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Autore: Roberto Turati    16/02/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Acceber e i ragazzi erano finalmente scesi dalla collina del “Partenone” ed erano rientrati nella foresta, dirigendosi verso la strada battuta più vicina per rientrare nella zona sicura. Ora si erano fermati ad un torrente per fare scorta d’acqua: ognuno, strigendo la propria borraccia, stava chino sulla riva e la teneva sommersa perché si riempisse rapidamente. Rexar, intanto, beveva avidamente con degli scattanti guizzi della lingua e, ogni tanto, si distraeva a guardare i pesci, valutando se era il caso di provare ad afferrarne uno con una zampata.

«A proposito, gran bel lavoro con quel messaggio in codice, Jack!» si complimentò Laura, sentendosi in dovere di dare una spinta all’autostima latente dell’amico.

«Grazie! E pensare che imparare il codice binario era l’attività che trovavo più impegnativa all’università. Be’, almeno sono servito a qualcosa in questo viaggio: al di fuori dei numeri sono buono a niente» rispose tristemente lui.

«Ah, avrei scommesso che avrebbe attaccato con la depressione cronica!» commentò Chloe, alzando gli occhi al cielo, ma con fare sarcastico.

«Il nostro Einstein biondo si deprime troppo! – esclamò ironicamente Sam, alzandosi e andando a dargli una manata che avrebbe fatto male ad un toro – È vero che sei una mammola, infatti non sai resistere in bici neanche per mezzo metro, ma almeno sei quello che ha materia grigia per tutti e quattro!»

«Ahia! Che fai?! Così mi sfondi la schiena!» si lamentò Jack, massaggiandosi le spalle.

«Cos’è una bici?» chiese Acceber, incuriosita.

«È un mezzo di trasporto a pedali che si usa quasi dovunque nel mondo. Ma di solito solo i meno pigri o i più poveri si spostano con quella» spiegò in breve Chloe.

«A me sembra figo!» disse l’Arkiana, sorridendo.

«Credimi, Acceber: gli animali che si cavalcano qui su ARK sono molto più emozionanti!» rispose Laura, con sincera commozione.

«Ormai avete capito come sono io: qualunque cosa riguardi il mondo esterno mi sembra il massimo che si può immaginare, da quando ho conosciuto…» si bloccò e si fermò, senza motivo: sembrava che fosse diventata una statua di cera.

«Da quando hai conosciuto… chi?» chiese Sam, che aveva ancora voglia di parlare.

«Zitti! Ascoltate bene…» replicò Acceber. Perfino Rexar, ora, si era messo nuovamete in allerta.

I ragazzi sbiancarono, terrorizzati all’idea che un predatore di sorta si stesse avvicinando silenzosamente: ripensare all’infernale notte in cui avevano affrontato i troodonti li faceva ancora rabbrividire.

«Cosa c’è?» osò domandare Jack, a bassa voce.

«Non sentite delle… voci? Non sono Arkiani, sono stranieri come voi»

«Come hai fatto a sentirli? Io non me ne sarei mai accorto!» chiese Sam, sollevato dalla notizia che si trattava di persone e non di carnivori.

«Anni di pratica di caccia» rispose Acceber, con una punta di orgoglio.

Comunque, tutti si zittirono e stettero in ascolto: finalmente, anche i ragazzi cominciarono a sentire delle voci. Voci che parlavano nella loro lingua. Voci che si stavano avvicinando. Voci che riconobbero.

«Sono Helena e gli altri! – esclamò Laura, raggiante – Acceber, sono i nostri contatti!»

«Quelli con cui parli sempre con quel congegno con un’antenna e dei numeri sopra?»

«Sì, loro! Forza, aiutaci a raggiungerli! Credo che ti piaceranno, inoltre»

Così, si incamminarono in direzione delle voci, facendosi strada fra cespugli e ceppi.

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Helena stava parlando ai suoi amici di qualcosa che la divertiva sempre, nell’ambito della sua carriera da biologa: gli animali poco conosciuti. Puntava sempre su quelli più strani e misteriosi in assoluto, nel tentativo di impressionare anche Rockwell, che era un tipo a cui serviva vedere cose al di là dello straordinario per rimanere senza parole. I quattro non si facevano problemi a conversare ad alta voce, perché sapevano che se si fosse avvicinata una minaccia, i velociraptor si sarebbero agitati e ora i quattro rettili procedevano tranquilli.

«Allora, questo vi soprenderà: vi dice niente il nome “verme bobbitt”?» chiese.

«Assolutamente no» risposero gli altri.

«È un verme marino che si nasconde sotto la sabbia e afferra di scatto i pesci quando gli passano sotto. Li trascina nella sua tana e… be’, nessuno sa esattamente come li mangia. A dire la verità, le sue mandibole sono così affilate che, spesso, invece di afferrarli li taglia in due»

«Fa quasi paura» commentò Nerva.

«Qual è il nome scientifico?» chiese Rockwell

«Eunice aphroditois. È bruttissimo, però quando il suo esoscheletro è allo scoperto fa un bel riflesso colorato»

«Quanto è grosso?» le domandò Mei.

«Più che altro è lungo. Siccome dalla sabbia emerge solo la testa, sembra minuscolo, ma in realtà misura tre metri»

«Il nome è ridicolo. Perché l’hanno battezzato così?» fu la nuova domanda di Edmund.

«Il biologo marino che l’ha scoperto circa un decennio fa l’ha chiamato “bobbitt” perché gli ricordava un caso giuridico di quel periodo. Questo verme taglia in due le prede, dunque a lui è venuta in mente Lorena Bobbitt, una psicopatica statunitense che aveva… ehm…»

«Cosa?»

«Tagliato la pannocchia del marito e l’aveva gettato in un campo di notte. Ecco, l’ho detto!»

Tutti la guardarono con aria sconvolta.

«Devo dire che non sentivo niente di così scandaloso da quando…» iniziò Rockwell, ma si interruppe quando sentirono delle voci che li chiamavano a gran voce.

«Ehi, siamo noi! Di qua!»

Poco dopo, dal fogliame apparvero i quattro ragazzi, accompagnati da un’Arkiana ancora più giovane di loro che cavalcava un tilacoleo.

«Ragazzi! Finalmente ci ritroviamo!» esclamò Helena, balzando giù da Usain. Anche i suoi amici scesero dalle cavalcature e li raggiunsero.

«Vedo che siete ancora tutti d’un pezzo, mi fa piacere!» commentò Helena.

«Il merito è della nostra fantastica guida! Vi presento Acceber»

Acceber, dal canto suo, era nel pieno di uno dei suoi momenti di euforia pura e si stava già presentando:

«Piacere di conoscervi, nuovi stranieri! Ogni tanto Laura ha parlato di voi, non vedevo l’ora di incontrarvi! Tu chi sei?»

«Helena Walker e piacere mio»

«E… un momento, ma tu sei…»

«Sì, il dottor Edmund Rockwell. Qui la mia fama mi precede, ormai. Incantato, giovinetta»

«Non ho mai avuto bisogno di farmi visitare da te, per fortuna, però tutti non facevano che nominare te e le tue medicine! Adesso si fa la stessa cosa con la tua assistente, anche se non così tanto. È fantastico vederti di persona!»

«Ehi, sembra che abbiamo trovato la tua ammiratrice numero uno, Edmy!» lo punzecchiò Helena, trattenendo le risate a fatica.

«Non chiamarmi Edmy! È orrendo!»

Acceber passò a Mei. La fissò un attimo, senza dire niente, poi sembrò intuire chi fosse:

«Un momento… pelle giallognola… occhi a mandorla… sguardo da brividi…»

A dire la verità, in quel momento Mei non aveva affatto uno sguardo da brividi. Anzi, era in imbarazzo e non riusciva a nasconderlo: quella specie di analisi la metteva a disagio. Le sue guance stavano diventando rosse.

«Oh, dèi! Sei la Regina delle Bestie? Intendo… sei veramente lei?!»

«Sì» fu la laconica risposta.

«Accidenti, uno dei miei più grandi sogni fatti realtà! Posso farti una domanda? Quando eri sull’isola volevo fartela così tanto…»

I ragazzi, intanto, si stavano divertendo un mondo a guardare l’allegria briosa di Acceber che travolgeva gli autori dei diari come un fiume in piena.

«Ehm… sì, perché non dovresti?» rispose timidamente Mei.

«Qual è il numero massimo di bestie che hai avuto? Voglio assolutamente diventare una domatrice grandiosa come te, un giorno!»

Mei rifletté qualche secondo, poi rispose:

«Non ne sono più sicura, ma credo di essere arrivata a sessantasette animali, fra quelli da battaglia a quelli da soma. Ma non hai bisogno di usarmi come esempio, ragazzina! Io cercavo solo di sopravvivere, e senza disturbare la tua gente»

«Sessantasette?! Presi da sola?!»

«Sì»

«Sei così mitica!»

Acceber le si gettò addosso e la abbracciò per dei lunghissimi secondi, facendo aumentare smisuratamente l’imbarazzo di Mei. Tutti, ormai, morivano dal ridere, anche Rockwell. A quel punto, Acceber passò a Nerva, che stava mentalmente supplicando tutti gli dèi del suo panthéon affinché il suo travestimento reggesse.

«Tu chi sei?»

Gaius lanciò una rapida occhiata ad Helena, ed Helena gli lanciò un’occhiata con cui lei intendeva dirgli “sii naturale”.

«Caio Giulio Cesare – rispose lui, infine – Chiamami come vuoi tu: è uguale»

«Uhm… forse preferisco Cesare. Piacere di conoscere anche te! E, gente, lui è Rexar! – continuò, indicando il tilacoleo – L’ho scelto per la mia Prova della Maturità. Non mi sono ancora fatta tatuare la sua immagine sulla pancia, ma un giorno ci riuscirò!»

«Si può accarezzare?» chiese Helena.

«Certo! È abbastanza coccoloso con la gente»

Helena, strofinò affettuosamente le guance del leone marsupiale, che in risposta la leccò, inzuppandola di bava. Dopo l’ultima, sommessa risata, Laura raccontò brevemente della scoperta che avevano fatto al Partenone. Helena ed Edmund si fecero subito attenti.

«Oddio… dopo tutto questo tempo… salta fuori che i piedistalli sono girevoli! Se l’avessimo capito allora non saremmo solo tornati a casa, ma avremmo anche scoperto il Tesoro!» fu il ragionamento allibito di Helena, alla fine del racconto.

«Chissà a quali rivoluzionarie scoperte potrebbe mai condurre il genere umano! – rimuginò Rockwell, sognante – Se solo mi fossi concentrato di più su questo argomento, due anni fa!»

«Ehi, non è colpa vostra! – li consolò Laura – Neanche noi ci saremmo arrivati, se Jack non si fosse accorto che quelle incisioni sono il codice binario! E, a proposito…voi venite dall’avamposto delle Frecce Dorate e il manufatto più vicino è là… per caso l’avete già voi? Mi dispiacerebbe se foste costretti a tornarci per seguirci…»

«Rilassati, ragazza: ho convinto il capo, la signora Anaitat, a consegnarmi il manufatto di cui è la custode. Lo chiamano “Manufatto dell’Abile”»

«Oh, meno male!»

«Allora, ragazzi, ripartiamo?» chiese Acceber.

La nuova destinazione era il monte Allics, impervia montagna rocciosa e sede della tribù delle Aquile Rosse, maestri scalatori e commercianti per via aerea. Il piedistallo per il Manufatto del Furbo si trovava al centro di una città pre-arkiana in totale rovina, su una sporgenza vicino alla vetta dell’Allics. Per arrivarci, avrebbero prima attraversato la giungla nel Sud-Est dell’isola, uno degli ambienti più selvaggi di ARK. Avrebbero raggiunto il villaggio delle Rocce Nere, la tribù locale, dove avrebbero chiesto il terzo manufatto.

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Gnul-Iat aveva mandato bestie da ricerca dappertutto: era solo questione di tempo, prima che una di loro trovasse Acceber e gli indicasse la strada. Ma, in attesa di quel momento, il figlio di Drof aveva espresso un desiderio molto chiaro:

«Oggi uccideremo un’allegra famigliola e lo faremo come solo noi siamo capaci: con stile! Ho già in mente ogni fase dell’esecuzione» disse a Sotark, con aria sognante.

Il suo socio, tenendo le proprie possenti braccia incrociate, ascoltava senza mai proferire parola e alzava gli occhi al cielo: nonostante tutto il tempo che avevano passato insieme, non si era abituato del tutto al gusto malato che Gnul provava anche solo nel premeditare la morte di una persona: quello l’aveva sempre disgustato e l’avrebbe sempre fatto. Eppure, non lo abbandonava mai: Gnul-Iat l’aveva salvato dall’ex-amante di sua moglie, quindi era in debito con lui.

«Poco distante da qui vive una coppia solitaria e la moglie è incinta. Non ho idea di quanto manchi per il moccioso, ma sicuramente poco, visto il pancione»

A sentire quello, Sotark non riuscì a trattenere una critica:

«Aspetta… hai intenzione di uccidere anche il bambino?»

«Certo. Perché? Non l’ho mai fatto con un marmocchio, così ho deciso che questa sarà la prima volta. Qualcosa in contrario?»

«Uhm… sì»

Gnul-Iat si accigliò:

«Non ti è mai sbattuto niente delle nostre vittime. Perché adesso rompi per un minuscolo ammasso di carne da macello che non è neanche venuto al mondo?»

«Niente di che, è solo che quest’idea mi pare… insensata»

Gnul lo fissò con uno sguardo per metà perplesso e per metà infuriato; poi, però, gli venne un’intuizione e rise, compiaciuto.

«Aaaaaaaaah! Ho capito! A te rode il fegato perché ti fa venire in mente che anche tu avresti potuto avere il tuo moccioso personale, se tua moglie non fosse stata una tale…»

«Non ti permettere! E comunque… sì, mi hai scoperto. È per quello»

Gnul-Iat tornò serio.

«E va bene. Sei pur sempre il mio socio, quindi ti farò questo piacere. Ucciderò subito solo lui e lei… diciamo che non ne uscirà illesa, ma potrà continuare a vivere la sua vita con il mostriciattolo e con un trauma al suo fianco. Ti va bene?»

Sotark sospirò:

«Sì, può andare»

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Odlanir Icisrep, il padrone della casa isolata nella foresta e in riva ad un torrente, uscì con un secchio di legno pieno di piccoli pezzi di ortaggi assortiti per riempire le mangiatoie del suo gregge di ovis, unito a due equus e qualche fiomia, radunato nella vasta recinzione che aveva costruito lì accanto. Aprì il cancello e, come versò il cibo nelle mangiatoie, gli animali si precipitarono per mangiare, accalcandosi e comprimendosi, rischiando quasi di investirlo. Con una serie di spintoni, riuscì a tornare fuori e si richiuse il cancello alle spalle. Si avviò per rientrare in casa, quando sentì un fischio. Proveniva dalla foresta. Per precauzione, corse di nuovo al recinto e raccolse un’accetta di metallo che usava per fare legna e si tenne pronto a difendersi contro eventuali minacce. Ma mai si sarebbe aspettato che dal fogliame sarebbe schizzato fuori un rampino che lo impalò all’addome e fuoriuscì dalla sua schiena. Qualcuno l’aveva scagliato con una balestra e l’aveva centrato. Dopodiché, quel qualcuno riavvolse il cavo, trascinando il poveraccio urlante nella foresta. Si ritrovò lungo disteso, di fronte ad un ragazzo sfregiato e ad un gigante con barba e capelli incolti.

«Ciao, deficiente – lo salutò Gnul – Ovviamente non mi conosci, ma per la cronaca sono il Ladro di Impianti. E lui è il mio socio»

«Tu… il… il… – boccheggiò Odlanir, sputando sangue – Bastardo! Mia moglie…»

«Ah, ti puoi rilassare, amico: dipendesse tutto da me, la tua donna e l’esserino che si porta in corpo sarebbero già carne morta, ma il mio socio ha il cuore tenero: mi ha convinto a lasciarli in vita. Ma non credere che non le farò niente… e adesso crepa!»

Queste furono le ciniche parole di Gnul-Iat, prima di ficcargli un sasso in bocca, afferrarlo per le caviglie e trascinarlo un po’ più in là, dove una decina di compsognati attendeva pazientemente un ordine. Gnul emise un lieve fischio indicando l’agonizzante Odlanir. I compsognati gli saltarono subito addosso e, un pezzettino di carne alla volta, iniziarono a spolparlo. Le sue grida erano attutite dal sasso e non cercava neanche di sfilarselo dalla bocca: era troppo impegnato a cercare di cacciare i compsognati, che lo trucidavano con la voracità di una bestia grande venti volte loro. Alla fine, Sotark volle porre fine alle sue sofferenze e gli infilzò il cranio con un coltello. Gnul non disse niente e, soddisfatto, prese il suo pugnale e strappò l’Impianto della Maturità dal polso di Odlanir.

«E, adesso, andiamo a salutare sua moglie!»

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Incrociarono Aizitel, la moglie di Odlanir, nello spiazzo di fronte alla casa: i rumori di prima l’avevano allarmata. Appena vide Gnul-Iat sporco di sangue e sorridente, intuì cosa poteva essere successo al marito e, urlando, si chiuse in casa. Ridendo, Gnul-Iat fischiò e chiamò un triceratopo; gli ordinò di caricare la parete della casa. Il dinosauro cornuto sbuffò, prese la rincorsa e partì. Tutta la parete crollò e l’intera casa tremò. La donna cadde a terra e si coprì la testa, temendo che qualche blocco di pietra del soffitto le cadesse in testa. Non fu così. Davanti a lei c’era un triceratopo che scuoteva la testa. Apparve un giovane sui diciotto anni che le rivolse un sorriso sadico.

«Ciao, dolcezza. Siamo in dolce attesa, eh?» ridacchiò lui.

«Stammi lontano! Cos’hai fatto a mio marito?!»

«Niente… ho solo fatto di lui uno spiedo e l’ho regalato ai miei compsognati. Tu sei stata fortunata, invece»

«Perché?»

«Perché il mio socio ha voluto che risparmiassi la cosa che hai nella pancia. Il che sta a significare che non posso ucciderti. Vorrei tanto prendere il tuo innesto, ma non credo che sia salutare per uno che è vivo. Cosa mi posso inventare? Uhm…»

Il suo sguardo cominciò a passare continuamente da una parte all’altra del corpo della donna terrorizzata. Ragionava ad alta voce per impaurirla:

«A cosa potresti rinunciare senza conseguenze? Uhm… occhi? No, troppo sangue. Naso, magari? Potrebbe essere un’idea, ma sembreresti un mostro… ho trovato! Le orecchie!»

Prese di nuovo il coltello.

«Non mi toccare!» urlò lei, mentre le si avvicinava. La stordì con una forte testata e spostò i suoi capelli dietro le orecchie.

Sotark entrò in tempo per vedere il suo socio che, segando freneticamente, tagliava le due orecchie della donna, che urlava e piangeva emettendo degli squittii fastidiosissimi. Ebbe compassione di quella poveretta.

«Hai finito?» chiese, disgustato, mentre Aizitel si rannicchiava sul pavimento singhiozzando e premendosi i due buchi che avrebbero sostituito le sue orecchie per sempre.

«Sì, finito. E mi sono divertito come non mai! Che c’è?»

«Uno dei nostri dimorfodonti è tornato. È agitato. Sai che significa, vero?»

Gnul rimase di stucco:

«Acceber?! Sappiamo dov'è?!» era emozionatissimo.

«Sembra di sì»

«Andiamo subito da lei! Finalmente i miei otto anni di preparazione daranno il loro frutto!»

«Ehi! Prima dà delle bende a questa donna!»

«Fallo tu, raggiungimi dopo. E non dimenticarti di prendere le bestie di questi tizi: eravamo giusto a corto di ovis - a quel punto, si rivolse ad un interlocutore immaginario - Attenta, sorellina, la caccia è aperta e io sono sulla tua pista!»

Il figlio di Drof chiamò a gran voce un tapejara, balzò agilmente sulla sua groppa e partì, facendosi guidare dal dimorfodonte che aveva trovato Acceber. 

   
 
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