Beechey Island. I corpi di John Torrington, John Hartnell e William Braine furono ritrovati perfettamente conservati grazie all’azione del permafrost. Dall’autopsia effettuata sul corpo di Torrington, risultò confermata la morte per polmonite. Da analisi effettuate su campioni di tessuti, risultò altresì un’elevata concentrazione di piombo, dovuta probabilmente al sistema di saldatura delle scatolette utilizzate come scorte durante il viaggio. Si suppone che l’avvelenamento da piombo abbia agito da concausa, oltre al freddo e all’inedia, nel provocare la morte dell’intero equipaggio della spedizione Franklin.  
 
  
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