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Autore: Enchalott    23/02/2019    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sorpresa! Due aggiornamenti in pochi giorni, per rimediare alla mia lunga assenza. Grazie ha chi ha ancora la costanza di seguire e lasciarmi un parere. Non posso esprimere quanto sia importante. ^^

L'oceano blu.

Il principe Anthos si arrestò sul ripido sentiero che declinava verso sud, segnando l’ultimo tratto dell’impervia catena montuosa del Sirideain, che racchiudeva il territorio di Jarlath.
Lontano, sotto il cielo cristallino e ormai quasi sgombro dalle pesanti nubi cariche di neve del remoto Nord, ondeggiavano scaglie luccicanti di oceano. Il Pelopi si profilava all’orizzonte, confine estremo della sua terra, unico mare di Iomhar.
Sulle sue labbra si disegnò un lieve sorriso.
Il clima era diventato più sopportabile via via che si era allontanato dalla capitale, ma il freddo rimaneva intenso e la strada risultava pesantemente ghiacciata nelle zone d’ombra. L’aria era ancora polare ed estremamente tagliente. La meta era ancora molto lontana. Quella meta soprattutto.
Abbassò il lungo cappuccio di lana candida e i suoi capelli biondi si scompigliarono, sciolti al vento, sferzandogli il viso abbronzato. Si chinò a sfiorare il collo caldo del suo purosangue e l’animale rispose con un nitrito leggero e compiaciuto.
“Siamo a un bivio, Illtyd” sussurrò al suo orecchio appuntito e attento “Che cosa scegli, montagna o mare?”
Poi la sentì.
La vibrazione magica proveniente da est, lontana ma inconfondibile. Era molto potente e terribilmente maligna. La sua oscurità gli echeggiò nel petto e il Medaglione, posato sulla pelle nuda, divenne gelido come l’inverno che aveva alle spalle e nell’anima.
“Maledizione…” ringhiò tra i denti, fissando l’orizzonte perso tra le cime vaghe e rossastre dei Rhaida.
Le iridi color ambra scintillarono di energia e furia. Socchiuse gli occhi ed espirò, concentrandosi profondamente, aprendo la mente e proiettandosi oltre la contingenza terrena.
Il mondo si dissolse in quell’atto.
C’era una ferita aperta nel cuore dei rilievi che si sviluppavano come pareti massicce in direzione di Elestorya. Era buia e invalicabile, inferta da poco e possedeva la tinta fosca della morte. Una forza estranea aveva nuovamente osato intromettersi nei suoi progetti, sbarrando la strada alla prescelta in modo drastico e improvviso.
Una ruga nervosa gli si incuneò tra le sopracciglia. Forse si era mosso troppo tardi: aveva perso tempo prezioso per ascoltare tutte le guardinghe stupidaggini di Urien, le paure infondate della ragazzina di Odhran e le scuse patetiche di quell’individuo inutile che era la sua spia a Erinna. Che avrebbe ucciso senza neppure sporcarsi le mani alla prima occasione.
Si inoltrò maggiormente nella visione, nel sole del lontano mattino che stava sorgendo su ciò che restava di Tasautia. Strinse i pugni e individuò il ponte crollato. Non era del tutto in rovina, ma l’ingresso orientale era sprofondato nel baratro sottostante e aveva trascinato con sé almeno metà della struttura nella disastrosa frana che lo aveva abbattuto. Alcune delle robuste volte di sostegno, tuttavia, erano ancora integre, così come l’entrata occidentale, che presentava solo qualche incrinatura.
Un lavoro frettoloso e poco accorto. Se fosse stato lui ad occuparsene, tutte le maestose arcate si sarebbero disintegrate all’unisono, invece l’autore del misfatto non era stato sufficientemente potente da portare a termine l’impresa.
Forse perché si trovava molto lontano da lì o forse perché la sua magia non era abbastanza sviluppata. Ne fiutò la traccia residua e vi riconobbe qualcosa di familiare.
Non era la prima volta che accadeva. Se non avesse avuto altri pensieri e la Profezia alle calcagna, avrebbe certamente indagato in modo più approfondito sull’importuno avversario. Si disse che era giunto il momento di scoprire l’identità di chi stesse palesemente infilandogli i bastoni tra le ruote. Ma, prima di ciò, era assolutamente necessario accertare se…
La visione si schiarì ulteriormente. C’erano dei sopravvissuti al disastro e, fortunatamente, tra essi era presente la principessa.
Bene. Un punto a suo vantaggio.
Certamente Adara non avrebbe desistito e avrebbe proseguito il viaggio: il suo uomo a palazzo gli aveva raccontato che la giovane era decisamente coraggiosa e altrettanto testarda, pertanto avrebbe raggiunto il Nord, nonostante la situazione drammatica in cui era venuta a trovarsi suo malgrado.
Il sorriso di Anthos tornò a farsi vedere, beffardo e impudente.
Usò la logica. Era altrettanto indubitabile che le era rimasta soltanto un’alternativa per giungere a Jarlath: attraversare il Pelopi. Tutte le altre strade erano impraticabili o infinitamente lunghe, pertanto quella scelta era obbligata dall’urgenza della missione.
Il reggente aprì gli occhi, sciogliendo la contemplazione e fissando intensamente la distesa d’acqua lontana. Il suo sguardo brillò d’oro scuro.
“Hah, Illtyd” comandò, spronando il cavallo verso sud.
 
 
Il mare era un’immensa creatura blu cobalto e l’onda lunga e rabbiosa si abbatteva sulla spiaggia di ciottoli con voce baritonale. Il vento teso spirava da sud e increspava la superficie oceanica in creste di schiuma, facendole rivoltare durante la corsa sinusoidale verso la riva.
Il villaggio di Vaneta, rintanato in un’insenatura poco visibile, era un piccolo agglomerato di case di legno, che scintillavano multicolori sotto i raggi del sole algido di quel giorno. Era l’unico centro abitato della zona e aveva la fortuna di possedere un porto dove anche le imbarcazioni commerciali più grandi riuscivano ad attraccare, al sicuro dai frangenti che flagellavano impietosamente la costa durante le frequenti burrasche. Era sopravvissuto solo grazie al viavai costante di navi e di uomini, che non avevano a disposizione altre più gradevoli opzioni.
Tuttavia, aveva anche la sfortuna di essere il solo punto di riferimento in un vasto nulla: pertanto, era frequentato sia dai mercanti sia dai pirati che infestavano l’oceano e, talvolta, era praticamente impossibile distinguere gli uni dagli altri.
Tutto ciò perdeva d’importanza tra le mura scheggiate color limone dell’unica locanda, poeticamente denominata Aerandir in onore dei naviganti: i marinai, indipendentemente dal loro livello di onestà, andavano a riempirsi lo stomaco di cibo gustoso e ad annullarsi il cervello con il bjorr, si radunavano lì per giocare a dadi e, quindi, per menare le mani e persino per scambiarsi informazioni e pettegolezzi.
“Non farò salpare la mia nave almeno fino alla fine della settimana, per tutti i dannati!” stava sbraitando un omone corpulento, tra un sorso e l’altro di alcolico color caramello “Questo sole non è che un inganno del dio del mare, il buon vecchio Manawydan, che vorrebbe mettersi in tasca il mio carico! Ma nossignore, non mi farò fregare, potete scommetterci!”.
“Porti la barba lunga, Finbar, ma parli come una donnicciola superstiziosa!” lo rimbeccò un individuo legnoso, con le braccia ricoperte di tatuaggi e un foulard lercio e sdrucito al collo. “Non andare in giro a raccontare che sei mio fratello o mi farai fare una pessima figura! Non ci tengo!”
“E dove sono le prove che sono tuo fratello, eh!?” ribattè il primo, sghignazzando e battendo la manona sul banco, con il conseguente tintinnio armonico di tutte le pinte ricolme di bjorr posate sul legno macchiato.
“Qui siamo tutti fratelli, amico!” fece eco una terza voce, innalzandosi tra gli astanti rumorosi e divertiti. “Tutti figli del mare!”
“E amanti di tua sorella!” gracchiò un quarto, con la voce impastata di chi ha già dato fondo a svariati brindisi.
I presenti proruppero in altre risate e commenti più o meno volgari.
Lungi dall’offendersi, il colosso barbuto agitò la mano con fastidio, tracannando un altro sorso di bevanda tiepida e tergendosi la schiuma dalla bocca.
“Aah!” grugnì “Non capite niente! Siete agili con la lingua, ma vedo che anche voi siete rintanati qui come femminucce a ubriacarvi!”
“Eh, ma io non ho certo timore di Manawydan e del suo esercito di mostri squamati!” intervenne un individuo dall’aspetto dimesso ma dall’aria scaltra, che portava in testa un fazzoletto di lucida seta nera e un orecchino dello stesso colore al lobo sinistro.
“E’ un’altra la ragione che mi sta trattenendo in questa fogna più del dovuto. E credo che sia la stessa vostra, al di là delle battute scontate”.
Nel locale i rumori si affievolirono di colpo e un imbarazzante silenzio scese tra gli astanti, che tuffarono i volti nei boccali quasi in simultanea.
Ci fu un lungo minuto di spiacevole mutismo.
“Beh…” bofonchiò un ragazzetto lentigginoso appollaiato su uno sgabello, vincendo il momento scomodo calato sulla locanda “Ma quella è solo una diceria, no?”
Finbar scrollò le spalle, allungando il recipiente per avere altro bjorr.
“Per niente, giovanotto” puntualizzò grave “Se quella nave è stata avvistata, bisogna solo sperare di non incontrarla… né ora né mai”.
Gli altri lo approvarono con un mormorio di partecipazione.
“Stai parlando della leggendaria Xiomar per caso?” domandò la donna prosperosa che serviva dietro al bancone, spillando con cura l’alcolico “Secondo me sono tutte fandonie, nessuno l’ha mai incrociata qui sul Pelopi”.
“Un corno!” borbottò l’omaccione barbuto “Vorrai dire che nessuno è mai tornato indietro per raccontare di averla incrociata”
La donna sgranò gli occhi verdi, stupefatta nel vedere un tale ossequioso terrore nelle espressioni degli avanzi di galera che ogni giorno sfidavano le onde e venivano a riempire il suo locale.
“Io l’ho vista…” azzardò qualcuno al fondo della sala.
Tutti si voltarono in quella direzione, allibiti e incuriositi.
L’uomo che aveva parlato aveva il viso abbronzato e cotto dalla salsedine. Portava una barba corta e curata, ormai striata d’argento, e i capelli castani e ondulati erano raccolti in una corta treccia legata con un fermaglio d’osso. Al collo portava una vistosa pietra marina verde, incastrata in un filo d’ottone che le girava laboriosamente intorno. Indossava una camicia rossa, aperta sul petto solido e sigillata in vita da una stretta fascia nera, dalla quale spuntava l’impugnatura lavorata di uno stiletto.
Il suo aspetto non era quello di un fanfarone o di un mentecatto, pertanto nessuno osò rinfacciargli la possibile smargiassata.
“Non so quale dio dover ringraziare, così li benedico tutti ad ogni risveglio” continuò lui, posando il coltello da carne sul tavolo e sollevando uno sguardo fermo verso il suo numeroso pubblico. “Ero solo un mozzo quando il vascello su cui ero imbarcato ha intercettato la Xiomar laggiù, sul mare blu. Ho ancora nelle pupille il garrire della sua bandiera nera con il serpente di mare avorio, avvinghiato al pugnale ricurvo. Lei era dannatamente veloce con quelle sei vele color sangue spiegate e altrettanto terrificante con quel rostro di prua spianato e baluginante verso di noi…”
Tutti stavano trattenendo il respiro e persino i bevitori più accaniti avevano smesso di dedicarsi al loro passatempo preferito.
“Non ho idea di che cosa sia successo in effetti” proseguì l’uomo “Forse, semplicemente, quella non era la nostra ora. Ma quella maledetta nave è incappata in una delle correnti traverse del Pelopi, le conoscete tutti no? Sono infide e improvvise, non prevedibili. Ebbene, quella è giunta provvidenziale e l’ha rallentata, dandoci il tempo di fuggire. Eravamo decisamente più leggeri della Xiomar e anche più motivati, così abbiamo messo tra noi e quei demoni dell’acqua salata svariate miglia. Quando abbiamo osato gettare un’occhiata al di sopra delle nostre spalle, non c’era più traccia degli inseguitori. Evaporati come la nebbia al mezzogiorno”.
Seguì un silenzio quasi assordante. Dall’esterno proveniva il familiare rumore della risacca, come a sugellare quella storia tanto appassionante.
“Tu… tu hai visto anche lui?” domandò il ragazzo che prima aveva pensato a quella nave come a una sciocca ciancia da osteria.
L’uomo in rosso scosse mestamente la testa e gli anelli che erano appesi in coppia al suo orecchio scampanellarono come l’ending di una vecchia canzone.
“Parli del suo capitano, Tsambika, vero? No… né lui né la sua ciurma di anime perse. Se devo dire la mia, è meglio così. Un incubo in meno da dimenticare” concluse, rituffando le posate nel piatto.
I presenti si rilassarono poco alla volta e presto tornò a farsi udire il classico vociare da taverna: quasi tutti i discorsi, però, vertevano sulle imprese del pirata che da almeno quindici anni imperversava sul Pelopi, avvolto da un fitto mistero. Tsambika attaccava e spariva, era crudele e generoso, giovane e bellissimo o anziano e malinconico, aveva la coda o le ali o gli occhi di fuoco. La verità era che nessuno sapeva nulla di lui.
“Era proprio necessario attirare l’attenzione su di te, Dalian?” domandò la donna che era seduta difronte al loquace testimone dell’esistenza della Xiomar e aveva tenuto la bocca chiusa per tutta la durata del racconto.
“Andiamo, Bicks…” rise lui “Mi stavo annoiando a morte con tutte quelle chiacchiere insulse. E poi non ho affatto raccontato una panzana, devi concedermelo!”
Lei sbuffò, infastidita, sollevando il bicchiere.
Nonostante avesse fatto di tutto per mantenere un basso profilo e non attirare sguardi indesiderati, era bellissima. Dal foulard bordeaux annodato alla nuca sbucava una lunga treccia corvina, che le scendeva fino alle reni. Gli occhi a mandorla, di velluto nero, spiccavano sulla pelle di porcellana e le sue labbra erano piene e voluttuose.
Era avvolta in un mantello marrone scuro, che celava le forme snelle e flessuose, e portava un paio di stivali aderenti al ginocchio.
Allungò il braccio per strappare un pezzo di pane e al polso destro luccicò un bracciale alla schiava d’oro massiccio. L’altra mano era celata sotto alla cappa e stringeva preventivamente un pugnale ritorto.
Realizzando che nessuno prestava loro più alcuna considerazione, Bicks si rilassò.
“Piuttosto” disse “Hai trovato un ingaggio in questo buco di mondo o il vento contrario e la paura stanno vincendo la partita?”
“Non ancora” replicò Dalian “Ma ho inteso che c’è parecchio movimento. Ci conviene aspettare ancora un po’”.
“Spero che ne valga la pena” commentò lei dura.
 
 
 
 
Non aveva idea di quanto tempo fosse realmente trascorso dal suo incontro con il Nemico, che l’aveva condotto in un luogo non facilmente identificabile.
Shion si era sentito traslare, come se non avesse avuto corpo, e si era ritrovato in quella stanza sontuosamente arredata ma priva di uscite. Aveva tastato con cura le pareti e le assi di legno lucido del pavimento, ma non si era aperto nessun passaggio segreto. Aveva dedotto così che la camera doveva essere sigillata dalla magia, abbandonando ogni speranza di fuga.
Il fuoco scoppiettava costantemente nel camino senza esaurirsi, ma il principe avvertiva comunque il rigore della temperatura, pertanto aveva ipotizzato che potesse essere tenuto prigioniero nella terra dei ghiacci. Anche il sontuoso letto a baldacchino era arricchito di spesse coltri di morbida pelliccia e di preziosi velluti, adatti a un clima particolarmente inclemente.
Il cibo gli veniva servito con regolarità ed era cucinato con la raffinatezza speziata tipica del Nord, così come il vino tagliato con aromi che gli erano sconosciuti.
Per qualche tempo aveva rifiutato i pasti, meditando di lasciarsi morire di fame, ma poi, una volta, era apparsa con le vivande a lui destinate una ragazza giovanissima, tremante e in lacrime. Lo aveva supplicato di mangiare e gli aveva mostrato le braccia delicate e la schiena candida ricoperte di piaghe, spiegandogli che, ogni volta che le pietanze tornavano indietro intatte, lei veniva duramente punita per non essere riuscita ad accontentarlo.
Shion aveva ceduto. Il Nemico - così aveva ribattezzato l’ombra che lo aveva avvinto - possedeva armi convincenti e non usava necessariamente la violenza. Ma quando non ricorreva ad essa diventava, se possibile, ancora più spaventoso.
Lo aveva rivisto soltanto in un’occasione: incredibilmente, era venuto a restituirgli il Diadema e ad informarsi se l’ospitalità fosse di suo gradimento. Il principe aveva sorriso amaramente all’eufemismo. Sapeva di essere un prigioniero. Prezioso e dunque trattato con tutti i riguardi. Ma destinato al peggio.
Aveva ringraziato l’oscura presenza per la sua generosità e questa era scivolata via silenziosamente, senza lasciarsi scappare alcunché, allo stesso modo in cui era giunta. Lasciando dietro a sé un gelo incommensurabile.
La fanciulla terrorizzata che lo aveva servito non aveva saputo raccontargli nulla, come se su di lei ci fosse una pesante costrizione magica, posta per impedirle di parlare. Solo i suoi abiti di lana avevano confermato le ipotesi formulate sul papabile luogo della sua cattività.
Shion osservò il gioiello con le Tre Pietre sacre, appoggiato sulla cassapanca. C’era stato un momento in cui gli era sembrato che le gemme si fossero illuminate, ma era praticamente sicuro che si fosse trattato solo di un’illusione dettata dalla stanchezza.
Nessun reggente di Elestorya aveva mai assistito ad un simile fenomeno, pertanto non c’era ragione di credere che proprio a lui fosse toccato…
“Omaggi, reggente del Sud…”.
Quella voce sibilante e melliflua gli raggelò il sangue. Si voltò, in direzione dell’angolo più buio dell’ambiente e lì la scoprì. Come sempre. Come in un incubo senza fine.
“Ti trovo in salute, ne sono lieto” continuò la creatura.
“Eppure vorrei essere morto” ribatté il giovane “Quanto dovrò attendere ancora per vedere il mio desiderio realizzato?”
Il Nemico rise, un suono graffiante e fasullo.
“Addirittura! Eppure mi pare che non ti manchi nulla qui. Come vedi, anche per me l’ospitalità è sacra. Anzi, se la giovinetta che si occupa del tuo desinare desta il tuo ardore, provvederò a…”.
“Smettila!” esclamò Shion, disgustato dall’offerta “Dimmi dove mi hai portato! Perché mi costringi qua dentro?”
L’ombra ebbe una vibrazione e mosse le mani adunche sotto il manto scuro.
“Tutto a tempo debito. Voglio che tu abbia tempo di meditare a fondo sull’occasione che ti sto offrendo. Non hai altra scelta, principe”.
“Perché non ti sei tenuto il Diadema? Lo bramavi, no?”
Il Nemico alzò le spalle con noncuranza.
“Certo. Lo volevo qui. Non ho mi detto che fosse per me”.
“Se pensi che io possa usarlo in qualche modo, hai fatto male i tuoi conti. Non possiedo né la magia né il coraggio né la reggenza effettiva della mia terra”.
“Affatto. I miei conti, come li definisci tu, sono esatti al millesimo. Quel manufatto prezioso servirà, sei tu che hai poca immaginazione” sghignazzò l’oscurità.
Il sarcasmo di quelle parole infastidì il giovane, che strinse i pugni, irato.
“Siamo a Jarlath, vero?” osò.
“Sì e no” replicò l’essere maligno senza esitare “Se può consolarti, non dovrai attendere ancora molto per eseguire il tuo compito”.
Shion sentì alla gola un nodo soffocante, ma lo ricacciò indietro.
“Voglio sapere di mia sorella”
“Dionissa? Per il momento respira ancora, non ti angustiare…” ridacchiò l’ombra.
“Adara” affermò lui deciso.
Il Nemico si accese di una rossa collera, che filtrò da sotto la stoffa nera delle sue vesti, conferendogli un aspetto ancora più diabolico.
“Arriverà” ruggì rabbioso.
Poi si dissolse.
 
   
 
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