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Autore: _Frame_    10/02/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Avviso solo che ho leggermente modificato alcuni punti della Carta Atlantica, in quanto facevano riferimento al regime nazista che, come tutti sappiamo, in questa fan fiction non esiste.

C’è poi una piccola controversia sulla data della firma. La data ufficiale di pubblicazione è il 14 agosto, ma la prima stesura della bozza è avvenuta il 12, come si legge sulle copie reali del documento, quindi io ho ambientato tutto durante il giorno 14, anche se la firma sul trattato indica il 12.

Buona lettura!

 


189. Carta Atlantica e Innocenza rubata

 

 

14 agosto 1941

Baia di Placentia, Isola di Terranova, Canada

Bordo della nave da battaglia HMS Prince of Wales

 

Diari di America

 

Il giorno in cui io e Inghilterra abbiamo firmato la Carta Atlantica ero pieno di fiducia per quello che avrebbe comportato quel nuovo trattato. Ci stavamo preparando non solo a vincere la guerra, ma anche a salvaguardare la vita di tutte le nazioni innocenti che ne erano finite in mezzo, trascinate in balia dell’odio e della sete di potere che noi tanto ci stavamo impegnando a debellare. Ci stavamo preparando anche a gettare le basi per un mondo più giusto e tollerante, guidato da principi come la solidarietà e la giustizia fra noi nazioni. Tutti valori che io ho sempre inseguito, fin da quando ero piccolo.

In quel periodo, nonostante la mia partecipazione alla guerra fosse ancora sporadica (si dice così, vero?), mi sentivo bene con me stesso. Sapevo che stavo procedendo per la strada giusta, sapevo di star combattendo per il bene, ero consapevole della nobiltà delle mie azioni e della mia missione. Ovviamente, ero consapevole del fatto che c’era una guerra in corso, ero consapevole del fatto che, per quanto mi fossi sforzato, non avrei potuto salvare tutte le vite che avrei voluto. Non ero ingenuo fino a quel punto, anche se a quei tempi qualcuno avrebbe potuto affermare il contrario. Conoscevo le crudeltà della guerra, anche se a volte poteva sembrare il contrario. Tuttavia, ho sempre cercato di affrontare con ottimismo qualsiasi genere di conflitto, e pensavo che anche quella guerra non avrebbe fatto eccezione.

C’erano molte cose che mi facevano sperare in una nostra vittoria: il fatto che Inghilterra stesse resistendo con tenacia, nonostante fosse martellato dai bombardamenti da quasi due anni; il fatto che i nostri traffici mercantili fossero ancora salvi, lontani dalle grinfie tedesche, nonostante i tentativi della Kriegsmarine di depistarci attraverso l’Atlantico; il fatto che Russia avesse deciso di far squadra con noi, di fidarsi del nostro aiuto (circa) e di far affidamento sul nostro appoggio per combattere Germania. Dentro di me pensavo: andrà tutto bene, i piani procedono alla grande, non c’è motivo di preoccuparsi!

Durante quei giorni a Terranova, quando ho steso assieme a Inghilterra i punti per la Carta Atlantica, ero quindi pieno di speranza nei confronti dei valori che avrei voluto trasmettere con le nostre parole e con le nostre buone intenzioni.

Mai avrei creduto che io stesso mi sarei ritrovato a combattere contro quegli stessi valori, e che il mio cuore sarebbe stato corrotto dalla guerra stessa, impedendomi di credere alla costruzione di quel mondo giusto e tollerante a cui tanto avevo aspirato durante quegli anni.

Trascorsero solo pochi mesi prima che io stesso subissi sulla mia pelle un primo assaggio della crudeltà di cui sarebbe stata capace quella guerra, questo ce lo ricordiamo tutti. Quello che successe mi cambiò, è vero, ma non nel modo in cui mi aspettavo.

All’inizio, credevo che i veri cattivi fossero Germania, Prussia, Russia, e tutte quelle nazioni che combattevano solo per loro stesse, pensando solo al loro popolo e alla loro grandezza, e non al destino degli altri paesi che sarebbero stati coinvolti. Poi ha capito che loro sono sempre stati solo delle vittime. La vera cattiva in tutto ciò è sempre stata la corruzione della guerra stessa. Quella corruzione che alla fine avrebbe cambiato anche me, trasformandomi in uno di quei cattivi che avevo sempre cercato di combattere.

Me lo ricordo benissimo, come se fosse ieri. Il giorno della firma del trattato, Inghilterra mi aveva detto qualcosa così: “Io conosco la tua anima, America. Ed è per questo che so che farai sempre la cosa giusta e che metterai sempre il bene del mondo persino davanti a te stesso. Ecco perché mi fido.” Ma Inghilterra si sbagliava. Non conosceva la mia anima, non conosceva me, e nemmeno io conoscevo me stesso.

Solo quando anche la mia anima finì per cedere alla corruzione della guerra compresi realmente che tutto quello che avevo sempre sognato, sperato e quello per cui avevo combattuto era sempre stata un’utopia. E solo allora mi resi conto di essere sempre stato io quello di cui avevo sempre avuto paura. Per questo mi premeva così tanto di sconfiggere Germania. Inconsciamente, volevo distruggere l’ombra di quello che sarei diventato anch’io, prima che potesse inghiottirmi completamente nella sua oscurità.

 

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Numero Copia: 1

 

MASSIMA SEGRETEZZA

 

NOTA: Questo documento non dovrebbe essere abbandonato e, se si ritenesse necessario il suo cedimento, dovrebbe tornare all’Ufficio Privato.

 

PROPOSTA DI DICHIARAZIONE

 

Primo; i loro paesi non cercano nessun ingrandimento, territoriale o d’altro genere.

Secondo; essi desiderano che non si verifichi alcun cambiamento territoriale che non sia conforme ai voti liberamente espressi dai popoli interessati.

Terzo; rispettano il diritto di tutti i popoli di scegliersi la forma di governo sotto cui desiderano vivere.

Quarto; si sforzeranno, pur nel rispetto degli obblighi esistenti, di favorire per tutti gli Stati, grandi o piccoli, vincitori o vinti, l’accesso, in condizioni di uguaglianza, al commercio e alle materie prime del mondo che sono necessarie per la loro prosperità economica.

Quinto; desiderano realizzare la più completa collaborazione fra tutte le nazioni nel campo economico, al fine di assicurare, per tutti, un miglioramento delle condizioni di lavoro, il progresso economico e la sicurezza sociale.

Sesto; dopo la definitiva distruzione della tirannia della Germania, essi sperano che si stabilisca una pace che fornirà a tutte le nazioni i mezzi di mantenersi in sicurezza entro le proprie frontiere e che darà l’assicurazione che tutti gli uomini, tutti i paesi, potranno vivere liberati dal timore e dal bisogno.

Settimo; una simile pace dovrà permettere a tutti gli uomini di attraversare senza timori i mari e gli oceani.

Ottavo; essi credono che, sia per ragioni pratiche che spirituali, tutte le nazioni del mondo debbano arrivare a rinunciare all’impiego della forza. Dato che nessuna pace futura potrà essere mantenuta se gli armamenti terrestri, navali o aerei continuano ad essere utilizzati da parte delle nazioni che minacciano, o possono minacciare, con aggressioni al di fuori delle loro frontiere, essi ritengono che, in attesa dello stabilimento di un sistema di sicurezza generale più ampio e permanente, il disarmo di tali nazioni sia essenziale. Favoriranno ed incoraggeranno ugualmente tutte le altre misure pratiche tendenti ad alleggerire, per i popoli pacifici, il gravoso fardello degli armamenti.

 

12 Agosto, 1941

 

United States of America

 

United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland

 

 

Inghilterra sollevò la penna già usata da America, la staccò dalla firma fresca appena lasciata sul documento stampato a macchina che avevano compilato e corretto negli ultimi giorni. Fece correre gli occhi sul trattato, rilesse tutti gli otto punti, e sorrise mostrando un’espressione soddisfatta. “Direi che ora è pienamente ufficiale.”

Accanto a lui, in piedi sul ponte della Prince of Wales, America tenne le spalle dritte in una posa solenne, le mani giunte dietro la schiena, e annuì, raccogliendo quello sguardo luminoso e carico di determinazione che gli fece battere il cuore. Si girò verso il gruppetto di ufficiali, giornalisti e ambasciatori, e posò la mano sulla pagina che giaceva sul tavolo, stando attento a non toccare le firme fresche. “E con queste firme sigilliamo ufficialmente il trattato denominato Carta Atlantica.”

Scrosciò un breve applauso. Alcuni degli uomini in uniforme si spostarono per andare a stringere le mani a quelli in piedi sull’altro lato del ponte, si scambiarono sorrisi, brevi parole d’accordo. Squillarono le trombe. Sul ponte della Prince of Wales soffiò un alito di vento che fece oscillare le bandiere inglesi e quella americana che avevano affisso solo per l’occasione. Una tempesta di blu, bianco e rosso contro l’azzurro terso di un cielo che pareva una lastra di vetro.

Inghilterra lasciò la pena accanto alla pagina del trattato, sistemò la manica della giacca, aggiustando il bottone dentro l’asola, e massaggiò il polso. Sollevò lo sguardo, si riparò dal vento, e socchiuse gli occhi per estraniarsi dalle voci che si mescolavano sul ponte della nave, lasciandosi circondare solo dalla forte e fresca aria di mare che gli riempì i polmoni. Faceva freddo, nonostante la stagione, e una scia di brividi gli percorse la nuca, discendendo la schiena.

I riflessi del sole cristallino si spaccavano fra i drappi delle bandiere a ogni loro sventolio, in un mosaico di luce frastagliato sulla superficie della baia. Una distesa di mare liscio e blu riempiva la conca composta dalla scogliera spiovente, che cadeva dritta nell’acqua del porto. Un largo e luminoso sole bianco li osservava come un occhio dalla sommità del cielo azzurro, vegliando sulle altre imbarcazioni ormeggiate a Placentia. Numerose baleniere attraccate assieme ai pescherecci e all’Augusta su cui America aveva viaggiato per giungere fin lì.

Gli occhi di America si posarono sulle loro bandiere che sventolavano dai tralicci della Prince of Wales, sui cannoni a riposo della sua nave da battaglia, sulle torrette che bucavano il cielo. Chiuse gli occhi, si riproiettò fra le acque dell’Atlantico, durante l’ultima battaglia a cui la nave aveva preso parte, contro la Bismarck e il Prinz Eugen, quando lui stesso aveva spremuto l’energia di quei cannoni fra le dita e aveva fatto esplodere le salve da quelle bocche di fuoco, nutrendosi delle scosse di vita elettrica trasmesse dal cuore dell’imbarcazione. Le stesse scosse elettriche che ora scorrevano pacifiche sotto i suoi piedi, soffici come le fusa di un gatto. Non l’avrei nemmeno sperato. Inghilterra calò il braccio dalla fronte e si portò la mano sulla pancia, sulla cicatrice ormai guarita e sbiancata, ma ancora presente assieme ai ricordi e ai dolori di quella battaglia. Non avrei mai nemmeno sperato di poter firmare un accordo del genere proprio sulla Prince of Wales, su una nave che mi ha già portato in salvo una volta e che ora si farà carico di un messaggio così importante che influenzerà il resto del conflitto.

America sventolò altri saluti sorridenti verso gli uomini che avevano assistito alla cerimonia e alle loro firme, e buttò l’occhio sul profilo di Inghilterra, ancora fermo accanto a lui. Notò il suo sguardo distante, il suo viso serio, e quell’ombra di estraniamento a isolarlo dal resto dei presenti. “Tutto okay?”

Inghilterra riaprì gli occhi e compì un piccolo rimbalzo. “Ah. Sì, sì, stavo solo...” Si tolse la mano dalla pancia e tornò ad abbassare gli occhi sul foglio, sulle loro firme che trasudavano speranza, battendo come un cuore vivo. Sospirò. L’espressione di nuovo grigia e incerta. “Stavo solo pensando.”

America sbatté le palpebre, confuso. “Al trattato?”

“Anche.” Inghilterra si spostò dal tavolo, lasciando spazio al segretario e a un paio di giornalisti che si chinarono a scattare le foto alla pagina appena siglata e al panorama che si stagliava dal ponte della Prince of Wales. Si allontanò e sollevò un braccio per carezzare un traliccio che cadeva in diagonale sopra la sua testa. “Pensavo che questa nave mi ha già salvato la vita una volta, per di più solo qualche mese fa.” Sfilò le dita dall’acciaio vibrante. “Spero che il fatto di aver firmato un trattato del genere proprio qui a bordo possa essere di buon auspicio e che ci possa portare fortuna anche per il resto del conflitto.”

America lo raggiunse con una corsetta, si mise al suo fianco, sollevò il mento in una posa fiera, e si batté la mano sul petto fasciato dall’uniforme militare color blu navy. “E chi ha bisogno della fortuna quando avete me? E poi...” Raggiunse la balaustra, vi si appese con entrambe le mani e sporse le spalle in avanti, affacciandosi alla distesa di mare. Il vento gli soffiò addosso, pizzicò sulle orecchie, e gli scostò i capelli dalla fronte. Lo circondò in una spirale di aria di sale e di foresta di abeti, del paesaggio verdeggiante che riempiva gli strapiombi affondati nel mare blu e piatto come una lastra di ghiaccio. “Anche io sono fiducioso riguardo questo trattato.”

Inghilterra fece roteare lo sguardo ma sorrise, godendosi la presenza di America che lo metteva di buon umore.

Gli occhi di America splendevano di speranza e di vita, puliti e freschi come quel cielo intonso che splendeva sopra di loro, e profondi come il mare che li circondava.

Quella visione gli strinse il cuore, lo fece arrossire come un ragazzino.

America si girò, attratto dall’intensità con cui lo stava fissando, e sbatté di nuovo le palpebre. “Che c’è?”

“Ehm.” Inghilterra compì un altro sobbalzo. “N-niente.”

“Mi fissavi.”

“È che sei...” Inghilterra annodò le braccia al petto, gli mostrò il profilo, camuffando il rossore con un broncio, e tamburellò le dita. “Stai bene con l’uniforme,” borbottò. “Se solo ti vestissi più spesso così decentemente...”

“Signori.”

Inghilterra e America si voltarono.

Uno degli ufficiali che aveva assistito alla cerimonia – uno britannico – s’immobilizzò in un attenti e porse loro due pagine stampate e ripiegate. “Qui vi abbiamo preparato delle copie del trattato, signori. Queste potrete anche tenerle con voi.”

America staccò le mani dalla balaustra e riatterrò con un balzo sul ponte. “Ooh, forte!” Sia lui che Inghilterra sfilarono le copie dalle mani inguantate dell’uomo.

L’ufficiale si congedò, “Con permesso”, lasciandoli di nuovo soli.

America e Inghilterra ripresero a passeggiare attraverso il ponte, lasciandosi alle spalle il vociare degli uomini e lo stridio dei gabbiani che volavano in cerchio attorno alle torrette della nave.

America si sbottonò il colletto dell’uniforme, si grattò il collo e la nuca, dove la stoffa prudeva, e diede una scrollata alla pagina contenente la copia del trattato. Rilesse i punti. I suoi occhi si fecero di colpo più seri e scuri, già volti oltre i festeggiamenti di quel traguardo. “Credi che Russia la prenderà come una provocazione?”

Inghilterra si strinse nelle spalle. “Che pensi quel che vuole,” rispose, brusco. “Noi stiamo pensando al futuro dei nostri paesi e anche a quelli degli altri. E lo stiamo facendo per il bene collettivo. Le sue paranoie non contrasteranno di certo con le nostre intenzioni.”

“Ma secondo te Russia avrà comunque intenzione di darci retta e di fidarsi di noi? Sai...” America calò la pagina, inarcò un sopracciglio. “Dopo tutto quello che ci siamo detti.”

Attraverso le orecchie di Inghilterra si spanse l’eco dell’ultima telefonata scambiata con Russia, a battaglia cominciata, unita alle ultime occhiatacce che si erano rivolti quando lui e America si erano presentati a Leningrado per metterlo in guardia. “Ora Russia si trova in una posizione critica, forse più critica di quanto non si sia mai trovato durante il corso di qualsiasi altro conflitto vissuto dal suo paese. Avrà paura.” Anche lui si appoggiò con i gomiti alla balaustra della nave e si affacciò al porto, come aveva fatto America prima. Si perse in quell’ampia e scura distesa di mare canadese, pacifica come la nazione a cui apparteneva. “E la paura aguzza l’ingegno e la ragione, dopotutto. Ed è in grado di spezzare l’orgoglio persino di un individuo come lui. Vedrai che capirà da solo che gli converrà abbassare la cresta e accettare pacificamente i nostri accordi se vorrà sopravvivere a questa guerra. Dopotutto...” Aggrottò la fronte. “Gli stiamo offrendo più di un aiuto, mi sembra.”

“Ho solo paura per quello che succederà dopo,” disse ancora America. “Io ho intenzione di mantenere la parola con lui. Gli ho promesso che lo avrei aiutato e che lo avrei accettato nella mia alleanza, che sarei stato disposto a tutto pur di sconfiggere Germania.” Un’ombra calò sul suo viso, attraversò le lenti rendendogli gli occhi più bui. “Ma ora mi chiedo cosa Russia avrà intenzione di fare nei nostri confronti una volta che la guerra sarà finita e che, sai...” Si strinse nelle spalle, rigirò la pagina del trattato. “Che ci sarà tutta quella roba da spartire e tutte quelle nazioni da ricostruire, e...”

“Abbassa la cresta anche tu, ragazzino.” Inghilterra gli strinse la punta del ciuffo fra pollice e indice, richiamò la sua fronte verso il basso, e gli diede un colpetto fra i capelli. “Prima di tutto pensa a vincere la guerra e a sopravvivere. E quando sarà finita ci preoccuperemo delle conseguenze. Ora è di Germania che dobbiamo preoccuparci, è lui la nostra priorità, ancora più di Russia.” Lo guardò fisso negli occhi. “Non dimenticarlo.”

America sospirò a fondo, riempiendosi di quell’aria di mare, di foresta e di porto. Già, è Germania l’unico nostro nemico, ora. È Germania che ha già scatenato due guerre così massicce e distruttive a distanza di pochi anni l’una dall’altra. È lui che ci ha già dimostrato quanto pericoloso possa diventare, quanto potente sia il suo esercito e la sua nazione, e quanto la sua anima possa dimostrarsi spietata e vendicativa. Si morsicò il labro, afflitto da un crampo di conflitto. Ma chissà perché... “Da dove pensi che derivi tutto questo odio?”

“Mh, odio?” Inghilterra gli sfilò le dita dal ciuffo e si strinse le mani sui fianchi. “Di quale odio stai parlando?”

“Di quello di Germania.” America si diede un’aggiustata ai capelli. “Cos’è che lo spinge ad agire in questa maniera? Perché per lui è così importante porre la sua nazione sopra le altre, anche a costo di farsi odiare dal mondo intero?”

“E chi lo sa, magari...” Inghilterra aprì i palmi al cielo. “Magari le cause dei suoi guai derivano dall’atteggiamento di Prussia che ha sempre esercitato su di lui una pressione fin troppo grande per essere sostenuta da una nazione sola. Magari è stato solo educato male. Non mi sorprende che tu non riesca a capirlo. Dopotutto...” Si posò la mano sul petto e distese un gonfio sorriso di superbia. “Hai avuto l’educazione migliore che qualsiasi nazione potesse ricevere.”

“Smettila,” sbottò America. “Sono serio.” Strinse i pugni contro i fianchi e guardò verso il mare, lasciandosi carezzare dalla brezza. “Io non posso più permetterlo.” Tremolò in quella sua posa statuaria. “Non posso più permettere che Germania versi così tanto sangue, non posso più permettere che distrugga altre nazioni e che stermini altri popoli. Io voglio fermare questa guerra, sul serio. E voglio anche fare in modo che non ne scoppino più di simili. Però, ogni tanto mi chiedo...” Di nuovo quell’estraneo spasmo di indecisione incrinò quell’aura di fiducia e arroganza che era ormai la sua seconda pelle. “Se noi sconfiggessimo Germania e se lo punissimo com’è successo l’ultima volta con i Trattati di Versailles, non è che poi ricomincerebbe tutto da capo?”

Lo stesso timore pizzicò anche Inghilterra, lo fece esitare, ma lui lo scacciò con uno sbuffo. “Ne parli quasi come se questa guerra fosse scoppiata per colpa nostra.” Tornò a braccia conserte e compì un paio di passi lungo il profilo della balaustra. “Come se fossimo stati troppo duri con lui.”

“E se fosse sul serio così?” continuò a domandarsi America. “E se avessimo sbagliato fin dall’inizio?” Seguì Inghilterra. “Forse avremmo dovuto cercare di comprenderlo invece che punirlo ciecamente, senza... senza nemmeno pensare alla sua gente e a tutte le persone che hanno patito negli anni dopo la prima guerra. E ora ho solo paura che possa ricominciare tutto daccapo.” Rivolse gli occhi a quel mare limpido come le sue intenzioni. “Ho paura che il suo odio cresca di nuovo, aspettando solo l’occasione giusta per tornare a scoppiare come ha fatto adesso.”

“Quello che è capitato a Germania è solo colpa delle sue azioni,” rispose Inghilterra, “non di quello che abbiamo fatto noi per cercare di rimediare ai suoi errori. E tu non dovresti essere così clemente nei suoi confronti, America.” Fece scivolare su America uno sguardo intenerito. Abbassò la voce, parlandogli con un soffio. “Sei ancora troppo buono per un mondo crudele come questo.”

America si strinse nelle spalle. Non seppe se sentirsi offeso o contento. “È una cosa così brutta?”

“No. È solo...” Inghilterra scosse il capo. “Controproducente, suppongo.” Poggiò la schiena alla balaustra, piegandovi sopra i gomiti, e reclinò il capo all’indietro. Guardò verso le punte dei tralicci che foravano quel cielo così azzurro da capogiro. Si sentì annegare, vi si abbandonò. “Lo vorrei anch’io, sai. Vorrei anch’io che il mondo fosse davvero guidato da qualcuno che segue i tuoi stessi principi.” Scrollò le spalle e sollevò un sorriso amaro. “I principi a cui ormai non credo più nemmeno io, forse. Vorrei davvero che il mondo potesse rimanere innocente come te per sempre.”

Quelle parole sorpresero America, trasmettendogli un guizzo al cuore. Innocente? Io? Si strinse una mano sul petto. Non riuscì nemmeno lui a decifrare l’effetto del ricevere quell’appellativo. Da una parte gli gonfiò il petto di fierezza, lo sollevò a una spanna da terra, e dall’altra gli arroventò il sangue, salendo a battere contro le tempie in un sordo tonfo di frustrazione. Posso davvero definirmi così? “Come fai a dirlo?” Si tolse la mano dal petto. Guardò di nuovo Inghilterra negli occhi. “Come fai a dire che siamo noi quelli nel giusto?”

Inghilterra tornò a sollevare la testa e aggrottò un’espressione dubbiosa. Che gli prende? Flesse il capo di lato, assottigliò le palpebre, flesse le sopracciglia, e lo scrutò più a fondo. Di solito America non si fa mai scrupoli su questo. È nato e cresciuto con l’idea di essere nel giusto. Che stia diventando più adulto anche lui? Ma il pensiero che sia la guerra stessa a crescerlo... Rabbrividì, come se uno schizzo d’acqua gelida gli fosse scivolato lungo la schiena. No, non mi piace per niente. “Perché conosco la tua anima, America. E so che sarai in grado di compiere le scelte giuste quando verrà il momento di agire.”

America ripiegò la copia del trattato e se la infilò in tasca, senza badare troppo alle ultime parole di Inghilterra che non riuscì a capire fino in fondo. “Ormai non so nemmeno io cosa aspettarmi da una guerra imprevedibile come questa.” Anche lui guardò lontano, verso il punto dove cielo e mare si fondevano in un’unica tinta. “Se Russia dovesse fallire e se dovesse perdere contro Germania, nonostante tutti gli aiuti che gli invieremo, cosa pensi che accadrà?”

“Non ne ho idea.” Inghilterra si strinse nelle spalle e si espresse con un tono più rassegnato di quel che avrebbe voluto. “Ma ora anche lui è un nostro alleato, dobbiamo accettarlo. E, anche se combatteremo per motivi diversi, sarà solo focalizzandoci sul nemico comune che riusciremo a vincere.”

 

♦♦♦

 

10 settembre 1941

Kremenciung, Ucraina

 

Bulgaria si sfilò la camicia davanti alla corazza lucente di uno degli autocarri posteggiati – ne aveva scelto uno pulito, senza schizzi di fango e senza ammaccature – e si avvicinò di un passo, fronteggiando la sua immagine riflessa e leggermente distorta dal portellone. Distese le braccia arrotolate in un filo di punti di sutura, si girò sul fianco, dove le cuciture si agganciavano al di sopra dell’anca, si arrampicavano attraverso la pancia e sopra l’ombelico, e si abbassò portando il viso davanti al finestrino. Si posò una mano sulla guancia sinistra, quella peggio ridotta, attraversata da un gonfio ghigno di punti che andava dalla mandibola all’orecchio, disegnando un piccolo arco sotto la palpebra. Lo costringeva a tenere l’occhio leggermente socchiuso. Sottilissime goccioline di sangue nero e rappreso incrostavano gli spazi fra una cucitura e l’altra. Le punte delle dita tremarono, aggredite dal bruciante desiderio di grattarsi attorno ai punti, dove la pelle era gonfia, rossa e lucida, e prudeva come se al posto del sangue fosse fluito un esercito di formiche.

Bulgaria contrasse la mano, si grattò attorno ai punti, e storse un broncio nero, mezzo disgustato e mezzo disperato. Allontanò gli occhi dal suo riflesso, strinse i denti dove continuava a percepire la sensazione dura e tagliente del filo spinato fra le gengive e la lingua, e tornò a rilassare i tratti del volto. Ogni volta in cui schiudeva le labbra, o arricciava la punta del naso, o aggrottava le sopracciglia, aveva l’impressione che il suo viso dovesse spaccarsi come una maschera. “Ricucito così sembro una bambola che è stata sbranata da un cane e poi rimessa in sesto con ago e filo.” Diede una strofinata anche alla spalla, seguì il profilo dei punti che scendevano lungo il torso e grattò anche la pancia, l’anca, e di nuovo il braccio. Aveva il corpo in fiamme. “Quanto pensi ci metterò a guarire?”

Una voce dietro di lui emise un piccolo sbuffo. “Con ferite del genere?” Passi si avvicinarono attraverso lo sterrato, e il riflesso di Romania si materializzò accanto al suo. Braccia conserte, un sopracciglio alzato, e capo flesso di lato. L’espressione distante ma ferma, un po’ colpevole. “Non mi stupirei se ti rimanessero per sempre. Sono pur sempre ferite causate da un conflitto.”

Bulgaria tornò a stringere i denti e rievocò l’acido sapore del sangue sulla lingua che gli faceva ancora male. Emise un sottile singhiozzo stridente e piagnucolò. Per sempre. “Che palle.” Diede le spalle al suo riflesso e continuò a grattarsi. Sotto le unghie si raggrumò un leggero strato di sangue secco sbriciolato dalle gocce zampillate dai punti. “Se solo non bruciassero così tanto. Mi sembra di impazzire, non posso nemmeno grattarmi per non rischiare di strapparmi tutti i punti.”

Romania raccolse la giacca che Bulgaria aveva poggiato sullo specchietto dell’autocarro e gliela ributtò sulle spalle. “Io piuttosto sarei felice del fatto di non averci rimesso un occhio. O di essere ancora in grado di mangiare e di parlare nonostante il lacero alla guancia che ti ha quasi strappato la lingua.” Si strinse il mento, pensieroso, batté l’indice sulle labbra arricciate e ridacchiò svelando l’aguzza luce dei canini. “Anzi, effettivamente sarebbe stato meglio se ti avesse strappato la lingua.”

Bulgaria sistemò la giacca poggiata sulle spalle e gli inviò una smorfia resa ancora più grottesca dalla cucitura sulla guancia e la mandibola. “Ah ah, vorrei ridere, davvero.”

Romania alzò gli occhi al cielo e gli strinse la mano. “Vieni, dai.” Se lo portò dietro. “Ti rifaccio il bendaggio prima che ripartiamo.”

Seduta accanto a uno degli altri autocarri, lo zaino a sostenerla, i capelli tirati all’indietro, e la parte piatta e lucida di una borraccia a farle da specchio, Ungheria stava incollando l’ultima benda sul setto nasale, fissando il cerotto rigido attraverso gli zigomi. Le palpebre erano gonfie e viola, gli occhi socchiusi e lucidi, inghiottiti dal gonfiore che dava l’idea che non dormisse da una settimana. Frizionò le dita attorno al bendaggio appena incollato alla radice del naso e gemette, punta da una scossa di dolore.

Bulgaria le passò vicino e la guardò di sbieco. “Diavolo.” Si tolse la giacca e distese le braccia per farsi bendare da Romania. “Hai un aspetto di schifo.”

Lei lo fulminò dal basso. “Senti chi parla.” Percorse la rete di punti che dividevano il suo corpo a pezze. “Sembri una bambola voodoo.”

Sopra di loro, il cielo brontolò, le nuvole si addensarono, attirando gli sguardi di altri soldati che stavano attraversando la strada assieme ai mezzi corazzati, e un fischio del vento soffiò in mezzo a loro trascinando polvere e terra di campo.

Austria si riabbottonò la giacca che aveva appena cambiato e camminò in mezzo a loro. “Dobbiamo affrettarci.” Sotto il suo naso aleggiò l’odore ferroso della tempesta in arrivo. “A quanto pare pioverà e non possiamo permetterci che le strade infangate rallentino la marcia o ci impediscano di creare una testa di ponte stabile sul fiume.” Sistemò il bavero della giacca, ribaltandolo attorno al collo, e picchiettò la punta dello stivale sul terreno. “Anche se non sarà il fango il peggiore degli ostacoli.”

Ungheria si rialzò senza smettere di massaggiare il naso gonfio. “Notizie di russi in arrivo?”

“Sembra che stiano rafforzando la densità aerea in questa zona.” Austria sollevò lo sguardo verso il rigonfio tappeto di nuvole che soffocavano la luce del sole. “Ci stanno segnalando bombardamenti sempre più vicini, e probabilmente avranno capito le nostre intenzioni di riunirci con il Secondo Gruppo Corazzato guidato da Germania. Dobbiamo prepararci al peggio, ma almeno abbiamo il V Fliegerkorps a darci supporto. Isolerà la sacca, terrà i cieli sgomberi dall’aviazione sovietica, e impedirà la fuga dei reparti nemici.”

Bulgaria indossò la giacca sopra il bendaggio appena arrotolato da Romania, si fece aiutare per infilare le braccia nelle maniche, per non sgualcire le fasce che lo coprivano fino alle dita con cui si era aggrappato alla trappola di filo spinato. Soffiò uno sbuffo esasperato. “Russia non molla proprio l’osso, eh.”

“È un buon segno.” Austria strinse le mani dietro la schiena, solenne e statuario anche davanti al cielo livido come il viso di Ungheria. “Significa che anche lui si sta rendendo conto del pericolo che insorgerà quando i nostri due gruppi corazzati si riuniranno.”

“Già,” ribatté Bulgaria. “E Kiev è sempre più strozzata nella morsa della sacca.”

Ungheria fece scivolare la mano dal naso e tirò su un sorso d’aria con le narici doloranti. “Dite che Ucraina sarà ancora in grado di difendersi, anche dopo questo?” Parlava con voce impastata, come se avesse avuto il raffreddore. “Oppure...”

Austria scosse il capo. “Non resta altro da fare che proseguire e avere fiducia nelle azioni di Germania.” Si allontanò dal gruppetto, si portò in cima alla formazione, e inviò l’ordine al resto dei soldati. “Rimettiamoci in marcia!”

Qualcun altro lanciò l’ordine di proseguire il cammino. I corazzati si misero in moto, procedettero in fila, e anche la fanteria si mise in formazione, guidando le motociclette e i semicingolati. Avanzarono sotto nubi sempre più gonfie, nere e tanto basse da dar l’impressione di schiacciarli.

Romania si portò accanto ad Austria e si diede una strofinata alle braccia, aggredito da una ventata di brividi che gli fece battere i denti, nonostante l’aria ancora calda. “Quanto mancherà a Lubny?”

“Meno di centocinquanta chilometri.” Austria guardò lontano, oltre la fila dei mezzi corazzati, quasi si aspettasse di intravedere la città all’orizzonte. “Dovremmo arrivarci in meno di cinque giorni. Se non...”

Un altro brontolio scosse il cielo, basso e rimbombante come quello di una frana. Le nubi si schiusero. Le prime grosse e fredde gocce di pioggia si schiantarono al suolo, aprendo larghe chiazze scure sul fango raffermo.

Tutti sollevarono gli sguardi.

Al brontolio delle nuvole si aggiunse il forte ronzio sfrecciante dei bombardieri tedeschi scortati dai caccia. Gli aerei attraversarono la volta del cielo e ricaddero in picchiata verso la linea d’orizzonte, svanendo dove le nuvole erano più dense e il diluvio era già cominciato, appannando la campagna circostante.

Romania strinse i denti, premendo fra le labbra il ringhio vibrante dei canini, e sollevò un braccio per ripararsi dalle gocce sempre più rapide e numerose. “Dannazione.”

Anche Austria corrugò la fronte, strinse i sottili pugni sui fianchi, e i suoi occhi traballarono, velati dal riflesso delle lenti. Non ci voleva. Diede una spolverata alla giacca già umida, scrollò le punte delle dita, e arricciò il naso in un’altezzosa smorfia di disappunto. Me l’ero appena cambiata. “Proseguite e accelerate!” Alzò la voce verso la formazione dei mezzi. “Portatevi al centro della strada, evitate le buche e gli ammassi di fango sul bordo della carreggiata!”

La strada si spalancò in una densa e collosa distesa di fango. Larghe pozzanghere si riempirono di un’acqua color tè, traboccarono riversando piccole cascatelle scroscianti che inondarono i fossati. Il diluvio aumentò e le gocce zampillarono, grosse e violente come una mitragliata di ghiaia, sollevando una sottile nebbiolina grigia che rasentava lo sterrato.

Austria lasciò che Ungheria, Romania e Bulgaria montassero per primi a bordo del loro panzer. Si aggrappò alla mano tesa da Ungheria, e anche lui balzò su, infilandosi nella torretta e richiudendo il portellone.

Bulgaria si accasciò sul suo sedile e si mise a gambe incrociate. “Merda.” Diede una scrollata ai capelli già zuppi e batté più volte la mano su un orecchio, sturandolo dall’acqua. “Sembra che debba venire giù il cielo.”

L’abitacolo si riempì dell’odore della pioggia, del fango annacquato e delle loro uniformi infradiciate. La pioggia batté sulla corazza, ritmica e incessante, e le vibrazioni del motore appena riacceso percorsero i sedili.

Austria si lisciò la giacca che prudeva a contatto con la pelle, allargò le maniche e allentò la stretta del colletto. “Sono le ultime piogge estive, è normale che siano così violente. L’importante è che le strade rimangano praticabili.”

Bulgaria alzò gli occhi al soffitto. “Sempre se...”

Altri ronzii esplosero fuori dal mezzo, rimbombarono come un temporale e attraversarono il cielo come avevano fatto prima gli stormi di bombardieri.

Ungheria fu la prima a sollevare il capo verso il soffitto e a tendere le orecchie verso il rumore. “Ma cosa...” Lei e Austria si guardarono. Condivisero la stessa espressione attonita, vacillante come l’acqua che ancora imperlava loro la fronte. Fermarono il panzer, riaprirono il portellone, e tutti e quattro si spremettero nella torretta per affacciarsi al panorama, i nasi per aria e le bocche ancora socchiuse per lo stupore. Ungheria si coprì dal diluvio con un braccio e scavò con lo sguardo fra le nuvole. Un altro stormo di aerei sfrecciò sopra di loro e inseguì la formazione di bombardieri tedeschi appena passata. Volavano bassi. “Questi non sono nostri.”

Austria sgranò gli occhi e si soffocò con un sorso di fiato. “Sono...” Li riconobbe. Un pugno di panico gli centrò la bocca dello stomaco. “Bombardieri Sturmovik?”

I primi bombardamenti esplosero dietro la nebbia di pioggia, dilatarono una serie di lampi alternati che brontolarono proprio come fulmini elettrici scaricati dalle nuvole. Lo scrosciare del diluvio ovattò il frastuono della battaglia consumata sulle linee del fronte. La contraerea russa si mise in azione e i cannoneggiamenti ruggirono attraverso l’intera campagna.

Bulgaria affondò le mani bendate fra i capelli, sgranò gli occhi mimando la stessa espressione stordita e spaventata di quando era caduto nel filo. “Ci attaccano!”

Un altro stormo della Luftwaffe schizzò sopra di loro – altri elementi del V Fliegerkorps – e svanì in mezzo alla tempesta color piombo. I primi fuochi si accesero e brillarono come fiaccole, divampando sulle linee di difesa anche attraverso l’aria zuppa di pioggia.

Austria distolse lo sguardo dal cielo. Davanti a loro, una tenda d’acqua color ferro grondava sul tratto di strada e nascondeva la fila di panzer che proseguivano fra le pozze, spalmando il fango nei punti più molli e cedevoli. Soppresse un impeto di nervosismo che gli batté sulle tempie. Dobbiamo sbrigarci ad attraversare Lubny, a raggiungere Lokhvitsa, e a riunirci con il gruppo corazzato di Germania. Russia si sentirà messo alle strette, trasmetterà la paura anche al suo esercito, e diverrà ancora più pericoloso.

Altre esplosioni, altre colonne di fumo sorte da lontano, altri spari mescolati agli scrosci della pioggia. E la guerra continuava.

Austria rientrò per ultimo nel carro, tenendo il braccio alto e la mano stretta sulla maniglia. Manca poco a terminare la battaglia. Chiuse il portello, sigillò l’abitacolo del mezzo, e proseguì l’avanzata.

 

♦♦♦

 

14 settembre 1941

Lokhvitsa, Ucraina

 

Germania estrasse l’orologio dal taschino, fece scattare il bottoncino sulla cima, e ne scoperchiò il guscio, esponendo il quadrante alla luce del tramonto. Solo un paio di minuti alle diciotto e venti di sera. Tenne l’orologio in mano e guardò attraverso il finestrino dell’autocarro su cui viaggiavano a finestrini spalancati, in testa alla formazione del gruppo corazzato, davanti alla fila di panzer. Uno spesso strato di fango si sfaldava, aprendosi sotto il loro passaggio, nonostante le piogge fossero cessate da giorni. Attorno a loro aleggiava il profumo di campi bagnati mescolato all’olezzo dei gas di scarico. Il cielo era stato limpido e terso come una lastra di vetro azzurra per tutto il pomeriggio, coronato da un maestoso sole gonfio di luce che ora stava calando all’orizzonte, inghiottito dalle ali di campi di grano già mietuto. Campi spogli e ormai sterili come la terra conquistata su cui stavano lasciando le impronte.

Alte e nere colonne di fumo sorgevano dalle carcasse di carri tedeschi che ancora bruciavano dal centro dei campi, reduci della battaglia di accerchiamento appena conclusa e vinta. Oltre i campi di grano ingialliti dalla mietitura, si stendeva un terreno verdeggiante delimitato da una linea di bosco. Alla loro sinistra si ergeva un mulino a vento. Le pale ferme e un’aria desolata ad avvolgerlo, a farlo sembrare più piccolo. Fuochi isolati bruciavano anche dai carri russi abbandonati sui cigli delle strade attraversate dalla loro formazione. All’orizzonte, oltre la corona boschiva color muschio, spiccava già il contorno di una città.

Delimitate dai fossati scavati sulla soglia della carreggiata, file e file di girasoli avvizziti, senza petali e dalle teste pesanti, ormai nere e marcite, s’inchinavano al passaggio del nemico che vi soffiava sopra aspre e grigie nuvolette di gas, quasi in un gesto di sprezzo.

Dal finestrino posteriore dell’autocarro, Italia scivolò fuori con i gomiti, si aggrappò allo sportello, e si sporse verso i girasoli morenti, lasciandosi graffiare dal vento sulle guance e fra i capelli. Ci sono ancora i girasoli. Girasoli ormai bassi e cadenti. Le foglie prosciugate e ritorte, i gambi raggrinziti e giallognoli, i petali caduti, le teste bruciate dalla calura dell’estate, e i semi ormai caduti. Fiori piegati come la loro stessa nazione.

All’immagine dei girasoli in punto di morte si sovrappose l’immagine che Italia aveva impresso dentro di sé quel giorno di giugno in cui era scattata l’operazione, l’alba in cui avevano attraversato i campi di girasoli che splendevano di un giallo acceso pulsante di vita. Tornò quel caldo e leggero senso di speranza che lo aveva accompagnato all’inizio della campagna, la fiducia trasmessa proprio da quei girasoli che ora invece stavano morendo, facendolo sentire sconfitto come loro. Sono passati solo un paio di mesi, eppure mi sembra trascorso così tanto tempo, come se questa guerra mi stesse prosciugando. Italia sospirò e posò il mento sulle braccia incrociate sullo sportello da cui passava l’aria della corsa. Reclinò il capo, premette la guancia sulla spalla. Gli occhi bordati di nero, un malsano grigiore a sfumargli le guance, e una patina di tristezza e sconforto ad annebbiare le iridi. Anche io mi sento un po’ come quei girasoli.

Dai sedili davanti, anche Prussia si sporse fuori dal suo finestrino aperto. Puntò lo sguardo davanti a sé. “L’accerchiamento ormai è quasi completo, e per fortuna le strade si sono seccate dal fango. Quasi.” Tese una mano davanti alla fronte per allontanare le ciocche scompigliate dal vento e guardò attraverso la campagna fumante, invasa dai mezzi tedeschi. “Ormai dovremmo essere a duecento chilometri a est di Kiev.”

Un forte ronzio volò sopra di loro, sormontò il ruggito dei panzer in formazione, e discese il cielo rossastro, materializzandosi in una sagoma scura ma familiare. Un aereo. Volava da solo, senza caccia al seguito, e compose un cerchio sopra di loro, come un avvoltoio sopra una carcassa.

Tutti e cinque sollevarono gli sguardi, Germania rallentò la corsa dell’autocarro.

Italia portò una mano davanti alla fronte, per resistere alla spinta del vento fra i capelli, e restrinse le palpebre. Una singola scintilla di stupore animò il pallore del suo viso smorto. “Che aereo è quello?”

Affianco a lui, anche Spagna stava osservando dal finestrino aperto sul lato di Romano. “Un aereo da ricognizione.” Si sporse verso i sedili davanti e bussò con l’indice alla spalla di Prussia. “Dovremmo essere vicini all’altro gruppo corazzato. Sarebbe il caso di farci riconoscere prima che si mettano a bombardarci.”

Germania e Prussia si guardarono. Entrambi annuirono a vicenda.

Germania deviò la traiettoria dell’autocarro e si portò sul ciglio della strada, dove lo strato di fanghiglia era ancora molle e cedevole. “Scendiamo.” Posteggiò e spense il motore.

Scesero tutti e cinque, si tennero sul bordo della strada, separati dai campi di girasoli morenti solo dal fossato, e si lasciarono superare dai primi panzer.

All’orizzonte, qualcosa si mosse. Altri rombi li raggiunsero, meno intensi rispetto al ronzio dell’aereo, accompagnati da piccole sagome sempre più scure e numerose nel punto in cui la strada curvava, incontrando il limite del cielo al tramonto.

Germania estrasse la pistola spara razzi e la ricaricò.

Romano si mise a braccia conserte e strofinò le maniche fino alle spalle, raschiando via i brividi di freddo e umido trasmessi dall’aria della sera. Guardò Germania di traverso. “Che fai?”

“Sparo un razzo bianco.” Germania impennò il braccio sopra la testa. Aspettò che l’aereo da ricognizione virasse. “Dobbiamo farci riconoscere.”

Pum!

La fumata bianca esplose, si stiracchiò attraverso il cielo componendo una colonna, e scoppiò in una spumosa fontana bianca.

Prussia avanzò a piedi attraverso la strada e sbracciò verso la formazione che stava venendo loro incontro. “Siamo tedeschi!” urlò. “Siamo il Secondo Gruppo Corazzato!”

L’aereo da ricognizione compì un ultimo cerchio, superò la colonna di fumo bianco, e ronzò via, svanendo all’orizzonte.

I primi a comparire furono i fanti in uniforme grigia davanti ai mezzi corazzati che proseguivano lenti, a passo d’uomo, avvolti da una nuvoletta grigia e dal fumo color ocra sbriciolato dalla terra schiacciata dai loro cingoli.

Germania tornò a estrarre l’orologio dalla tasca. “Stabilito il contatto con gli elementi del gruppo corazzato alle ore...” Guardò di nuovo il quadrante. “Uno-otto-due-zero.”

In mezzo alle uniformi grigie della fanteria, una sagoma si staccò dalle altre e avanzò in cima al gruppo, facendosi riconoscere sotto il riverbero tenue del tramonto. Il sole gli batteva sulla schiena e fra le ciocche di capelli scuri. Austria impennò il braccio, ripetendo il gesto compiuto da Germania, e sparò a sua volta un razzo bianco, aggiungendo una colonna di fumo a quella che già attraversava il cielo.

Il cuore di Prussia compì una piccola capriola. Il sangue risalì il volto e pizzicò attraverso le guance diventate rosse e tiepide, toccate da un piccolo sorriso di sollievo.

Prussia corse incontro al Primo Gruppo Corazzato in avvicinamento. Spalancò le braccia verso le sagome di Austria e Ungheria. “I miei consorti!”

Affianco ad Austria, anche Ungheria spalancò gli occhi in una calda espressione di sollievo, nonostante i lividi alla radice del naso rotto. Accelerò il passo, facendosi guidare da uno dei raggi di sole spanti sulla strada, e prese a correre.

Prussia la aspettò a braccia spalancate.

Ungheria invece gli sfrecciò affianco e corse a stringere Italia. “Ita!”

Prussia rimbalzò di un ultimo passo e strizzò le braccia sul vuoto, rischiando di inciampare e di finire col naso per terra.

Ungheria strinse forte Italia, fino a soffocarlo e a fargli sollevare le punte dei piedi dalla strada. Lo rimise giù, non sentendo le sue braccia attorno a lei, e gli posò le mani sulle spalle. “Ita, stai bene?” Gli avvolse il viso fra i palmi. Si ritrovò a carezzare guance bianche e smagrite, a fronteggiare un paio di occhi tristi che stentava a riconoscere. “Perché sei così pallido? Quanto sei dimagrito?”

Italia guardò per terra, si rosicchiò il labbro inferiore. “Oh. Io, ehm...” Si strofinò il capo con la mano bendata. “Non è nulla. È solo che...”

Ungheria gli raccolse la mano bendata, quella trapassata dallo sparo di Russia. “Ti hanno ferito?” I suoi occhi si colmarono di panico. “Quando è successo?”

Italia abbassò la testa come un cane colpevole, vergognandosi quasi come se si fosse sparato da solo. Ebbe solo il coraggio di sussurrare: “Mi dispiace”, e tornò in silenzio.

Prussia si approcciò a Ungheria, le diede un paio di spallate, e si indicò il viso sorridente. “E il Magnifico non si merita un abbraccio?”

Ungheria tornò ad avvolgere le spalle di Italia e inviò una boccaccia a Prussia, tirando fuori la punta della lingua. “Abbracciati da solo.”

Prussia si spolverò le spalline e incalzò una marcia verso Austria. “Allora mi faccio abbracciare da Austria.”

“Ehi, non ci provare.” Ungheria scattò e lo trattenne, acchiappandolo per il braccio.

Prussia posò lo sguardo sul suo viso, sul gonfiore sotto gli occhi, sulle bende incerottate alla radice del naso, e sollevò un sopracciglio. L’espressione di nuovo seria. “Che hai fatto al naso?” Si coprì la bocca e scoppiò a ridere. “Hai sbattuto su un albero? Quanto sei imbranata.”

Ungheria gli mollò il braccio e si massaggiò le bende. Chinò il capo come aveva fatto prima Italia, ribollendo di frustrazione. “Lascia stare.”

La risata di Prussia assunse un tono da spaccone. “Te l’ho detto che stai perdendo mordente.”

Ungheria fece digrignare i denti. Lo acchiappò per il bavero, strizzò un pugno, e fece per rompere il suo di naso. “Te lo do io il...”

Prussia le posò una mano sulla testolina, fra i capelli impolverati, e le batté un paio di carezze. Rivolse lo sguardo ad Austria che stava già discutendo in disparte con Germania, mentre il flusso delle truppe s’incrociava, riempiendo la strada di fanti e carri armati. Guardò il suo corpo immacolato, il viso senza nemmeno una cicatrice, la posa principesca che aveva conservato la stessa solennità con la quale era partito. “Grazie per aver badato alla nostra principessa.”

Ungheria arrossì, toccata da quelle parole inaspettatamente dolci, più soffici delle carezze posate in cima alla sua testa.

Bulgaria s’infilò fra loro, allontanandosi dal resto della fanteria e da Romania che gli era rimasto affianco durante la marcia, e sollevò le mani bendate, indicandosi il viso ricucito e incerottato. “E a me nessuno pensa?” Si girò un paio di volte, in cerca di qualche sguardo compassionevole, di qualche parola gentile, e sventolò le braccia spalancate. “Genteee, sono caduto nel filo spinato! Un po’ di compassione, grazie!”

Romano gli camminò affianco. I passi pesanti, l’aria distratta e indifferente, e lo squadrò da cima a fondo. “Come cazzo hai fatto a ridurti in quel modo?” Aggrottò la fronte. “Sembra ti abbiano spinto sotto una mietitrebbia.”

Bulgaria fece roteare lo sguardo e si diede una strofinata alla guancia sinistra, quella strappata dal ghigno di punti di sutura. “Più o meno è successo davvero qualcosa di simile, credimi. Dopo te lo racconto.”

“Ci saranno molte cose da raccontare.”

Tutti si voltarono verso la voce di Germania.

Lui e Austria si rimisero in carreggiata, e Germania posò lo sguardo sui due gruppi corazzati che si stavano riunendo. I raggi del sole cadevano sugli elmetti e sulle corazze dei panzer spandendo un bagliore argenteo, una luce vittoriosa. “Non è questo il tempo di rilassarci. L’accerchiamento è chiuso, ma la battaglia...” Percorse il profilo delle due colonne di fumo bianco che si erano arrampicate attraverso il cielo e che si stavano dissolvendo. “Non è ancora finita.”

 

.

 

Uno dei cuochi che stavano distribuendo le razioni affondò il mestolo nella zuppa fumante appena tolta dal fuoco, ne raccolse una dose abbondante e riempì entrambe le gavette che Ungheria gli aveva passato. Aggiunse un altro pezzetto di patata – patate che avevano racimolato dagli orti abbandonati – e le porse la cena con un caldo sorriso disteso fra le guance screpolate dai giorni di sole e dall’aria secca. “Ecco a lei, signora.”

Ungheria prese entrambe le gavette, sporcandosi con un rivolo di zuppa gocciolato dall’orlo di alluminio, e ricambiò il sorriso. “Grazie.” Si tolse dalla fila di soldati in attesa di ricevere il rancio, e passeggiò attraverso l’umida aria della sera trattenuta dal tetto di alberi sotto cui si erano riparati e mimetizzati assieme ai mezzi in sosta. Un buon odore di zuppa calda si propagava assieme al fumo dei piccoli falò e a quello delle sigarette che alcuni soldati stavano succhiando mentre mangiavano e parlavano. Altri si stavano riposando contro le mura delle isbe abbandonate che davano loro rifugio. Sonnecchiavano in piedi o con la testa affondata nell’imbottitura degli zaini. Le sigarette accese erano tremolanti lucciole rosse nell’oscurità rischiarita solo dai fuocherelli. I passi di Ungheria scricchiolarono attraverso il terreno già sfondato dalle scie dei carri e dalle impronte dei soldati. Attorno a lei crepitava lo scoppiettio dei falò, il vociare dei soldati, qualche rauca risata sparsa, e il clangore delle posate che raschiavano i fondi delle gavette di alluminio.

In lontananza, oltre le isbe occupate, gli orti sradicati, e le sagome nere e piatte dei soldati contro il cielo della sera, i primi lampi delle artiglierie esplosero sulla linea del fronte, dove il combattimento era già cominciato. I colpi di cannone borbottavano come i calderoni ribollenti da cui i cuochi estraevano le mestolate di zuppa. Le salve delle batterie di lanciagranate illuminavano l’orizzonte, bruciavano fra le nubi come le fiamme scoppiettanti dei falò da campo.

Ungheria raggiunse il loro gruppetto, si lasciò inondare dal calore delle braci attorno a cui erano radunati, e andò da Italia, rannicchiato contro la parete di una delle isbe. Era distante sia da Romano che da Germania. “Ita.”

Italia tirò su gli occhi dalle gambe incrociate. Sbatté gli occhi, spaesato e sfiorato dalla luce del fuoco, e rivolse a Ungheria uno sguardo assente, come se avesse visto attraverso di lei.

Ungheria sorrise e si chinò a porgergli una delle due razioni. “Ti va un po’ di zuppa? È calda, appena fatta. Ti farà bene.”

Italia allargò le palpebre, diede una breve annusata all’ala di fumo spanta dalla zuppa, e sollevò un sorriso stanco. “Grazie.” Raccolse la gavetta – Ungheria gli aveva passato quella più abbondante, quella da dove è colato il rivoletto – e se la posò sulle ginocchia.

Ungheria s’infilò nel chiacchiericcio che riusciva a coprire i bombardamenti in lontananza, e andò a sedersi affianco ad Austria che stava rimestando il cucchiaio nella sua gavetta, tenendolo stretto fra le punte delle dita. Un’espressione di disgusto ad arricciargli un angolo delle labbra.

Bulgaria si sfilò il cucchiaio dalla parte sana della bocca, dopo aver ingollato il boccone di zuppa, e sventolò la posata verso Germania. “Dico solo che avreste potuto avvertirci che Russia ci avrebbe aspettati a Uman o per lo meno all’interno della sacca, così ci saremmo risparmiati l’infarto quando ce lo siamo ritrovato davanti.” Si grattò da sopra la giacca e strofinò le unghie anche sul viso, su quel ricamo di punti affondati nella pelle dove il rossore stava sbiadendo, sostituito dal colore più scuro dei lividi. Sbuffò. “E ci saremmo anche risparmiati qualcos’altro.”

Prussia snodò le gambe incrociate e batté i piedi a terra, si piegò con i gomiti sulle ginocchia, a raschiare con il cucchiaio sul fondo della gavetta. “Guarda che non avevamo idea che avrebbe deciso di piazzarsi là.” Mandò giù un boccone. “Ucraina è moribonda, avrebbe dovuto rimanere con lei a Kiev.”

Germania corrugò la fronte, meditabondo. “Però la trappola ha comportato le conseguenze che avevo calcolato, ed è questo l’importante.” Lui aveva mangiato poco e aveva passato quel che era avanzato a Prussia. Sedeva a braccia conserte, militari, davanti al calore di quel fuocherello che spruzzava scintille dai legni più giovani. “La città non è ancora stata evacuata, i ponti sono intatti, e il nostro attacco ha ormai sfondato anche la seconda linea difensiva. Ora che la battaglia di accerchiamento è cominciata e che siamo riusciti a intrappolare ben cinquanta divisioni sovietiche al suo interno, non resta altro da fare che porre fine al calderone. E Russia non ha più il potere di uscirvi, non ora che i nostri gruppi corazzati si sono riuniti.”

Romano s’infilò una cucchiaiata di zuppa fra le labbra e parlò con la bocca piena. “Forse ora è davvero bloccato a Kiev.”

Seduto accanto a lui, le spalle incollate, Spagna annuì. “Se avete detto che a Uman c’era solo Russia...”

“E Lituania,” precisò Bulgaria.

Ungheria si coprì il naso incerottato alla radice. “E Bielorussia.”

“E Moldavia.” Romania posò accanto a sé la sua gavetta vuota, spazzolata fino all’ultima goccia di zuppa, e girò lo sguardo verso Germania, scrutandolo attraverso le fiamme del falò che resero i tratti del suo volto più spigolosi, gli occhi accesi come lanterne, e le punte dei canini più scintillanti. “Perché non mi hai detto che Moldavia avrebbe preso parte alle operazioni? A Smolensk...” Strinse il pugno con una tale forza da dar l’impressione di poter spezzare il cucchiaio pieghevole fra le dita. “Voi a Smolensk lo avete visto, vero? Sapevate che Russia non lo aveva lasciato a Mosca e che avrebbe combattuto esattamente come gli altri.”

Germania e Prussia incrociarono uno sguardo sottecchi – Prussia con le labbra che stavano per chiudersi attorno al cucchiaio ricolmo – e non fiatarono. Germania annuì, ma rimase di ghiaccio. “Sì.” Fra le braci del falò esplose una bolla di pece. Quello scoppio di luce improvvisa riaccese il ricordo della bomba anticarro brillata fra le braccia del piccolo, quello schiaffo di calore e dolore che si era abbattuto sul braccio e sul viso di Germania, costringendolo ad accasciarsi all’interno del panzer. “Ma ti assicuro che si è rivelato difficile affrontarlo anche per noi.”

Romano diede una leccata al cucchiaio e strabuzzò un’espressione scandalizzata. “Non ci credo,” commentò. “Quel marmocchio sta davvero continuando a fare tutti questi danni?”

“Ehi,” abbaiò Romania, sguainando i dentacci. “È mio fratello, bada a come parli.”

Romania si piegò col gomito sul ginocchio e sporse le spalle verso di lui. “Be’, il tuo caro fratellino ci ha quasi ammazzati a Smolensk, lo sai?”

“La colpa non è sua, la colpa è di Russia!” Romania rimase seduto ma compì anche lui un saltello sulle cosce per avvicinarsi. I suoi occhi raccolsero tutte le sfumature del fuoco che gli bruciava contro la guancia. “Lo sta manipolando. Anche quando l’ho affrontato di persona è stato...” Rabbrividì, nonostante il calore delle fiamme. “È stato strano.” Scosse il capo. “Non gli avevo mai visto quegli occhi. Non credevo che sarebbe mai stato capace di qualcosa di simile.” Si mise a braccia conserte e diede una strofinata alle braccia. Il suo sguardo intristito cadde in mezzo ai piedi. “La guerra tira davvero fuori lati di noi che non vorremmo mai vedere.”

Guidato da un istinto che colse lui stesso alla sprovvista, Germania fece volare lo sguardo su Italia. Stava giochicchiando con la sua zuppa, rimestava un pezzo di patata cotta con la punta del cucchiaio tenendo la fronte bassa e gli occhi nascosti dalla frangia. Germania finì trafitto da quelle parole – La guerra tira davvero fuori lati di noi che non vorremmo mai vedere – e riconobbe la tristezza negli occhi di Romania, la fece sua. “Nessuno di noi si aspettava che Moldavia avrebbe costituito una minaccia.” Gli rivolse un’occhiata dura ma comprensiva. “Ma anche tu devi accettare il fatto che Moldavia è una nazione, non un essere umano, quindi dovrai essere sempre in guardia contro di lui da ora in poi.”

Romania abbassò le palpebre e lasciò ciondolare il capo fra le spalle. Si massaggiò le tempie. La testa scoppiava a forza di sentirselo ripetere. “Non rinfacciarmelo anche tu, ti prego.”

“Ma devo. Dovrete ricordarvelo tutti, da ora in poi.” Sotto le luci scarlatte e ondeggianti delle braci, i tratti sul volto di Germania s’indurirono, granitici. “Non dovremo fidarci di nessuno, tantomeno di quelli che si trovano più vicini a noi.”

Italia smise di rimestare il cucchiaio nella zuppa, colto da un brivido. Sollevò il viso dal vapore. Anche Romano lo stava fissando.

Romano si affrettò a girare il capo, si spremette più vicino al fianco di Spagna e rosicchiò il cucchiaio sporco di zuppa. Spagna gli avvolse un braccio attorno al fianco e gli diede una strofinata di conforto lungo la schiena.

Italia sentì quel gesto arrivargli addosso come una secchiata di cubetti di ghiaccio. Di nuovo quella nera aura fuligginosa lo isolò da suo fratello, lo spinse a rannicchiare le gambe e a chinare il viso nel vapore salito dalla zuppa rimestata, senza assaggiarne nemmeno un cucchiaio. Il solo pensiero gli dava la nausea.

Austria e Ungheria si guardarono. La stessa angoscia a ingrigire i loro volti.

Ungheria annuì. Si avvicinò a Italia e gli posò una mano sulla gamba. “Non mangi, Ita?”

Italia sobbalzò. “Oh.” Si strinse nelle spalle, le unghie graffiarono sull’alluminio ammaccato. “Io, uhm, non...” Fece dondolare le gambe, strusciando i piedi a terra, e tenne il viso basso. “Non ho molta fame.”

Ungheria sospirò, resistendo al dolore che premeva alla radice del naso rotto, ogni volta in cui l’aria passava attraverso le narici. Carezzò i capelli di Italia. “Il cibo da campo è orribile, vero?” Si chinò a bisbigliare accanto al suo orecchio e gli sfiorò la spalla con una ciocca di capelli. “Soprattutto se è stato preparato da cuochi tedeschi.”

Italia soffiò una risata tiepida, nascose le labbra dietro il dorso della mano, e si dondolò con le spalle. Non mangiò nulla.

Ungheria gli passò un’altra carezza fra i capelli, gli sistemò una spallina della giacca e aggiustò il colletto ribaltato – gli stessi gesti che ripeteva tutte le mattine quando da piccolo lo aiutava a prepararsi per la giornata. “Sicuro che vada tutto bene?”

Italia arrestò il dondolio di spalle. Strinse il labbro inferiore fra i denti, guadagnò un respiro dal naso, e gli occhi rivolti a terra si fecero gonfi e lucidi. Scosse il capo.

Ungheria gli posò una mano sulla guancia. Era fredda e smagrita. “Se c’è qualcosa che ti fa star male,” gli strofinò una carezza col pollice, “sai che ci siamo sempre noi ad ascoltarti se ti vorrai sfogare, vero?”

Italia annuì. “Mh-mh.” Si strofinò le palpebre con l’orlo della manica.

Ungheria gli sfilò la mano dal viso e gli diede una piccola pacca fra le scapole. “Su, mangia solo qualche cucchiaiata. Devi restare in forma.” Lo spronò con tono più dolce. “Lo faresti per me?”

Italia ricambiò il sorriso e annuì, anche se debolmente. “Va bene.”

Ungheria gli scostò la frangia e gli posò un bacio sulla fronte. “Bravo.” Si rimise affianco ad Austria, interrogata dai suoi occhi altrettanto preoccupati, nonostante l’ombra di austerità.

“Sta bene?” le chiese.

Ungheria scosse il capo. La visione di Italia così triste e isolato era un chiodo nel cuore. “No.”

Italia rimase nel suo angolino, solo sfiorato dalla luce del fuoco, e soffiò sul suo cucchiaino, assaggiando un sorso di zuppa.

Ungheria strinse la mano di Austria, soffocata dal dolore trasudato dagli occhi di Italia. “È tremendo vederlo così, vero? Intendo... vederlo soffrire e non essere più in grado di proteggerlo da ciò che gli sta facendo del male.” Poggiò la tempia sulla spalla di Austria, e sorrise, nostalgica. “Quando era piccolo invece era così facile proteggerlo. Ed era bello pensare che avremmo saputo farlo per sempre.”

Austria lasciò che il riflesso delle fiamme sulle sue lenti nascondesse la stessa espressione rammaricata dipinta sul volto di Ungheria.

Italia e Germania, seduti lì accanto a loro, si rimpicciolirono, tornarono i due bambini che ancora abitavano nei suoi ricordi. Due bambini distanti ma in qualche modo sempre vicini, come nei momenti in cui si studiavano a vicenda con i loro innocenti visetti di latte, con quel modo di spiarsi da dietro i cespugli e gli stipiti delle porte, di imparare a conoscersi senza osare mettere il piede nel mondo dell’altro. I corpicini puliti, la pelle che non era mai stata bagnata dal sangue e che aveva conosciuto solo la luce del sole e il tocco morbido dell’erba del loro prato. Ora invece si ritrovavano con corpi ricoperti di cicatrici, le mani sporche di polvere da sparo, gli occhi segnati dalla guerra, e i cuori feriti, sempre più distanti l’uno dall’altro.

Austria sospirò. Si sfilò gli occhiali e diede una pulita alle lenti. “È sempre doloroso trovarsi davanti alle conseguenze della guerra.” Le esaminò alla luce del falò. “Ed è sempre doloroso considerare come queste conseguenze ci segnano l’animo per sempre. Su una nazione come Italia, poi...”

Ungheria annuì, capendo al volo. “Pensavamo che sarebbe stato in grado di sorridere per sempre. Dava davvero questa idea.” Raccolse una ciocca di capelli e la arrotolò più volte fra le punte delle dita. “L’impressione che fosse nato solo per essere felice, per portare amore agli altri, per aprire uno spiraglio di luce quando quelli che gli erano attorno rischiavano di annegare nel buio. È proprio vero che la guerra riesce a corrompere anche gli animi più puri.”

Austria le posò una mano sulla schiena, un gesto di conforto e di sostegno, e le passò una soffice carezza.

Attorno a loro, isolati dagli echi dei bombardamenti e dalle voci dei soldati lì affianco, la discussione continuava.

“C’è una cosa che però penso dovresti sapere,” disse Romania, “oltre al fatto che Moldavia abbia cercato di attaccarmi.” Tornò su Germania. Si premette il pollice sul petto. “Russia voleva farmi prigioniero.”

Questo catturò anche l’attenzione di Prussia che serrò i denti sulla cucchiaiata di zuppa appena infilata in bocca.

Romania posò la sua gavetta vuota, intrecciò le mani, e strofinò le unghie sulle nocche, quasi scavando nel dolore di quei ricordi. “Durante il combattimento mi ha isolato, ed era più interessato a portarmi via che a uccidermi. Penso mirasse a impadronirsi dei giacimenti petroliferi e carboniferi delle mie regioni.” Fece spallucce. “È chiaro che si sente messo alle strette ora che il Caucaso sarà quasi completamente in mano nostra.”

Germania annuì. Lo sguardo vigile. “I suoi traffici saranno rallentati, se non completamente bloccati. L’Armata Rossa dipende fortemente dai giacimenti di quella regione.”

Spagna inarcò un sopracciglio e guardò Romania di sbieco, più interessato a... “Come hai fatto a sfuggire a Russia?”

Romania schiuse le labbra ma si rimangiò il fiato. Un pensiero improvviso gli fece sudare le mani intrecciate. Non posso dire loro che Russia mi ha lasciato andare di proposito, ragionò. Sarebbe troppo sospetto, potrebbero pensare che io e lui siamo in combutta per sabotarli o chessò io. Nemmeno Austria e Ungheria sanno nulla, l’ho confessato solo a Bulgaria che...

“L’ho salvato io.” Bulgaria s’indicò, attirando tutti gli sguardi sulla sua faccia rattoppata. “È per questo che sono rimasto ferito. Ho allontanato Lituania ma sono inciampato e finito dentro il filo spinato. Poi Rom è riuscito a scappare.” Gli inviò una strizzata d’occhio.

Romania si lasciò toccare da un soffio di gratitudine e mimò un ‘grazie’ col labiale.

Cadde un rispettoso silenzio, riempito solo dallo scoppiettare del fuoco, dallo scricchiolio delle braci incandescenti, dai rimbombi delle artiglierie sulla linea di contatto, e dalle voci dei soldati via via più flebili e insonnolite. Qualcuno cantava, forse ubriaco della scadente acquavite che ricevevano con le razioni.

“Quindi...” Romano mise da parte la sua gavetta ripulita e si mise a gambe incrociate, sfiorando il ginocchio di Spagna con il suo. “Quali sarebbero i piani da adesso in poi?”

Austria sfilò la mano dalla schiena di Ungheria e si diede un’aggiustata agli occhiali, tornando quello di sempre. “Forse sarebbe il caso di dividerci.” Rivolse a Germania un’occhiata sottile. “E possibilmente cominciare a pensare a una strategia valida per sfondare su Mosca, preferibilmente iniziando fin da subito a mobilitare le divisioni al centro e farle avanzare verso la capitale.”

Prussia scoppiò in una sua solita risata gracchiante. “Tentare uno sfondamento frontale ora come ora su Mosca sarebbe impossibile.” Rivolse il suo cucchiaio verso il cielo che stava sfumando nel nero della notte. “Dopo aver emanato la Direttiva 33, abbiamo inviato delle divisioni dal Gruppo Armate Centro a quello Nord, per fiancheggiare e sostenere l’avanzata di Finlandia su Leningrado. Non avremmo né abbastanza mezzi né abbastanza uomini per tentare un’operazione simile su Mosca in un momento del genere.”

Anche Spagna guardò verso l’alto, verso la boscaglia che li teneva nascosti, verso il fumo del falò che si dissolveva nel vento. “Già, chissà Finlandia come se la starà cavando? Lui e Svezia sono da soli, dopotutto, e forse avremmo dovuto...”

“Finlandia sta svolgendo un ottimo lavoro.” Germania tenne per sé il pensiero successivo. Non che io abbia mai dubitato della sua tenacia e della sua collaborazione. Finlandia sa dimostrarsi tanto docile e obbediente con l’alleato quanto feroce e spietato con il nemico. Lui è l’ultimo dei miei problemi. “Finlandia mi ha comunicato che il quindici agosto è riuscito a raggiungere Novgorod, e la città ha capitolato.” Raccolse un piccolo legnetto fra i suoi piedi e lo buttò fra le braci, sollevando una piccola onda di scintille bianche. “Hanno subito gettato le basi per la testa di ponte sul Volchov, e ora l’avanzata su Leningrado procede spedita. Conto che entro la fine del mese riescano addirittura a ricongiungersi con le armate finlandesi provenienti dalla Carelia. In questo modo, conquistando anche le loro reti ferroviarie, soffocheremmo i sovietici in qualsiasi angolo di territorio.”

Romania annuì. Afferrò al volo. “Soprattutto se consideriamo che ora saranno bloccati anche in Crimea e nel Caucaso grazie al bottino che abbiamo preso con la sacca a Uman.”

“Esattamente. Come vedete...” Germania congelò gli sguardi dubbiosi e diffidenti sia di Austria che di Spagna. “Lasciare Mosca per ultima non si è rivelata una mossa disastrosa come credevate.”

Austria piantò un broncio da offeso e anche Spagna fece roteare lo sguardo al cielo, consolandosi solo con la presenza di Romano accanto a lui.

Prussia batté le mani e spaccò quel muro di tensione. “Bene,” esclamò. “Con questo direi che possiamo organizzarci per le prossime mosse.” Raccolse lo zaino e pescò dal suo interno un mazzo di carte topografiche. Dallo spazio fra due di esse scivolò fuori un vecchio bollettino ripiegato che si adagiò accanto al falò, sotto la luce del fuoco che ne evidenziò le parole.

Bulgaria lo notò per primo. “Uh?” Lo raccolse e gli diede una spolverata. “E questo cos’è?”

Prima che potesse leggerlo, Germania lo riconobbe. Era il messaggio con cui gli avevano rivelato della pubblicazione della Carta Atlantica. “Nulla di importante.” Glielo sfilò dalle dita. “Solo un trattato stipulato fra America e Inghilterra.”

Bulgaria chiuse e riaprì le dita bendate su cui permaneva la sensazione di star stringendo sulla pagina e inarcò un sopracciglio. “E non sarebbe importante?”

“Non è una minaccia rilevante.” Germania ridiede il bollettino a Prussia, quasi non volesse nemmeno vederlo. “Saremo noi stessi a impedire che lo diventi. Una volta che avremo sterminato l’Unione Sovietica, America e Inghilterra non potranno più nulla contro di noi, e non sarà un pezzo di carta a salvarli dalla rovina.”

Bulgaria fece per ribattere, ma non gli diedero tempo.

Prussia spiegò la carta topografica vicino alla luce del fuoco ma distante dal calore, in modo che tutti potessero vedere nonostante il buio.

Tutti misero da parte la cena e si sporsero, persino Italia.

La carta topografica era segnata dai vecchi tracciati di Germania – si riconosceva il calco della sua mano duro e netto. La traiettoria da Smolensk che segnava Romny come ultima tappa prima del loro punto di congiunzione, e il cerchio attorno a Lokhvitsa, dove era avvenuto il contatto.

“Ascoltatemi attentamente,” disse Germania, “perché non lo ripeterò due volte.” Persino il fuoco parve zittirsi, le fiamme si acquietarono e la legna smise di scoppiettare. Germania posò l’indice su Lokhvitsa. “Ora che abbiamo ricongiunto i due gruppi corazzati, darò ordine alle divisioni di fanteria ferme nelle retrovie di Kiev di sfondare, abbattere le ultime linee difensive, e penetrare la città. In questo modo, si formerà una sorta di chiusura a triangolo.” Indicò i tre lati del triangolo che congiungevano Kiev, Cherkassy e Priluki. “Questa zona è un calderone ribollente che trabocca di bunker, carri armati interrati, e trappole difensive. Tutti pericoli che però non dovranno bloccarci. La città si sta già difendendo, e la battaglia è in corso dal venticinque.”

Austria teneva le braccia conserte, lo sguardo attento, ma quella perenne ruga di diffidenza a increspargli la fronte. “Quindi non guideremo direttamente lo sfondamento?”

“No, però noi nove saremo lì quando la città sarà conquistata e si tratterà solo di catturare Ucraina.”

Bulgaria scosse le spalle. “Chi ti dice che Ucraina non sia già in salvo a Mosca?”

“Il fatto che Ucraina non avrebbe mai cuore di abbandonare la sua capitale proprio in un momento critico come questo.”

“Ma noi siamo quassù.” Romano si sporse e posò a sua volta l’indice su Lokhvitsa, di parecchi centimetri a est di Kiev. “Quindi come facciamo a farci portare a Kiev,” fece scivolare il tocco verso sinistra, “che dista duecento chilometri da qui? Dobbiamo farci la marcia a piedi?”

“Ovviamente no,” rispose Germania. “Ci faremo scortare non appena la città avrà dichiarato la resa.”

“E andremo tutti e nove a Kiev?”

“Tutti e nove.” Negli occhi di Germania si condensò la luce del fuoco che gli ardeva davanti. Lo stesso fuoco che sentiva bruciare anche nel petto. “Non mi lascerò trovare impreparato come a Smolensk. Non di nuovo. Inoltre, se tutto come ho programmato, sarò in grado anche di annichilire Russia mentre lui si trova ancora a Kiev.” Riapparve il ricordo di Russia davanti alla caduta di Ucraina, davanti alla visione del suo sangue. Quell’espressione di sale che lo aveva congelato, impedendogli di raccogliere il fucile e di terminare quello che aveva cominciato. “Dopo aver ucciso Ucraina, Russia non avrà le facoltà mentali di proseguire nella strada per Mosca. A quel punto, la vittoria sarà ormai a portata di mano.”

Si condensò un silenzio contemplativo. Solo il trambusto borbottante delle artiglierie continuò a brontolare in lontananza, quasi protestando davanti a quelle dichiarazioni.

Romano si passò le dita fra i capelli. Gli occhi ancora sulla carta, sul territorio sovietico divorato dalle armate tedesche, e l’espressione sconvolta. “È incredibile.” Strinse i pugni sulle ginocchia. Ricordò a se stesso che era trascorsa solo un’estate dallo scoppio dell’operazione. “Non avrei mai pensato che battere Russia sarebbe stato così facile. Dev’esserci la fregatura, c’è sempre la fregatura in casi del genere.”

Anche Spagna condivise quel brivido d’incertezza, quel gelo nel sangue che gli impediva di infiammarsi di entusiasmo. Non disse nulla.

“Non questa volta.” Il tono di Germania non ammetteva repliche. “Quando la strategia è solida, l’esercito è forte e il nemico è fragile, non esiste fregatura che possa ostacolare il tuo cammino verso la vittoria.”

L’aria della notte attraversò Italia soffiandogli sotto il naso il pungente odore di bruciato del falò. Una scia di brividi gli percorse le braccia, sollevò la pelle d’oca sotto le maniche della giacca, e gli rimase addosso. Una sensazione viscida e appiccicosa, un brutto presentimento che aveva già provato più volte da quando la guerra era cominciata.

Italia guardò la carta e guardò il cielo all’orizzonte, i lampeggi delle esplosioni. Inspirò l’odore marcio della terra insanguinata e ripensò a quei girasoli gobbi e avvizziti che avevano attraversato quella sera. Si toccò il cuore. Una paura irrazionale lo fece tremare fino alle corde dell’anima.

Dopotutto, Romano aveva ragione: c’era sempre la fregatura.

 

♦♦♦

 

17 settembre 1941

Kiev, Ucraina

 

Russia richiamò le ginocchia al petto strusciando i piedi sul ruvido e freddo pavimento del bunker. Si tenne spremuto nell’angolino più buio, raggiunto solo da una flebile sbavatura di luce proveniente dalle lampade a soffitto –quelle che funzionavano ancora. Spinse la schiena fra gli zaini accatastati alla parete e raccolse un altro dei bollettini ammucchiati accanto alla radio spenta. Poggiò il viso sulle ginocchia piegate, la bocca e il naso affondati fra le pieghe della sciarpa, e fece correre gli occhi fra le pagine. Occhi freddi e spenti, annebbiati dalle ombre del bunker e dall’oscurità che soffocava il suo cuore. Uno sguardo assente e silenzioso, sormontato però da una sottile ruga di disappunto, da un tremolio di rabbia e frustrazione che non se n’era mai andato da quando avevano lasciato la sacca di Uman.

I fischi delle cannonate che si stavano consumando fra le strade di Kiev si schiantarono sul soffitto del bunker. Le lampade sfarfallarono, facendo oscillare le ombre distese lungo le pareti. Ai boati e agli scossoni seguirono gli scrosci del fumo rovente che si ritirava, le corse dei soldati che attraversavano le strade assalite dall’artiglieria nemica. I tremori si acquietarono. Polveri di cemento sbriciolate dalle crepe si depositarono sui documenti che giacevano attorno a Russia, portandosi dietro quella soffocante sensazione che stesse per venire giù il soffitto.

Altre presenze occupavano l’ambiente del bunker, distanti da Russia e dalla barriera d’ombra dietro la quale si era isolato.

“E la rete di trincee controcarro ormai ha quasi raggiunto trenta chilometri complessivi,” proseguì la voce distante di Lituania. “Senza nemmeno contare tutte le altre opere difensive.”

“Con le altre raggiungiamo quasi i settanta chilometri,” aggiunse Bielorussia.

“Eppure sembra non bastare mai. Nonostante siano stati coinvolti anche i civili, nemmeno questo sta fermando i tedeschi. Com’è possibile che siano tanto forti?”

Le loro ombre si mossero, quella di Ucraina si portò accanto al tavolo, assieme agli altri. “Ormai...” Uno scoppio più violento si abbatté sopra di loro e spezzò le sue parole. Ucraina attese che l’eco si ritirasse, che dentro il bunker tornasse quel silenzio fitto e stordente, pressante come l’aria umida che riempiva loro i polmoni. “Ormai è inutile pensarci.” La sua voce riacquistò una vena incoraggiante. “Quel che è fatto è fatto, e l’importante è che voi siate riusciti a rientrare qua a Kiev prima che i tedeschi attraversassero le nostre ultime linee di difesa.”

“La cosa realmente importante è che tu stai meglio, Ucraina,” disse Estonia.

“Sì.” La voce di Ucraina si addolcì, e Russia visualizzò le sue labbra ancora pallide che s’inarcavano in un sorriso rassicurante. “Non quanto vorrei, ma per lo meno posso ancora combattere.” Si propagò un leggero fruscio, il suono della sua mano che massaggiava la giacca sopra le ferite bendate. “Non potevo permettere di lasciarmi andare in quel modo, non ora che il mio popolo ha bisogno di me così disperatamente.”

“Ma cosa possiamo fare?” pigolò la vocina di Lettonia. “Ormai i tedeschi sono in città, stanno radendo Kiev al suolo, e come se non bastasse Russia è anche di malumore perché...” Lo zittì un soffice tunf!, il suono di una gomitata sul fianco.

La voce di Estonia suonò tirata, “Zitto, scemo”, come se gli avesse parlato a denti stretti.

Russia sorvolò su quelle parole, rimase stretto nel suo buio, nel suo silenzio, in quel manto di solitudine che lo rivestiva come una ovattante e fredda scorza di neve. Sfogliò ancora le pagine dei bollettini, e i suoi occhi caddero sul breve annuncio riguardo la Carta Atlantica e i nuovi accordi commerciali con America e Inghilterra. Il suo tocco si fermò. Russia premette sulla pagina un’occhiata carica d’odio, uno sguardo che avrebbe potuto incenerire la carta fra le sue dita. Carta Atlantica. Le mani tremarono facendo scricchiolare il foglio. Quel frustrante bruciore risalì le braccia, raggiunse il viso rintanato nella sciarpa fino alla radice del naso, divampò attraverso le guance e scavò nel petto come il picchiare doloroso e insistente di un coltello, divorandogli l’anima.

Si spalancarono i ricordi dell’ultimo incontro a Leningrado. Il viso pallido e sciupato di Inghilterra, ma sempre scontroso, animato da due occhi accesi di tensione, e quello più alto e fiero di America che si era imposto fra loro due come un cavaliere armato di scudo e spada.

“Ma io non sono come te, Russia,” riecheggiò il ricordo della sua voce. Tornarono quegli arroganti occhi azzurri, quello sguardo luminoso e fiero che Russia avrebbe solo voluto ribaltare con un ceffone. “Quando Germania ti attaccherà e quando tu avrai bisogno di qualcuno che ti tiri fuori dai guai, io non esiterò a portare in salvo nemmeno un individuo come te, se questo poi vorrà dire salvare l’intero pianeta.”

Russia chiuse gli occhi, spezzò l’immagine, e inspirò a fondo l’aria del bunker filtrata dal profumo della sciarpa rimboccata attorno al viso. Lo so che in un momento come questo non posso permettermi di rifiutare alcun aiuto, anche se si tratta di quello di due individui come loro. So che pur di sopravvivere sarò costretto a piegarmi ad accordi del genere, altrimenti rischierò di finire anch’io fra le mani di Germania. Tornò a premere le dita sulla pagina già increspata, immaginando di star rompendo le ossa di America. Ma non voglio essere salvato da America. Ho degli alleati di cui non mi fido e un nemico di cui mi sono fidato ciecamente solo fino a qualche mese fa. Non so più su chi dovrei contare, non riesco più a capire chi sia degno della mia fiducia, non riesco più a non pensare che chiunque potrebbe essere un potenziale nemico che sarebbe capace di pugnalarmi alle spalle com’è successo ora. Chinò la fronte, poggiandola sulla pagina aperta, e soffiò un sospiro di disperazione. Il buio attorno a lui divenne più freddo, il peso della solitudine gli schiacciò le spalle, e il ghiaccio attorno al suo cuore s’inspessì, trasmettendogli una fitta di dolore attraverso il petto. Perché deve essere tutto così complicato?

“Signore?”

Russia riaprì gli occhi, sollevò il viso.

Il profilo di Lituania apparve più scuro in controluce, ma sul suo viso permaneva la solita sfumatura mite e malinconica attraversata da qualche ciocca di capelli sfuggita da dietro le orecchie. Lituania abbassò le spalle e porse a Russia una borraccia.  “Vuole dell’acqua, signore? Sono appena arrivate le nuove scorte.”

Il ghiaccio attorno al cuore di Russia tornò ad ammorbidirsi. Il tepore trasmesso dallo sguardo di Lituania bucò la barriera di solitudine di Russia e alleggerì il peso sulle sue spalle, permettendogli di respirare di nuovo e di calmare i palpiti. Russia gli sorrise, e anche i suoi occhi apparvero meno distanti, meno spenti. “Ti ringrazio.” Raccolse la borraccia, si scansò di lato, premendosi contro uno degli zaini, e gli fece cenno di sedersi accanto a lui.

Lituania obbedì al richiamo – cuccia, bello – e si sedette vicino alla radio, le gambe raccolte e le braccia strette attorno alle ginocchia. Buttò anche lui un’occhiata ai bollettini fra le mani di Russia. “Ci sono altre notizie, signore? Intendo...” Sollevò un sopracciglio, cauto. “Riguardo la Carta Atlantica. America e Inghilterra le hanno fatto sapere qualcos’altro?”

Russia scosse il capo. Svitò la borraccia, prese un piccolo sorso, strinse gli occhi e la richiuse. L’acqua sapeva di ferro.

Lituania sospirò. “Non deve farsi scoraggiare, signore. Lo so che per lei non è facile accettare due alleati come Inghilterra e America, ma sono sicuro che in fondo anche loro nutrano dei buoni propositi nei nostri confronti.” Spostò una delle carte su cui si accennava ai prestiti. “E tutti questi aiuti economici e materiali saranno sicuramente un supporto prezioso. Dovremmo esserne grati.”

Le labbra di Russia, umide dell’acqua appena bevuta, tornarono a svelare un sorriso triste e rassegnato. “America l’ha chiamata Lend-Lease. Affitti e prestiti.” Lui tornò a rannicchiarsi, a spremere la schiena contro gli zaini e a stringere le gambe al petto. “Questo significa che gli accordi fra di noi dovranno proseguire ben oltre la durata della guerra, almeno fino a quando io non sarò in grado di sanare il debito. Ma è naturale.” Il sorriso tremolò. “È tipico di America: mettersi su un piedistallo come l’eroe della situazione quando in realtà non è altro che una sanguisuga che approfitta delle disgrazie della guerra solo per ingigantire il suo ego e ingrassare il suo paese. Non aspetterà altro di rinfacciarmi quanto io abbia avuto bisogno di lui durante il conflitto, non aspetterà altro di dimostrarmi che anch’io sarei morto se non fosse stato per lui. E lo sai...” Attraverso il soffitto del bunker rimbombarono altre mazzate dell’artiglieria. La luce sfarfallò di nuovo e gettò ombra sul profilo di Russia, rese la sua voce più rauca e cavernosa. “E lo sai qual è l’aspetto peggiore in tutto questo?”

Lituania scosse il capo.

“Che ha ragione.” Russia strizzò le dita aggrappate alle gambe. Di nuovo fra le mani bruciò il desiderio di strappargli quel ghigno di soddisfazione dalla faccia. “America ha ragione, perché ora non posso permettermi di rifiutare il suo aiuto se voglio continuare a proteggere me stesso e voi.”

“Ma noi abbiamo fiducia in lei, signore.” Lituania gli si avvicinò facendo scivolare le gambe sul pavimento. “E crediamo ancora nella vincita di questa guerra. La prego...” Gli posò una mano sulla sua, lo toccò attraverso la stoffa del guanto. “Non ci abbandoni così. Abbiamo bisogno di lei.”

Russia soffermò lo sguardo su quel gesto, sulla mano di Lituania, sul suo tocco che fu come un braccio immerso nel lago d’acqua nera per afferrarlo e riportarlo a galla, per salvarlo da quella bolla di disperazione che non gli dava pace. Guardò anche verso le ombre degli altri, verso le loro voci che discutevano attorno al tavolo su cui erano stese le carte topografiche, sui loro sguardi esausti ma ancora carichi di combattività. Sì, loro hanno ancora bisogno di me. Soprattutto ora che Kiev e Leningrado e Mosca sono in pericolo. Ma se Mosca non dovesse farcela... Il suo cuore emise un sordo e soffocante tonfo di paura. Se io dovessi sopravvivere comunque, anche con la mia capitale in mano a Germania, in che modo dovrei presentarmi davanti ad America e Inghilterra? Dovrei farmi umiliare? Dovrei essere disposto a chinare la testa come un qualunque paese sconfitto che dipende solo dall’aiuto degli alleati per tornare libero? Una vena di rabbia pulsò attraverso la fronte corrugata. No, non permetterò mai che capiti qualcosa di simile. Se davvero Germania vuole la mia nazione, allora dovrà uccidermi. È così che dovrà funzionare per tutta l’Unione Sovietica da ora in avanti: o la vittoria o la morte. Inghilterra e America non avranno mai la soddisfazione di vedermi sconfitto.

Tenne gli occhi fermi su Ucraina, sulle sue labbra che pronunciavano parole distanti, sul suo fisico rinvigorito, su quelle spalle di nuovo dritte che non si erano ancora fatte schiacciare, e su quell’aura brillante di speranza che pareva illuminare tutto l’ambiente del bunker.

Nonostante ormai Kiev sia circondata e assalita dal nemico, continuò a dirsi Russia, Ucraina sembra essere ancora in forma. Anzi, sembra stare addirittura meglio rispetto a quando abbiamo combattuto sul resto del territorio. È solo per lei che ho deciso di rimanere qua a Kiev piuttosto che andare a difendere Mosca o Leningrado, ma la situazione sembra comunque disperata, nonostante il nostro intervento. Sollevò lo sguardo sul soffitto rimbombante, e una spolverata di cemento gli cadde fra i capelli. Siamo in trappola. E a questo punto mi chiedo se il nostro legame non si stia rivelando un peso anziché un punto di forza. Quel pensiero sorse in una gelida ventata di nausea. Ho fatto davvero bene a scegliere mia sorella al posto della mia capitale? A Smolensk mi sono fatto condizionare dalle parole di Germania e l’ho portata in salvo qua invece che andare a Mosca. E anche a Uman è stato così. Avrei potuto portare le truppe a est, e invece sono tornato indietro. È stata davvero la scelta giusta? O avrei dovuto abbandonarla al suo destino per mettere in salvo me stesso?

La voce di Ucraina sorse dall’alta estremità del bunker, riempì quell’ambiente chiuso, umido e pesante come un sasso sui polmoni. “Probabilmente i tedeschi stanno imbastendo un’offensiva verso sud, nelle retrovie del fronte sud-occidentale, proprio alle spalle della città.”

Estonia si rimboccò la giacca, corrugò un’espressione incerta e si strofinò la nuca. I segni tracciati sulla carta si riflessero sui suoi occhiali. “E come possiamo fare per contrastarli?”

“Rafforziamo il fronte su Bryansk.” Ucraina posò l’indice nel punto dove erano segnati i raggruppamenti delle armate. “Formiamo uno schieramento abbastanza forte da attaccare il fianco tedesco quando passerà loro davanti.”

“Ma questo...” Estonia sgranò le palpebre. “Significherebbe scremare le forze sovietiche che stanno proteggendo Kiev.”

Ucraina annuì. “È inevitabile. Qui a Kiev rimarrà solo la Trentasettesima Armata, in modo che la Cinquantesima possa indietreggiare al di là del Dnepr per proteggere Mosca.”

Russia ebbe un tic. Quelle parole gli trasmisero una scossa che guizzò attraverso il sangue.

“Le altre invece rimarranno nei sobborghi,” continuò Ucraina. “Cernigov, Konotop, e Charkov.”

Senza farsi notare, Russia si rialzò dal pavimento, sistemò i lembi della sciarpa sgualcita, lisciò la giacca, e attraversò il bunker.  Lituania lo seguì, rimanendo nella sua ombra. Sfilarono affianco a Moldavia, seduto anche lui nel suo angolino di buio e tristezza, il visetto basso, i codini ammosciati, e le manine che rigiravano i bordi dell’elmetto che gli avevano dato per ripararsi quando aveva troppa paura delle esplosioni. Mangiava poco e non dormiva affatto. Spesse e scure occhiaie spiccavano nel visetto bianco come carta, sotto quegli occhi avviliti che non erano più riusciti a brillare dopo lo scontro con Romania.

Russia gli camminò affianco e gli sfregò una carezza sulla testolina. Moldavia rimase impassibile, come se non lo avesse nemmeno sfiorato.

Dall’altro capo del bunker, i passi di Bielorussia schioccarono avanti e indietro lungo la parete. Lei strinse le braccia incrociate, si strofinò le bende attorno alla spalla ferita durante il combattimento contro Ungheria e Austria, e digrignò. “A me sembra una stronzata bell’e buona.” Arrestò il passo e gettò il braccio verso la porta che dava al corridoio. “A questo punto tanto vale gettarci in culo al nemico, no?” sbraitò contro Ucraina. “Gli stiamo praticamente aprendo le porte di Kiev, come fai a non rendertene conto?”

“Me ne rendo conto.” Ucraina annuì. Lo sguardo sereno e la voce pacata. “Me ne rendo perfettamente conto, ma mi rendo anche conto che non c’è altra soluzione. La capitolazione è vicina, e non posso più negarlo a me stessa. Forse potrebbe essere questione di un paio di giorni. Se il mio destino è proprio quello di perdere, allora voglio almeno compiere qualcosa di buono con le ultime forze che mi sono rimaste e mettere in salvo voialtri.”

Altri fischi esplosero dall’esterno del rifugio, terminarono in una serie di esplosioni schiantate fra le strade di Kiev.

Bielorussia strizzò i pugni. Le nocche appuntite sbiancarono, forti spasmi risalirono le braccia e le spalle, i denti trattennero il tremolio del labbro, e gli occhi si accesero di rabbia. “Tu, razza di...” Scosse il capo, le diede le spalle, tornando a braccia conserte, e si rintanò nel suo gomitolo di nervosismo, consapevole di non aver alcun potere sulle sue decisioni.

Estonia si passò una mano fra i capelli. Un gesto molle e stanco. “Ma se ormai dici che la capitolazione è vicina, forse a questo punto è davvero venuta l’ora di...” Si guardò attorno, spostò gli occhi da un angolo all’altro, su ogni ombra, su ogni vibrazione dell’ambiente, in cerca della cupa aura di Russia, quasi per chiedergli il permesso di pronunciare quella frase, o per non finire trapassato dal suo sguardo di disapprovazione. Inspirò a fondo. Si fece coraggio. “Di dichiarare lo stato d’emergenza e far evacuare la città, soprattutto per quanto riguarda i civili.”

Lettonia accostò una mano tremolante alla bocca, si rosicchiò le unghie, e rabbrividì nell’uniforme che gli stava larga – era dimagrito negli ultimi mesi, e pareva essersi ristretto come un pezzo di lana lasciato asciugare al sole.

Ucraina annuì nuovamente. “Lo so.” Si posò una mano sul cuore, dove faceva più male. “So che è necessario evacuare la città per limitare le vittime. Ma se Kiev appartiene a me, non posso dire lo stesso dell’esercito e del suo comando. Mi serve l’autorizzazione dello STAVKA per effettuare un’operazione del genere, per far saltare i ponti che collegano la città ai sobborghi, ma se non...”

“Non è necessario evacuare la città.”

Russia s’infilò in mezzo a loro, scivolando freddo e tagliente come un alito di vento invernale. “Nessuno evacuerà Kiev,” disse ancora. “E nessuno farà saltare alcun ponte senza la mia autorizzazione.” Gettò uno sguardo sulla carta topografica. Sull’insegna di Kiev racchiusa nel fiume che ormai era stato valicato dal nemico. “Se ci isolassimo, poi non saremmo più in grado di far giungere rinforzi e rifornimenti. La città finirebbe per morire da sola.”

Ucraina attese che l’eco di un’ennesima esplosione si ritirasse, e si portò al suo fianco. Gli rivolse uno sguardo fermo. “Perché dovremmo far arrivare altre truppe, quando ormai è chiaro che nemmeno l’intera Armata Rossa sarebbe in grado di far fronte a un nemico del genere fra le mura di Kiev?”

“Perché voglio proteggerti.” Russia la guardò negli occhi. “Dissanguare Kiev da uomini e soldati significherebbe condurti alla morte, e non ho intenzione di lasciar accadere qualcosa di simile.”

“Ma ormai non puoi più proteggermi. Io non ho più scampo e devi accettarlo.”

Bielorussia tornò a pestare un passo fuori dall’ombra, le fu di nuovo addosso con quei suoi glaciali occhi accusatori. “Non dire stronzate.” Le si piazzò davanti, alta e feroce. Strinse di nuovo i denti, non curandosi di un filo di capelli che vibrava affianco alle labbra. “Sei tu quella smidollata che crede di non avere più scampo. Ma noi siamo ancora qui, e solo per difenderti, per aiutarti a uscire dalla merda. Se non...”

“Ed è per questo che dovete lasciarmi andare,” le rispose Ucraina. “Dovete lasciare la presa, prima che io trascini anche voi in questa tomba senza uscita.”

Un pensiero trafisse Russia come una scheggia di ghiaccio, tornò a estraniarlo nella sua nera bolla di pensieri. E se Germania avesse previsto tutto questo fin dall’inizio? Quei pensieri lo risucchiarono, indurirono ogni nervo del suo corpo. Se la sconfitta di Ucraina fosse davvero solo un’esca per me? No, non possono chiedermi di accettare con leggerezza questa resa. La sconfitta di Ucraina dopotutto è anche una mia sconfitta. Non deve essere conquistata, non devono metterle le mani addosso, altrimenti sarebbe umiliante anche per me. Ma come faccio a proteggerla se persino lei si rifiuta di collaborare? Tornò quel breve tic alla palpebra. Quel fugace lampo di follia nei suoi occhi di ghiaccio sempre più persi, sempre più annebbiati e infossati nel baratro. Pur di impedire a Ucraina di fare di testa sua, potrei persino...

“Russia.” Ucraina gli sfiorò il braccio, attraversò quella barriera di disagio che brontolava attorno a Russia, e raggiunse i palpiti del suo animo, acquietandoli. Lo riportò a galla come aveva fatto prima Lituania. “Capisco come ti senti, capisco che ti spaventa il fatto di non avere il controllo, ma...”

“Io ho ancora il controllo.”

Moldavia voltò la testolina e sobbalzò, reagendo per primo a quello scatto. Gli occhietti impauriti.

Lituania fremette, inchiodandosi sul posto. Raccolse il braccio di Estonia, avvolse le spalle di Lettonia, e li fece arretrare, proteggendoli nell’ombra, dietro Bielorussia che non si era mossa.

Russia sfilò il braccio dalla mano di Ucraina e compì un passo all’indietro. Fronteggiò sua sorella con occhi freddi, come davanti a un nemico qualunque.  “Se sono qui a Kiev è proprio perché ho ancora il controllo di volgere questa battaglia a mio favore e di uccidere Germania prima che arrivi a Mosca. Se solo...”

“No, Russia.” Ucraina scosse il capo. “Non hai più il controllo. Non su di me, non sulla mia nazione. Ed è giunta ora che tu vada a Mosca, prima che sia troppo tardi. Perché se rimani qui troppo a lungo, allora finirai intrappolato.” I suoi occhi si annacquarono di tristezza. “Uccideranno anche te.”

In disparte, Bielorussia trasse un flebile soffio d’aria che le mozzò il fiato, facendola impallidire.

Gli occhi di Russia rimasero fermi su quelli di Ucraina. Attorno a loro crebbe un’aria più nera, un’ombra minacciosa che li inghiottì in un abbraccio di tensione. “E tu cosa vorresti fare rimanendo qua a Kiev, allora?” I pugni di Russia tremarono contro i fianchi. “Stare ferma e aspettare che Germania arrivi e che ti uccida? Credi che io possa permettere qualcosa del genere?”

“No,” rispose Ucraina. “Nemmeno io voglio morire. Ma non voglio nemmeno che Germania faccia del male a voi. Ed è per questo...” Inspirò a fondo. Raddrizzò le spalle, dimenticandosi del dolore al petto e alla schiena, ingigantì la sua ombra e s’impose con sguardo autoritario. Per la prima volta, parlò come se stesse dettando un ordine. “È per questo che ora voglio che tu prenda Bielorussia, che prenda tutti gli altri, che faccia evacuare Kiev e che ti ritiri a Mosca con il resto delle armate.”

Altre esplosioni tuonarono sul soffitto e una lampada si spense, accrescendo le ombre lungo le pareti. Su di loro si sgretolò una pioggerellina di cemento sbriciolato. Nessuno ci badò, nessuno si premurò di spolverarla dai vestiti o dai capelli, nemmeno Moldavia.

Lituania allentò la stretta protettiva attorno a Lettonia ed Estonia. Rimase a bocca aperta. “Cosa stai dicendo, Ucraina? Hai...” Compì un passo lontano dalla parete. “Hai davvero intenzione di consegnarti?”

Estonia e Lettonia incrociarono gli sguardi, e fra di loro schioccò un lampo di realizzazione. La lampada si riaccese sopra le loro teste, brillò come il pensiero che aveva colto entrambi.

Allora è questo che Ucraina intendeva quando ci ha detto che aveva in mente qualcosa e che noi non avremmo corso alcun pericolo, pensò Estonia. Ecco perché era così serena a riguardo. Tornò a posare lo sguardo su entrambi, catturato dall’aura intimidatoria di Russia e da quella più mite ma altrettanto magnetica di Ucraina.  Ma davvero la sua volontà potrà passare sopra quella di Russia?

Ucraina si posò la mano sul cuore ferito. “Kiev è la mia capitale.” Abbassò le palpebre. Il suo viso tornò bianco di tristezza, fra le ciglia luccicarono lacrime pure e cristalline in cui trasudava tutto il suo dolore. “E io non sono stata in grado di proteggerla, non sono stata in grado di difendere il mio paese e la mia gente. Io sono una nazione che ha perso la sua battaglia, ed è per questo che merito di capitolare.” Raccolse una mano di Russia e la tenne fra le sue, avvolta come un tesoro da custodire. “Ma rimango lo stesso tua sorella e tu mi devi permettere di proteggerti, dato che rimarrai mio fratello anche se saremo distanti e separati.”

Un violento brivido rovente trapassò Bielorussia e le accese una fiammata di rabbia all’altezza delle guance. Gli occhi indignati.  “E cosa credi che ti faranno una volta che sarai sotto le loro manacce? Quelli...” Lo stomaco le si annodò per il disgusto e la paura. “Quelli potrebbero costringerti a rimanere dalla loro parte, potrebbero farti il lavaggio del cervello, o torturati, o...” Le sue gambe tremarono. Dovette compiere un passo in avanti per tenere ben saldi i piedi a terra. “O...”

“Non puoi chiedermelo.” Russia non la lasciò finire. La sua espressione e la sua decisione nei confronti di Ucraina non mutarono. “Non chiedermi di abbandonarti, perché non farò mai una cosa del genere.”

“Non si tratta di abbandonarmi, ma si tratta di rispettare una mia scelta. La scelta di una nazione come te. Questo rimane sempre il mio paese, Russia. Finché sarò viva, sarò io ad averne la responsabilità. E nemmeno tu potrai passare sopra la mia volontà.”

Russia si morse l’interno del labbro. Affiorarono le immagini di Ucraina in ginocchio davanti a Germania e Prussia, circondata da Kiev in fiamme e ormai distrutta. Immagini delle sue mani legate, della sua testa china, della sua presenza lontana da lui, di quell’abbraccio in cui non avrebbe mai più potuto immergersi, delle parole di conforto che non avrebbe più udito, delle carezze che non avrebbe mai più fatto correre fra i suoi capelli, delle labbra che non si sarebbero mai più posate sulla sua guancia. Dentro di lui si spalancò un freddo senso di panico che gli diede l’impressione di finire risucchiato nel pavimento, la stessa angoscia che lo aveva spinto a tornare da lei durante la sacca di Uman. Il cuore accelerò, il viso divenne gelato, le pupille sempre più sottili e ristrette, il petto schiacciato dalla paura che non lo fece respirare bene. Un forte prurito gli attraversò le mani. Dietro il suo orecchio soffiò una vocina che gli intimava di impugnare la pistola e di spararle, piuttosto che permetterle di consegnarsi.

“Piuttosto che ti portino via da me,” disse Russia, assecondando quella voce, “potrei essere io quello a imprigionarti, lo sai? Potrei essere io quello a ucciderti prima che lo facciano loro.”

Estonia si portò una mano alla bocca, Moldavia si fece più piccolo, Lituania fece volare lo sguardo sgranato su Bielorussia, ma lei non cambiò espressione.

“Sarebbe onorevole,” continuò Russia. “Decisamente più onorevole rispetto a essere fatta prigioniera.”

La bocca di Lituania cadde aperta, incapace comunque di trarre anche un singolo respiro. Cosa sta... non avrà davvero intenzione di farlo? No, è sua sorella, non può farlo, non può ucciderla. Nemmeno uno come Russia sarebbe mai in grado di farlo. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che non era così.

Ucraina sospirò e socchiuse gli occhi, compì un lento gesto del capo, come se avesse annuito. “Bene, Russia.” La sua voce era calma. I suoi occhi ancora umidi, ma pacifici come specchi d’acqua. “Allora assumiti le responsabilità delle tue parole. Se vuoi davvero uccidermi, allora fallo. Io non potrei mai farti del male, non oserei difendermi contro di te, quindi non ti resta altro che fare un passo avanti e uccidermi. Se davvero quello che vuoi è tenermi protetta dall’Asse, sarebbe la soluzione più semplice, dato che non potrebbero conquistare il mio cadavere. Se è davvero questo che vuoi, allora fallo, io sono qui.” Sollevò il mento. Ebbe il coraggio di sorridergli teneramente. “Uccidimi.”

Altri bombardamenti rimbombarono fuori dalle mura del bunker, e nessuno reagì nemmeno con un tremito. Fra di loro cadde un’aria ghiacciata, troppo pesante per essere respirata.

L’espressione di Bielorussia si sciolse e anche i suoi occhi annegarono in un baratro nero. Il cuore spremette un crampo di paura, nella sua testa sfrecciò l’immagine del sangue di Ucraina spanto fra le dita di Russia. Compì uno slancio, tese il braccio. “Aspe...”

Lituania le strinse la mano, la trattenne. “No, ferma.”

Lei serrò il pugno, gli diede uno strattone. “Mollami, idiota.” Tirò un’altra volta ma il suo muscolo rammollito dalla paura cedette, la presa di Lituania resistette, e lo sguardo di Bielorussia vacillò. “Sta...” Tornò a girarsi verso suo fratello. “Russia, non...”

Russia e Ucraina si guardavano come se nel bunker fossero esistiti solo loro due. Una fitta barriera nera a dividerli dagli altri, ad allontanare i loro sguardi pressanti e increduli, e a tappare le loro orecchie dal frastuono dei bombardamenti. Gli occhi violacei di lui in quelli azzurri di lei. Occhi che erano nati dallo stesso sangue, occhi che avevano vissuto le stesse guerre, e occhi che avevano sognato una vita migliore attraverso lo stesso cielo fin da quando erano piccoli.

Russia raggiunse la sua pistola sul fianco, la estrasse dal fodero, sganciò il serbatoio – tutti i proiettili in canna –, lo fissò di nuovo, e tese il braccio, puntando la canna sulla fronte di Ucraina. Nessuno dei due mosse lo sguardo o batté le ciglia.

Lettonia sovrappose le mani alla bocca, trattenne un piccolo gemito di spavento, simile a un pigolio, e si nascose dietro Estonia. Estonia tenne il viso basso e si strinse a Lettonia, strizzando anche lui le palpebre per allontanarsi da quella visione.

Lituania lasciò la mano di Bielorussia, raggiunse Moldavia, lo prese in braccio, e gli coprì gli occhi. “Non guardare.”

Il piccolo annuì, si lasciò avvolgere la testolina, e si aggrappò alla sua giacca, senza emettere fiato.

Russia flesse la punta dell’indice, accompagnò il movimento del grilletto, e sollevò il cigolio che stridette attraverso il silenzio tombale del bunker. Visualizzò il colpo esplodere, la canna sputare il lampo, il proiettile trapassare Ucraina, uccidendola.

Ucraina tenne lo sguardo alto, si lasciò percorrere solo da un tremolio, e una riga di sudore le attraversò la tempia. Non abbassò gli occhi.

Russia si lasciò risucchiare in quegli occhi, prima che si chiudessero per sempre. Gli occhi di lei da bambina, così gentili e caldi nonostante il gelo della neve che arrivava alle loro spalle. Gli occhi di lei da ragazza che le erano rimasti sempre affianco mentre il suo paese stava crescendo, quando aveva rischiato il collasso, e quando era riuscito a rialzarsi. Anche quando tutto quello che Russia riusciva a vedere era il rosso del sangue versato dalla sua gente, c’era sempre quell’azzurro di speranza a dargli coraggio, e quella dolcezza innata che continuava a vedere qualcosa di buono in lui e nelle anime che incarnava. E ora stava per distruggerla.

Le labbra di Russia tremarono. Si inarcarono in un sorriso triste e arrendevole. “Non posso.”

Lettonia sbirciò da dietro il fianco di Estonia, Estonia riaprì gli occhi, Bielorussia riprese a respirare e allentò la tensione dei pugni, e anche Lituania sollevò il capo sulla scena.

Russia tolse l’indice dal grilletto, calò il braccio e tolse la pistola dalla fronte di Ucraina. “Non posso ucciderti.” Scosse il capo. “Non potrei mai farti del male.”

Ucraina sbatté le palpebre, sciolse l’immagine del foro della pistola spalancato davanti a lei. Reclinò il capo all’indietro e trasse un sospiro che le gonfiò il petto di sollievo, sciacquando tutta la paura che aveva ingabbiato il cuore e pietrificato i muscoli. I sudori gelati si ritirarono con una vampata di calore. Si posò la mano sul petto, grata di poter ancora stringere il battito del suo cuore, di sentirlo pulsare e tenerla in vita, rimbombando nelle orecchie.

La voce di Estonia s’infilò dentro quel suono. “Ma allora come faremo?” Si allontanò dal muro contro cui si era riparato assieme a Lettonia. “Ciò non toglie che il pericolo rimane, e che fra qualche giorno Kiev capitolerà. Dobbiamo trovare una soluzione se davvero vogliamo metterci in salvo.”

Lettonia lo seguì. “Possiamo ancora fuggire da Kiev,” propose, “almeno fino a quando Germania non sarà qui.”

Estonia scosse la testa. “Ma questo significherebbe lasciare Ucraina da sola. Se invece rimanessimo tutti assieme allora potremmo per lo meno combattere come abbiamo fatto a Smolensk e sfruttare il fatto di essere uniti.”

“No,” s’intromise Lituania. “Non funzionerebbe. Perché ormai Germania ha capito la nostra strategia, ha compreso che la nostra forza sta nell’unione.” Sistemò il peso di Moldavia raccolto fra le sue braccia. “E non ci darà una seconda occasione di sopraffarlo in quella maniera.”

Russia sollevò lo sguardo al soffitto, catturato dai rimbombi che avevano ricominciato a martellare, a far tremare la luce delle lampade e a sbriciolare sottili crepe attraverso il cemento armato. Tutta la paura della città invasa si riversò su di lui, gli artigliò il cuore e gli gridò nelle orecchie di aiutarlo, di uscire a salvare quella gente.

Russia sospirò. “D’accordo.” Rimboccò la sciarpa attorno alle spalle. “D’accordo, darò il permesso allo STAVKA di organizzare l’evacuazione di Kiev e di far saltare i ponti prima che altri tedeschi affluiscano fra le mura della città. Solo la Trentasettesima Armata rimarrà a combattere.”

Gli occhi di Ucraina si rianimarono. “D-davvero? Gra...” Gli sorrise. Si strofinò gli occhi umidi e commossi. “Graz...”

“Ma a una condizione.” Russia attese che l’attenzione di tutti fosse di nuovo su di lui. “Io aspetterò Germania qua con te.”

Prima che Ucraina avesse tempo di reagire e controbattere, Bielorussia si fece avanti. “Anche io.” Si posò la mano sul petto. Impietrì una posa nobile che non aveva nulla della sua solita scontrosità. “Anche io rimarrò qua. Se proprio vorranno prendersela, allora dovranno strapparla dalle nostre mani.”

Lituania compì un rapido passetto fra di loro continuando a reggere Moldavia fra le braccia, animato dal timore di essere lasciato indietro. “Anche io rimango.” Rivolse uno sguardo a Estonia. “Si tratterà solo di portare le armate verso est. Sarete in grado di farcela da soli.”

Estonia aggrottò le estremità delle sopracciglia, gli scoccò un’occhiataccia offesa, ma poi scosse il capo, tornò a fare il bravo e a rivolgersi a Russia dandosi un colpetto agli occhiali. “Ma signore, anche se lei dovesse rimanere qua con Ucraina, come spera di respingere Germania? Ormai si tratta di fermare un intero esercito, non una semplice nazione.”

“Non ho mai detto infatti che io rimarrò qui per battermi contro Germania o per cercare di contrastarlo.” Russia camminò in mezzo a loro, superò il tavolo, evitò una delle carte scivolata sul pavimento. Le buttò un occhio. Ancora segni rossi su Kiev, ancora la morsa dei tedeschi sempre più stretta e soffocante. “Ucraina ha ragione. Ormai la battaglia è persa, Kiev capitolerà nel giro di qualche giorno, ed è per questo che sto autorizzando la ritirata. Io permetterò che loro mi portino via mia sorella, rispetterò le volontà di Ucraina stessa.” Lo colse un brivido viscido ma delizioso. Riuscì a ridargli il sorriso, si condensò nei suoi occhi di nuovo sottili, folli e brillanti. “Ma il prezzo sarà salato.”

“P-prezzo?” balbettò Estonia. “Quale...” Storse la punta del naso. “Quale prezzo?”

“L’equo prezzo per avere invaso la nostra nazione a tradimento,” rispose Russia. “L’equo prezzo per avervi fatto del male e per aver invaso nazioni che sono sotto il mio possesso, l’equo prezzo per aver tentato di separarmi da voi, e l’equo prezzo per avermi portato via Ucraina.” Il suo sorriso si distese, allegro e deliziato come quello di un bambino contento. Si pregustò la faccia che Germania avrebbe mostrato davanti alla sua vendetta. “Un prezzo che Germania non si scorderà per il resto della sua vita. Proprio come gli avevo promesso.” Pregustò anche il momento in cui avrebbe avvolto le braccia attorno a quel corpicino così fragile da poterlo spezzare con una stretta sola. Il momento in cui avrebbe fatto correre le dita fra i suoi morbidi capelli castani, quando avrebbe percorso il profilo del viso fino al mento, quando gli avrebbe sollevato lo sguardo per incontrare quei bellissimi e terrorizzati occhi ambrati che sarebbero appartenuti solo a lui. In quel momento, Russia si sarebbe di nuovo sentito al sicuro. Avrebbe avuto di nuovo la certezza di non aver ancora perso contro Germania.

   
 
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