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Autore: _EverAfter_    02/03/2019    7 recensioni
Sullo sfondo della più importante Guerra di Secessione americana, un'altra storia prende vita tra gli spari e i cannoni: il popolo degli Indiani d'America.
Il 29 Novembre 1864, delle truppe statunitensi guidate da John Chivington, colonnello della milizia, massacrarono e uccisero tra i 125 e i 175 nativi americani delle tribù Cheyenne e Arapaho per adempiere alle mire espansionistiche del governo statunitense sulle terre dei nativi americani.
Passò alla storia come il "Massacro di Sand Creek".
Questa è la stessa storia, raccontata dagli occhi di uno dei vinti. Un bambino, per la precisione.
Non Teme, è questo il suo nome.
Prima classificata al contest "Spade Incrociate" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Secessione americana
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Quella-freccia-in-fondo-al-lago



    Se ne stava con lo sguardo perso a fissare la punta della freccia finita in fondo al lago, chiedendosi quale fosse il problema della sua scarsa mira, mentre studiava l’arco di frassino al suo fianco, forse ancora troppo grande per poterlo manovrare a suo piacimento.

    Cercò di recuperare il dardo, sporgendosi dalla sponda per poterlo afferrare, ma l’acqua in quel punto era troppo profonda perché potesse sperare di riuscirci; innervosito dalla sua incapacità di nuotare, Non Teme smuoveva l’acqua, nella vana aspettativa di poter sfiorare il fondo melmoso che ormai ricopriva la punta di pietra.

    Tanti sottili cerchi d’acqua si dissipavano dalle sue piccole mani bagnate, ma la freccia non si mosse. Tutt’attorno era ormai buio, e la luna calante sembrava indispettire le ombre intorno a lui, che gli apparivano d’improvviso più minacciose del solito. L’astro silenzioso sembrava arrabbiato, perché era bizzarramente rosso. Si chiese se non fossero gli spiriti adirati per il gesto avventato di allenarsi con l’arco da solo, senza neanche la supervisione di uno dei suoi genitori.

    Desistette dall’ormai infausto intento di recuperare la freccia, al suono del primo battito di tamburi che annunciava il coprifuoco.

    Calava la sera , portando con sé il silenzio ed il buio.

    Scostò la pelle che ricopriva il telo del suo tepee¹, entrandovi in silenzio. La dimora era piccola, per cui non v’era dubbio che sua madre scoprisse presto il motivo che l’aveva tenuto a lungo lontano da casa. Cercò di nascondere l’arco come meglio poteva dietro la schiena, ma le sue fattezze di giovane infante ancora sembravano volerlo sbeffeggiare a causa della sua scarsa statura.

    ‒ Sei tornato tardi anche oggi, Non Teme. ‒ Il tono non gli appariva neppure così irritato come al solito. ‒ Quando tuo padre non c’è, sai che non voglio che vai in giro da solo.

    Si sfilò l’arco dalle minute spalle che lo sostenevano, poggiandolo distrattamente a terra. Capitava spesso che suo padre non fosse presente durante quel periodo, il momento dell’anno in cui i bisonti riapparivano sulle sponde del fiume Sand Creek di ritorno dalla prima ghiacciata. Fuori faceva freddo, e gli Cheyenne non erano stati ancora in grado di procurarsi le nuove pelli per sopravvivere all’inverno che, a quanto sembrava, appariva più frigido rispetto agli anni precedenti.

    Per questo Non Teme si allenava con l’arco, per realizzare il suo desiderio di poter incrociare un bisonte che sarebbe stato in grado di centrare col primo scocco di freccia – se non l’avesse pateticamente persa in mezzo al lago che richiamava a sé la poca acqua del fiume, ormai compromessa dai primi istanti di gelo.

    Fabbricare una freccia non era semplice, non lo era affatto. Avrebbe dovuto procurarsi un ramo che sembrasse abbastanza dritto, affilare una pietra intonsa e legarla col fil di spago che avrebbe dovuto chiedere a Grande Uomo, uno dei capi del villaggio, che di certo non era molto avvezzo a concedere favori senza ricevere nulla in cambio.

    ‒ Vieni qui, ragazzo, ‒ gli aveva detto un giorno, ‒ tienimi d’occhio il cavallo.

    Fu una vera disdetta apprendere che Lampo nel Cielo, il pezzato di cui il prode cheyenne andava tanto fiero, fosse uno scalmanato senza precedenti: non aveva esitato neppure un istante, prima di mollare la prima poderosa zoccolata contro il bel visino del giovane, che tornato a casa si era ritrovato con due denti in meno ed un martellante dolore alla tempia destra. Da quel giorno si era sempre guardato bene dal concedere altri favori al suo capotribù, che ogni volta non perdeva occasione per sbeffeggiarlo amorevolmente, come un mentore ch’abbia visto il suo discepolo cadere distrattamente di sella.

    Non Teme non riuscì a dormire, quella notte. Ripensava alla freccia, a quel bagliore che rifletteva i raggi ormai calanti del Sole e al continuo tremolio dell’acqua increspata dalla sua mano, speranzosa di poter anche solo sfiorare la punta stondata. Si rigirò nelle pelli di daino consunte, chiedendosi se sarebbe mai stato in grado di poterla conficcare nel tronco della quercia ch’aveva preso come bersaglio quella mattina.

    Quelli come lui non venivano mai scelti per andare a caccia, e ne riusciva anche a comprendere il motivo: non esisteva una preda che, al fruscio dell’arco teso, non fuggisse in trepida aspettativa di una vita più duratura. Ma cos’avrebbe mai potuto fare il cacciatore, se la sua mira non fosse stata al passo di quella fuga?

    Lui era avvezzo a starsene sdraiato sull’erbetta accanto al lago, suonando con il flauto la dolce melodia che sua madre era solita sussurrargli la sera, prima che giungesse il sonno, quand’era ancora in fasce. Era bravo con la musica, o almeno era ciò che gli aveva detto un giorno Pentola Nera, durante uno dei soliti noiosi incontri tra tribù prima dell’incontro ufficiale con l’esercito confederato.

    Erano strani, gli archi dei coloni americani. Riuscivano a portarseli comodamente alla cintola senza che quel peso gravasse loro sulle spalle, ma non erano fatti di legno, com’era solito figurarseli. Erano di ferro, e puzzavano tremendamente di uno strano odore che si chiamava – ma questo gliel’avevano detto dopo – polvere da sparo. Non Teme non capì il significato del termine, e non si sorprese del modo con cui gli cheyenne più grandi di lui si limitavano a rispondergli: ‒ Quella è una pistola. È un’arma ben peggiore di quel che credi. Stanne alla larga.

    Ciò che lo sorprendeva di più non erano certo gli archi occidentali, ma le loro frecce: erano piccole, con una strana forma a sfera – anch’essa di ferro – e quando l’arco le scoccava facevano un sonoro “bam” che squarciava l’aria come se tutti gli spiriti si fossero destati al suono acuto di quell’arma e avessero iniziato a disperdersi dallo spavento. La prima volta che aveva sentito uno sparo, le orecchie gli erano fischiate per dei giorni, mentre ripensava alla vibrazione dell’aria ch’aveva avvertito intorno a sé al primo, secco colpo diretto alla fronte d’un disertore.

    A quei tempi nella riserva ne giravano parecchi, di confederati. Erano stati incaricati di sparare a qualsiasi cane sciolto² che si fosse intravisto all’orizzonte, uomo o donna che fosse. In tempi di guerra non vi era alcuna differenza di sesso: un nemico risultava tale persino se fosse stato avvolto nelle fasce prenatali.

    Per questo Non Teme era stato chiamato a quel modo: fin da piccolo era stato abituato a convivere con gente che non era la sua, che indossava delle bizzarre casacche con sopra delle stravaganti targhette colorate e dei piccoli pallini dorati che gli occidentali chiamavano bottoni. S’era assuefatto all’ambiente squisitamente americano, tanto da non provarne più timore: era l’unico in grado di avvicinarsi all’accampamento dei pallidi senza la paura d’essere arrestato, convincendosi che i grandi non fossero poi così coraggiosi come credeva, mentre li vedeva avvicinarglisi ogni volta che tornava dalla tenda dell’ufficiale di servizio.

    ‒ Ti ha fatto del male? ‒ gli chiedevano terrorizzati, e allora lui rispondeva con una scrollata di capo, prima di tornarsene nel tepee dove la madre lo attendeva impensierita.

    Non Teme non aveva mai capito cosa il suo popolo ci trovasse di così terrificante, negli altri. Lui, da un certo momento in poi, aveva iniziato perfino a trovarli affascinanti: gli uomini con quel loro modo forbito di parlare, lo schioppo in braccio e il capellino con la visiera, e le donne dal seducente chiacchiericcio e le labbra tinteggiate dai colori dei fiori primaverili che sbocciavano sulle sponde del Sand Creek. Si domandava spesso dove trovassero tutte le piume che sbucavano dai loro adorabili cappellini, ma si convinse che dovessero giungere da una remota terra lontana, poiché quelle tonalità non le aveva mai viste addosso al piumaggio dei volatili che – ormai – aveva imparato a riconoscere durante le mille fallimentari battute di caccia.

    I suoi coetanei tendevano sempre a prenderlo troppo in giro sulla faccenda, chiamandolo barbaramente lo “cheyenne civilizzato”, per grazia e colpa di quella sua indole votata alla conoscenza del mondo, che sovente esulava dal rimanere concentrata sugli usi e costumi legati solo al suo popolo; tuttavia non si era mai sentito oppresso dal chiacchiericcio dei giovani cheyenne, convincendosi che l’appartata solitudine del lago e il suono spumeggiante della piccola cascata ch’ivi moriva fossero più che sufficienti per colmare il silenzio della sua mente, un baratro dedito all’atarassia e dal quale gli risultava sempre più difficile separarsi.

    Anche quella notte Non Teme faticò nel concedersi al sonno. Sua madre lo sgridava spesso, certa che le occhiaie del figlio, unite al suo corpo gracilino e poco avvezzo all’attività fisica, fossero dovute al suo atteggiamento indolente che non s’armonizzava affatto col resto del gruppo dei giovani cheyenne, i quali al contrario erano venuti su forti e aitanti, con la pelle più rossa e il volto più fiero. A ben guardarlo, Non Teme appariva davvero come un bambino dei visi pallidi³, il che rendeva la madre offesa e il padre sempre più incollerito.

    Si consolava, lo cheyenne civilizzato, nel credere che – forse – se fosse riuscito a scoccare una freccia e a centrare un bersaglio, allora qualcuno sarebbe anche stato in grado di accettarlo, riconoscendogli delle doti ch’esulavano dal semplice ozio e dall’abilità nel suonare il flauto – perizia della quale i suoi compagni più giovani si facevano beffe, a suon di malizia e di denigranti schiaffi sulla nuca del povero ragazzo.

    Uscì fuori dal tepee, convinto che la sua mancanza di sonno fosse colpa della luna rossa, portatrice di sventura. Non che credesse davvero a quella stupida superstizione, la stessa a cui il suo popolo si votava solo perché non era in grado di spiegarsela in altro modo. Aveva seguito i passi di quella mattina, spingendosi lungo le sponde del placido fiume Sand Creek e giungendo nell’ansa più profonda, quella che si radicava a ferro di cavallo, lì dove Pentola Nera aveva fatto accampare i suoi prima dell’arrivo dei tenenti confederati, in attesa di stipulare l’ennesimo trattato di pace, che qualche colono da quattro soldi avrebbe stracciato non appena l’occasione fosse stata propizia.

    Non Teme immaginava che non fosse bello vivere così e tuttavia non riusciva ad immaginare un'esistenza diversa da quella: chi aveva vissuto per molti anni nel buio di una grotta, non poteva abituarsi alla luce del sole; lui si sentiva esattamente a quel modo, vittima di un futuro che avrebbe potuto essere migliore, ma che forse avrebbe distrutto quel poco che rimaneva al suo popolo, per quanto piccolo e insignificante potesse apparire agli occhi dei potenti uomini d’affari, a cui non sarebbe dovuta importare la guerra, ma che nonostante tutto ancora la finanziavano, pretendendo sempre l’ultima parola.

    Il giovane cheyenne si era chiesto spesso il perché di tutto quel bizzarro teatrino: lui non era bravo con l’arco e perciò non poteva andare a caccia, dunque gli appariva un mistero il perché quegli uomini così bravi coi numeri s’interessassero alla guerra, che certo non era loro appannaggio. L’aveva chiesto tante volte persino a Pentola Nera, ma il capovillaggio non aveva mai risposto, intimandogli che le questioni degli adulti l’avrebbero distolto dal suo obiettivo d’imparare a scoccar frecce.

    Fu così che, dopo quella domanda irrisolta, Non Teme aveva deciso di non interrogarsi più sulle vicende del mondo degli adulti, sia che esse appartenessero al suo popolo o ai coloni.

    ‒ Sono troppo complicati, gli uomini, ‒ aveva detto un giorno alla madre, ‒ quelli che decidono le guerre se ne stanno seduti, e quelli che non vorrebbero farle le fanno perché sono costretti da quelli seduti.

    Certo, il suo punto di vista era più basso poiché portava gli occhi di un bambino. Eppure sua madre pensava davvero che avesse ragione, durante quel suo sermone improvvisato e che celava in sé la nefasta verità della guerra: suo figlio non sarebbe mai stato un feroce combattente, ma la sua vispa intelligenza coglieva gli aspetti più dettagliati d’ogni singola cosa che lo circondava; a modo suo, anche quella era una dote concessa a pochi.

    Se ne rimase in silenzio a contemplare la luna rossa, stendendosi sul tappeto verde inumidito dalla prima rugiada e gustandosi la delicata brezza che gli scompigliava i capelli scuri e smuoveva i fili d’erba a contatto con le sue dita intirizzite. Si tranquillizzò al pensiero che fosse una notte come tutte le altre che aveva vissuto nella sua vita. Sul punto di chiudere gli occhi ed essere accolto nel mondo dei sogni, lì dove avrebbe potuto avvicinarsi di un passo agli spiriti, Non Teme sbarrò lo sguardo al secco “bam” che sentì in lontananza.


***


    Il “bam” non era più uno, ma molti, troppi perché Non Teme potesse credere che si fosse trattato di un caso, quando col respiro trafelato s’accinse ad incrociare il primo tepee insanguinato. L’apnea dei polmoni, dapprima dovuta semplicemente alla folle corsa per tornare alla riserva, era divenuta un grido che gli toglieva il fiato, obbligandolo ad appoggiarsi al primo tronco capitato a tiro, nella vana speranza di recuperare, insieme al respiro, anche un po’ di lucidità, la stessa che scivolava via ad ogni corpo che vedeva giacere a terra, ormai privato del soffio vitale.

    Tremò al pensiero di sua madre, mentre si lanciava nel tumulto di quella battaglia a senso unico: riusciva a scorgere di sfuggita le divise dei commilitoni americani sui cavalli nevrili, la polvere gettata alla rinfusa dagli zoccoli scalpitanti e il clamore delle pistole che fendevano l’aria coi pallettoni, diretti verso il torace della sua gente vestita di bianco, macchiata di rosso.

    S’accorse del suo tepee ormai in fiamme e del corpo quasi senza vita che vi risiedeva dentro: vide sua madre boccheggiare nell’ultimo respiro, in cerca del figlio che non avrebbe più rivisto, mentre gli spiriti s’appropriavano della sua anima, speranzosi di riuscire a salvare almeno quella.

    Non pianse, Non Teme. Non ne ebbe il tempo, perché s’era già affrettato a cercare Grande Uomo per avvertirlo dell’imboscata, convinto che almeno lui potesse fare qualcosa. Sentì il “bam” dietro alle sue spalle, la sua gamba arrestò la corsa e obbligò l’intero corpo a fare altrettanto; era consapevole d’essere spaventato e tuttavia riprese a camminare, consapevole che il coraggio gli stesse dicendo cosa fare nell’attimo di smarrimento, lì dove il panico aveva preso il sopravvento intimandogli di rimanere fermo.

    Grande Uomo non era nella sua tenda. Tutt’attorno le urla disperate del suo popolo sembravano consigliargli di scappare lontano dal massacro: il fumo divorava la tela dei tepee come un mostro lesto a spalancare le proprie fauci in vista del pasto più succulento, i soldati facevano razzie dei pochi beni che appartenevano ancora alla sua gente, alcuni un po’ ubriachi si dilettavano ad inveire contro i suoi amici, ormai cadaveri che se ne stavano lì, con gli occhi aperti e l’ultimo urlo di dolore volto al cielo, laddove anche la luna aveva preso a sanguinare ormai dal pomeriggio precedente.

    Assistette alla spietata razzia di una giovane ragazzina della sua età, Passero della Neve, che veniva portata via da due uomini con gli occhi lucidi e le mani sudate, mentre nell’unico tepee rimasto ancora illeso una madre scongiurava i soldati di non portare via il bambino che stringeva tra le braccia; non venne affatto ascoltata, poiché il più nerboruto tra i presenti l’aveva afferrata per i capelli e trapassato il collo da parte a parte con un coltello sottile. Non Teme rimase zitto, voltandosi nella direzione dov’era convinto che sarebbero andati i coloni non appena avessero adempiuto a quella carneficina immotivata: era certo che se fosse riuscito ad avvisare Pentola Nera, forse qualcuno avrebbe potuto ancora salvarsi.

    Si lanciò nella corsa, ma non fu abbastanza svelto da poter evitare la raccapricciante scena dei corpi orrendamente mutilati, le urla dimezzate dai pochi rimasti ancora in vita, mentre i morti innaffiavano la terra di sangue e saliva che usciva dalle bocche rimaste aperte prima dell’ultimo fiato. Non Teme si bloccò, nello sguardo le prime lacrime si addensavano e gli rendevano la vista meno efficiente, ma non a sufficienza perché potesse evitare di assistere al resto: gli archi di ferro dei soldati sparavano senza sosta verso gli uomini tornati dalla caccia, sul cui volto – oltre ai colori con cui erano soliti decorarsi – recavano tracce di rabbia, smarrimento, paura.

    Intravide suo padre nell’atto di disarmare un milite, mentre quello premeva ripetutamente il grilletto contro la sagoma scolpita dell’indiano, che al primo scocco della piccola pallottola cadde a terra con un unico tonfo sordo. Non gridò, non si contorse. Attorno a lui una macchia rossa iniziò a dissiparsi, inghiottendo il verde del praticello.

    Non ci aveva mai pensato alla morte, Non Teme. Forse perché gli era stato insegnato che quando l’anima si allontanava dal corpo significava che aveva compiuto tutto ciò che si era professata di fare prima di nascere. Eppure non era convinto che fosse decoroso morire a quel modo, con lo sguardo assente ed il sangue che colava via da una ferita lasciata aperta da qualcun altro. Gli spiriti chiamano a loro solamente chi è pronto, gli avevano detto. Ma come poteva essere davvero così, quando il bebè che la donna stringeva tra le braccia qualche istante prima giaceva a terra con il pianto smorzato e il corpo ridotto a brandelli?

    Si volse indietro solamente per un istante, ad osservare l’ombra del suo popolo svanire via in quella notte di guerra, con la luna che ancora sanguinava ed il cuore in subbuglio, vittima dell’orrore, della paura. Si portò fino alla sponda del lago, nella mente le immagini appena vissute schiaffeggiavano il suo amor proprio: lui, che aveva creduto che quella gente non fosse così male; lui, che aveva perso del tempo prezioso solamente per cercare di capirla; lui, che era rimasto solo, immerso in quel silenzio che d’improvviso gli appariva insostenibile, come monito a quella sua indole controcorrente che aveva cercato di farsi piacere il loro status di pellerossa con il solo scopo di poter vivere un’esistenza pacifica.

    Tutto questo non c’era più, mentre il Sand Creek trascinava con sé l’acqua rossa e il sudiciume delle carni sporche di sangue. E portava via gli urli di battaglia, le grida di paura, i soprusi, l’orrore dipinto negli occhi di chi non aveva avuto neppure la grazia di serrar le palpebre al suon dei fatali spari. Non Teme capì che non sarebbe più valso a niente cercare d’imparare a tirare con l’arco, perché non avrebbe mai potuto contrastare quell’ondata di odio che si era manifestata sottoforma di polvere nera e rabbia. Ancora s’interrogava sul perché fosse accaduto tutto ciò, ma più tentava di raggiungere le risposte, più esse venivano dilavate via insieme ai corpi dei defunti compagni.

    Non si sentiva smarrito, non tremava. Tutto intorno a lui sembrava opacizzarsi e perdere consistenza, quando ormai l’unico colore che riusciva a distinguere era il rosso. Volse lo sguardo alla luna, chiedendosi come avesse fatto la piccola e ferruginosa freccia dei visi pallidi a colpirla da così lontano – certo il tiratore doveva esser dotato d’una mira eccezionale. Non poteva dire che non gli fosse parso strano sin dal primo pomeriggio, che il silente astro notturno fosse così rubicondo da far impallidire le distese dei papaveri sull’orlo dell’appassitura. In quel momento riusciva a spiegarsi molte cose, e non certo le attribuiva agli spiriti inquieti: la luna era stata ferita a morte, placida compare del massacro a cui aveva dovuto assistere nonostante fosse assai distante.

    Chissà cos’avevano contro la luna – chissà cos’avevano contro loro.

    Pentola Nera un giorno gli aveva detto che bastava molto meno di ciò che possedevano, per essere felici. Lì per lì non si scompose, cercando di prestare attenzione all’accento stretto della parlata del capotribù. Ebbe modo di pensarci solamente tornato a casa, quando sua madre stava ancora attendendo il suo rientro, sgridandolo per l’ennesimo ritardo.

    Non Teme non aveva vissuto una vita che si potesse definire lunga, questo lo ammetteva. Eppure, per qualche motivo, sentiva ch’era stata abbastanza. Piccola, insignificante, ma serena, placida come le carezze di sua madre e le pacche troppo nerborute di suo padre. Difficile per certi aspetti, lì dove aveva cercato di colmare le sue lacune fisiche e caratteriali con la costanza nel tirar con l’arco. Facile, come le note che uscivano volentieri dal suo flauto di legno. Eternamente in combutta con gli opposti, fatta di alti e bassi come gli inverni e le estati che non avrebbe più vissuto, da quell’istante in poi.

    Non s’interrogò più e s’arrese allo scalpiccio dei passi dietro di lui, mentre voltandosi osservava l’espressione cupa e ansiosa del colone.

    Non Teme non aveva paura di morire, persino in quel momento il suo sguardo non tremava. Ciò che gli si parava dinnanzi era un uomo come molti altri che aveva visto nella sua vita: aveva due occhi scuri, due orecchie, un naso, una bocca, due mani strette attorno alla pistola. Aveva il fiato corto e il sudore sulla fronte, forse non aveva neanche voglia di ucciderlo. Eppure, l’avrebbe fatto comunque.

    Lo sguardo del giovane cheyenne si posò sulla delicata smorfia di disappunto dipinta sul volto emaciato del suo carnefice. Non avrebbe saputo dire se fosse deciso all’ultimo fatale gesto o se i ripensamenti fossero giunti troppo presto a fargli abbassare l’arma. Non Teme non aveva poi tutta questa fretta di trapassare.

    È sufficiente, continuava a ripetersi. Ciò che ho vissuto fino ad ora è sufficiente.

    Non era mai stato molto bravo con le bugie, per questo sua madre sapeva sempre quando mentiva e quando no. Per certi versi, era davvero frustrante essere un pessimo menzognero. Persino in quell’istante, mentre l’uomo che non sarebbe mai stato s’imponeva di mantener contegno, il bambino che era tremava e implorava tacitamente il suo aguzzino di risparmiarlo. E chissà, forse Non Teme avrebbe anche pianto, se non fosse stato così orgoglioso da rigettare ogni vile atto di codardia: in quel decoroso atteggiamento portava con sé le anime morte durante quella notte d’eccidio, convincendosi che fosse l’ultimo atto d’amore che potesse mostrar loro, prima del suo congedo dalla terra dei vivi.

    Sentì lo sparo, ma non provò dolore. Il soldato, affogato nel dispiacere per l’irremovibile ordine, lo aveva colpito dritto nel petto, laddove il cuore aveva cessato di battere nell’istante in cui la freccia di ferro l’aveva carezzato. Il giovane cheyenne chiuse lentamente le palpebre, cadendo nel punto in cui nessuno avrebbe mai potuto continuare ad abusare del suo corpo senza vita: venne inghiottito dalla dolcezza delle increspature, avvolto nell’acqua che tanto gli avrebbe ricordato la sua nascita, se solo quella non fosse stata la sua morte. S’assopì, una volta che il suo corpo ebbe toccato il fondo.

    L’uomo, che ancora stringeva la pistola tra le mani, s’avvicinò alla sponda del lago, scosso dai tremori. S’affacciò a vedere il corpo dell’innocente a cui aveva strappato la vita, consumandosi nel rimorso e nel tormento d’aver preso troppe anime, per quella notte. Lì, tra le dita rigide del piccolo cheyenne, v’era qualcosa che luccicava sul fondo: non riusciva bene a distinguerla, ma avrebbe giurato che si trattasse di una freccia dalla punta leggermente stondata.

    Lui non l’avrebbe mai saputo, ma Non Teme gli sarebbe stato eternamente grato per averlo aiutato a raggiungerla.








Fine



¹: Una tenda conica originariamente fatta di pelli, corteccia di betulla o teli, resa famosa dai nativi americani.
²: I Cani sciolti erano degli indiani ribelli che si opponevano con fermezza ai trattati di pace coi coloni, sostenendo che la loro etnia, essendo precedente all'insediamento dei coloni, non avrebbe dovuto essere vincolata nelle riserve.
³: Dispregiativo per indicare i coloni americani.

Angolo dell'autrice:

Non sarò mai troppo grata a mystery_koopa per aver indetto questo contest, ti ringrazio davvero.
Non so dirvi esattamente che cosa mi abbia spinta a parlare di questo popolo, mi rendo conto a volte che scrivere è davvero una questione di attimi: giunge l'idea e ti lasci condurre da essa.
Fin da piccola ho sempre avuto un piccolo amore per le tribù indiane, sviluppando anche una sorta d'"invidia" nel loro modo pacifico di condurre la vita. Nessuno parla mai di loro, forse perché in effetti durante questo periodo l'America davvero ne ha passate di cotte e di crude. Eppure, loro c'erano, anzi. Ci sono sempre stati, se vogliamo.
Per cui niente, spero di esservi riuscita a trasmettere un po' di quell'amore che nutro nei confronti di questa storia.
A presto,

_EverAfter_



  
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