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Autore: Roscoe24    07/03/2019    9 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Alec non si era mai definito una persona mattiniera. Odiava le alzatacce – quando non erano obbligatorie, causa lavoro –  e il suono della sveglia. Per questo adorava non metterla, quando sapeva che gli spettava il giorno di riposo. E quel giovedì mattina, quando un fastidioso rumore interruppe il suo (meritato) sonno, la prima cosa che il suo istinto gli suggerì fu quella di cercare a tentoni la sua sveglia, con gli occhi ancora chiusi. La fece finire giù dal comodino – sentì chiaramente il tonfo sul pavimento – ma non se ne preoccupò, soprattutto perché il suono fastidioso continuava imperterrito.  Impiegò un secondo di troppo a capire che era il suo cellulare che stava vibrando come un ossesso. Alec si pentì di non averlo spento, la sera prima.
“Pronto?” bofonchiò, la voce arrocchita e una mano sul viso.
“Sono fuori dalla tua porta.”
“Restaci, Izzy. È il mio giorno di riposo. Voglio dormire.”
“Sono le otto.”
“Questo non mi spinge a cambiare idea.”
“Ho una copia delle tue chiavi, Alec, potrei entrare comunque.”
Alec sbuffò al telefono, alzando con la mano libera il cuscino per metterselo sopra alla faccia. “Sei una despota.” Scostò le coperte – abbandonando tutto il calore confortevole del suo letto – e lasciò da parte il cuscino, sedendosi sul materasso; i piedi nudi che toccavano terra. “Spero sia importante, Iz.”
“Passare del tempo insieme alla tua unica sorella non è importante, per te?”
“Non alle otto, Isabelle. Ma alle dieci diventa importantissimo.” Alec si alzò dal letto, uscendo dalla sua camera per percorrere la casa fino alla porta d’ingresso. Concluse la chiamata con Izzy e lasciò il telefono sul mobile all’ingresso, vicino alla ciotola delle chiavi. Aprì la porta, mentre si strofinava un occhio.
“Buongiorno!” esclamò raggiante la sorella. Alec fu tentato di risponderle male, ma la figura che stava vicino ad Isabelle gli fece morire le parole in gola.
“Buongiorno, raggio di sole.” Magnus stava sorridendo e gli angoli della bocca di Alec si alzarono in automatico. “Isabelle ha detto che non sei proprio mattiniero…”
“Le mie parole esatte sono state orso rabbioso, ma suppongo si possa dire anche così.” Specificò Isabelle, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del fratello.
“…Ma,” continuò Magnus, “Ti ho portato il caffè.”
Alec sorrise e si fece da parte. “Entrate.”
Isabelle lo fece per prima, inoltrandosi in quella casa come se fosse anche un po’ la sua. Magnus sospettava fosse così, mentre entrava quasi in punta di piedi, come se non avesse voluto disturbare. Alzò gli occhi su Alec, che stava chiudendo la porta. Era adorabile in pigiama – che altro non era che una maglietta a maniche corte e i pantaloni di una vecchia tuta –, con i capelli arruffati e ancora mezzo assonnato. “Sai,” disse, “È ingiusto che appena sveglio tu sia così carino.”
Alec scosse la testa, le guance che prendevano una colorazione rosa intenso. “Già, perché sono sicuro che tu appena sveglio, invece, non lo sei per niente.” Commentò con una punta di sarcasmo, totalmente convinto che Magnus, appena sveglio, fosse bellissimo. Quando non lo era, dopotutto?
“Puoi scoprirlo quando vuoi, zuccherino.” Ammiccò Magnus, perché evidentemente gli piaceva torturarlo. Alec si schiarì la gola, mentre sentiva le guance diventare rosse. Non rispose, comunque, perché non si fidava di quello che sarebbe potuto uscire dalla sua bocca. Magnus, per riempire quel silenzio, gli passò il bicchiere di caffè, ancora caldo.
“Grazie.”
“Di nulla, tesoro.”
“Non hai da dire niente sul mio consumo di caffeina?”
Magnus sorrise. “Non a quest’ora. Diventa preoccupante durante il giorno.”
Alec gli fece una linguaccia, prima di appoggiare le labbra al bicchiere di carta e prendere un sorso del caffè. Era caldo, ma non bollente, e il primo sorso ebbe lo stesso effetto di una dose liquida di linfa vitale che gli veniva iniettata nelle vene. Tutto diventa migliore, dopo il caffè.  
“Vuoi fare colazione?” domandò Alec, abbracciando il bicchiere con entrambe le mani.
“Isabelle ha un sacchetto intero pieno di bagel e brioches. L’abbiamo portato come offerta di pace.”
Alec rise e bevve un altro sorso del suo caffè. “Andiamo di là, allora, prima che se li mangi tutti.” Fece strada verso la cucina e Magnus lo seguì.


“Allora,” cominciò Alec, addentando un bagel, seduto al tavolo della cucina insieme ai suoi improvvisati ospiti, “Cosa vi porta, qui, esattamente?”
“La mia geniale idea!” esclamò Isabelle, bevendo un po’ del proprio caffè. Alec sospirò, massaggiandosi una tempia.
“Non c’è frase che mi fa più paura.”
“Lo dici sempre anche quando voglio cucinare, o quanto penso di portarti con me a fare shopping. Ormai sei poco credibile, fratellone!” Izzy sorrise trionfante, come se fosse soddisfatta di sé e della sua arguta risposta, mentre Alec chiudeva gli occhi, disperato. Magnus trovò la scena divertente e, in qualche modo, dolce. Non sapeva cosa volesse dire avere dei fratelli: certo, aveva i suoi amici che considerava come una famiglia, ma… avere un fratello è qualcosa di diverso. I fratelli sono quelle persone che sanno tutto di te, che conoscono anche il tuo lato peggiore e lo accettano. E i Lightwood erano legati in un modo speciale. C’era assoluta fedeltà tra di loro e quella certezza che, nonostante i difetti di ognuno, il bene che si volevano era sicuramente più grande.
“Sentiamo, allora.” Esalò Alec, sconfitto. “Come se avessi scelta.” Borbottò sottovoce e Izzy lo guardò male.
Ancora, Magnus dovette trattenere un sorriso.
“Ho pensato a quello che mi hai detto l’altro giorno, riguardo al fatto che non fai tanta attività fisica quanto vorresti…”
Alec annuì, timoroso di ascoltare il resto.
“…Così, ho pensato che se avessi uno stimolo, per te sarebbe più facile. Ed ecco lo stimolo!” Iz indicò Magnus con un sorriso. Alec sentì chiaramente il panico percorrergli le ossa. Parlando di sua sorella e della sua innata capacità di metterlo in imbarazzo, Alec non escludeva che Isabelle potesse aver frainteso le sue parole, vertendo il discorso su un piano sessuale. Era ovvio che lui non stesse parlando di quello, quanto piuttosto di ricominciare ad andare in palestra da lei. Perché Isabelle doveva capire sempre le cose a modo suo, dannazione?
“I-il mio stimolo?” domandò, titubante.
Izzy annuì, ma fu Magnus a prendere la parola. “Tua sorella mi ha chiesto se avevo voglia di andare a correre. Le ho detto di sì, prima ancora che mi spiegasse le sue vere intenzioni, ma rimango sempre dello stesso parere, se a te va bene.”
Alec avrebbe tirato un sospiro di sollievo, se solo non sarebbe risultato indiscreto. Niente di sessuale, solo una corsa. Che poi, non avrebbe potuto lamentarsi nemmeno nel primo caso, ma… per quanto avesse ceduto alla sua immaginazione, figurandosi Magnus in determinati contesti, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e la realtà è sempre molto diversa dalla fantasia. Primo: la realtà è imprevedibile; secondo: certe azioni portano con loro determinate conseguenze che non sempre sono un bene. Alec era convinto che non fosse il caso di rischiare di scoprire quali potessero essere. Quindi, che solo una corsa sia. Dopotutto, non c’era niente di male. Alec, da quando era tornato, non aveva ancora mosso un muscolo ed era vero che si stava impigrendo. E sapere che almeno una volta a settimana c’era qualcuno disposto a correre con lui poteva davvero essere lo stimolo di partenza per ricominciare a fare attività fisica.
“S-sì, certo, mi va benissimo. Ma tu… non sei impegnato?”
“Non il giovedì mattina. Ho lezione dopo le due del pomeriggio.”
“Oh, d’accordo allora.”
“Bene!” esclamò Izzy, battendo le mani. “Visto che il mio compito, qui, è finito, me ne vado! Ho una palestra da aprire.” Si alzò dal tavolo e risistemò bene la sedia. “A proposito, non pensare che non ti aspetti, fratellone! Verrai anche in palestra da me.”
“Sì, capo.” Alec evitò di dirle che quella era la sua idea iniziale, quando le aveva parlato qualche giorno prima.
“Ti voglio bene!” Isabelle abbracciò Alec da dietro. Il ragazzo era ancora seduto sulla sedia così allungò le braccia dietro la sua schiena per stringere Izzy meglio che poteva. La sorella gli lasciò uno schioccante bacio sulla guancia e sciolse l’abbraccio. Salutò con un bacio simile anche Magnus, prima di dirigersi alla porta. Alec la sentì chiaramente chiudersela alle spalle e sorrise. Questo era un comportamento così tipico di sua sorella che non poteva nemmeno avercela con lei. In più, in questo modo, avrebbe avuto una scusa per passare del tempo con Magnus e di certo non poteva lamentarsi.
“Non sei obbligato a farlo.”
“Lo so.” Rispose Magnus, finendo la sua brioche. “Voglio farlo.”
Alec sorrise e insieme finirono di fare colazione.



“No, è passata solo un’ora e mezza, Alexander!”
“E con questo cosa vorresti dire? Non c’è mica un galateo che impone dei tempi da rispettare!”
Magnus sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Sei così cocciuto. Non accetti davvero che troppo ti fa mal- che stai facendo?”
“Ti provo il contrario.” Rispose Alec, con un sorrisetto, come se fosse ovvio, estraendo il cellulare dall’enorme tasca frontale della sua felpa.
Si trovavano a Central Park. Avevano passato l’ultima ora e mezza a correre in giro per il parco. Magnus era più allenato per via del suo lavoro, ma Alec aveva presto ripreso il ritmo. Aveva dimenticato quanto gli distendesse i nervi correre, o fare qualsiasi tipo di attività fisica.
Adesso, avevano deciso di prendersi una pausa e Alec aveva adocchiato un chioschetto mobile che vendeva caffè. Alla sua decisione di prendere il secondo di quella mattinata, Magnus si era fortemente opposto.
“Il caffè è la più grande fonte di antiossidanti,” lesse allo schermo del suo cellulare, ad alta voce. “La caffeina è la sostanza psicoattiva più conosciuta al mondo e aiuta ad aumentare i livelli di energia.” Alec continuava a tenere gli occhi fissi sul cellulare, mentre scorreva con il pollice l’articolo. “Aiuta ad aumentare il metabolismo e a bruciare i grassi. Oh, e senti qua: abbassa il rischio di diabete di tipo due.” Alec alzò lo sguardo su Magnus, pieno di soddisfazione. Era così tenero con quel sorriso tutto fiero sul viso.
“Sei un so tutto io, non è vero?”
“Un po’, lo ammetto.”
“Sai cosa? Va’ a prenderti il tuo caffè, ma mi darai ragione quando ti verrà la tachicardia.”
Alec sorrise, perché Magnus con il broncio era una delle cose più adorabili che avesse mai visto e gli posò un bacio sulla guancia – come se una parte di sé avesse voluto trovare un modo per farsi perdonare e fargli tornare il sorriso. “Magari la tachicardia mi verrà comunque, visto che abbiamo corso fino ad ora e riprenderemo più tardi.” E poi, spinto da chissà quale coraggio – l’astinenza da caffeina gli faceva male, probabilmente – aggiunse: “O magari mi verrà a forza di starti vicino.”
Magnus lo sguardò sbigottito, sbattendo le palpebre un paio di volte. Rimase senza parole qualche istante, la bocca dischiusa per la sorpresa. Alec resse il suo sguardo, nonostante le guance rosse – Magnus non poteva dire se era per la corsa o per il commento che aveva appena fatto.
“Sei proprio un ruffiano, Alexander! Va’ a prendere quel caffè!” esclamò Magnus, che preso in contro piede non seppe bene come reagire. Alec rise e si avviò al chioschetto, dal quale tornò dopo poco con un bicchiere fumante di Americano.
 

Se ne stavano seduti su una panchina: Alec che sorseggiava il suo caffè, Magnus che faceva semplicemente una pausa. Era una bella giornata, il sole era alto e anche se non riscaldava come d’estate, lasciava una piacevole calura sulla pelle. Con l’arrivo di metà ottobre, i colori degli alberi erano mutati dal verde smeraldo all’arancione intenso, mescolato a qualche punta di rosso e giallo. Ad Alec piaceva tantissimo notare il cambio di stagione e tutte le mutazioni di colore che portava con sé.
“Lo sai, è strano. Non sembri per niente uno che si è impigrito.” Commentò Magnus, dopo qualche istante di silenzio.
“Ma l’ho fatto. Prima di partire, ogni occasione era buona per andare in palestra da Izzy. Un po’ perché siamo stati cresciuti con l’importanza della disciplina sportiva, un po’ perché…” Alec arrossì, “…volevo apparire quanto meno decente senza maglietta.” Borbottò, abbassando la voce, riducendola quasi ad un sussurro.
Gli occhi di Magnus percorsero inevitabilmente il torace di Alec, celato – purtroppo, se doveva dire la sua –  da una felpa. “Le cose che non si fanno per un bel ragazzo!”
Gli angoli della bocca di Alec si alzarono a malapena, ma nascose quell’accenno di sorriso dietro al bicchiere.
“Cosa facevi prima di andare da Isabelle?” Chiese Magnus, curioso.
“Al liceo facevo tiro con l’arco.”
“Davvero?”
Alec annuì. “So che non è lo sport più entusiasmante del mondo, ma a me piaceva. E in più… volevo evitare gli sport collettivi. Jace voleva che entrassi nella squadra di lacrosse con lui, ma, sai, ero un adolescente gay non dichiarato. Trovarmi a fine partita, o allenamento, in uno spogliatoio pieno di ragazzi che si cambiano sarebbe stato più una tortura che altro.”
Magnus annuì comprensivo. “Quindi hai optato anzi per qualcosa di individuale.”
“Sì.”
Magnus incrociò la gambe, sedendosi come un indiano. “E poi? Cos’altro hai fatto?”
“Boxe al college. Quella la pratico ancora, Izzy ha messo un sacco in più in palestra solo per me.” Alec bevve un sorso del suo caffè e Magnus rimase a guardarlo, pensieroso. Alec era un tipo molto riservato, ma il ballerino aveva l’impressione che si stesse aprendo, con lui. Voleva sapere di più, ma non sapeva fino a che punto Alec gli avrebbe permesso di arrivare in profondità.
“Posso chiederti una cosa?”
Alec annuì.
“Perché sei partito?”
Alec sospirò, guardando altrove, verso gli alberi, sulle foglie colorate. Non era un argomento di cui parlava volentieri, ma si fidava di Magnus, sapeva che lui non l’avrebbe giudicato – e inoltre, parlarne forse l’avrebbe aiutato a voltare completamente pagina. Non avrebbe mai dimenticato totalmente i demoni del suo passato, se prima non si fosse deciso a volerli esorcizzare completamente.
“Stavo con un ragazzo, fino all’anno scorso. Siamo stati insieme quattro anni e io… lo amavo così tanto, Magnus. Ma lui, evidentemente, non amava me. O almeno, non quanto diceva di farlo.” Alec fece una pausa. Il ricordo di William era più vivo che mai, adesso, nella sua mente. Riusciva persino a vedere la sfumatura verde dentro ai suoi occhi azzurri come il mare; riusciva a sentire il suo profumo, la sensazione della sua pelle sotto le dita, il sapore dei suoi baci – gli stessi che gli avevano tolto il fiato più di una volta. Sentiva il suono della sua voce nelle orecchie, che pronunciava parole che erano state in grado di mandare Alec a tre metri da terra, tanto erano state belle, quanto erano state in grado di farlo sprofondare nel Tartaro quando la verità era venuta fuori.
“Nessuno sa di noi, Alec! Nessuno lo saprà mai!” gli occhi di Will si posarono su Alec, che se ne stava in piedi al centro del salotto del suo appartamento. Si sentì mancare la terra sotto ai piedi.
“Cosa vuol dire che nessuno lo saprà mai? Avevi detto che ti sentivi pronto, che avresti l’avresti fatto per me, perché sono io l’unico con cui vuoi stare!” Cercò di non tremare troppo, ma la sua voce l’aveva appena tradito.
“Sto bene con te, ma potrei aver esagerato un po’.”
Il cuore di Alec sprofondò in una voragine. “Cosa vuol dire?” Si sentì uno stupido. Aveva chiesto la stessa domanda nel giro di cinque minuti, ma tutto gli sembrava così confuso. Tutto sembrava una bugia. Quattro anni della sua vita passati con una persona che pensava di conoscere e adesso… “Hai fatto finta?”
“No, non ho mai finto, ma… non ho mai avuto intenzione di dire come stessero veramente le cose. Lo dicevo perché sapevo che ti avrebbe fatto stare più tranquillo–”
“Per non rischiare di sentirmi parlare di portare la nostra relazione al passo successivo, per non rischiare di sentirmi parlare della possibilità di dire ai tuoi genitori che sei gay!”
“Non esagerare, adesso.”
“Esagerare?? Will, mi hai
mentito! In tutti questi anni non hai fatto altro che riempirmi di bugie e…” La voce gli morì in gola, un groppo di pianto otturava le sue vie respiratorie, ma decise di non cedere.
“Devo fare ciò che mio padre vuole. E lui vuole che sposi la figlia del suo socio. Non sa che sono gay e nemmeno lo saprà mai. Se si sapesse, tutti i giornalisti scriverebbero articoli su articoli, sarebbe una pubblicità negativa per lui e per l’azienda. Sarebbe un disonore troppo grande e…”
“E non ne vale la pena.” Finì per lui Alec, la voce ridotta in un sussurro. “Io non ne valgo la pena. Non valgo abbastanza per te da rischiare la tempesta in cui ti cacceresti, non è vero?” Alec si passò una mano sul viso, tristezza e rabbia che andavano a mischiarsi in un turbinio di emozioni. “Sai il colmo qual è? Che ti sarei stato vicino, che avrei mangiato la tua stessa merda, perché come uno stupido mi sono innamorato di te! Avrei ripassato le stesse pene dell’inferno che ho passato con mio padre e che, cazzo, continua a farmi passare, perché io ti amo! Ma a te non interessa. Non ti è mai interessato. Ero solo una distrazione dalla soffocante gabbia d’oro in cui si è trasformata la tua vita. Una scopata liberatoria per dimenticare la tua quotidianità.”
“Non dire così, io…”
“Non dire altro. Dalla tua bocca uscirebbero solo altre bugie e penso che tu mi abbia ferito abbastanza. Vattene, Will. Esci da quella porta e dalla mia vita.”

“La cosa strana,” proseguì Alec, con il groppo in gola e lacrime trattenute che gli pungevano gli occhi, “È che in quattro anni non l’ho mai forzato a dire niente. Sapevo cosa significasse non sentirsi pronto a dire la verità, quindi lo giustificavo sempre. Gli dicevo che doveva farlo quando lui reputasse fosse il momento giusto, che avrei aspettato. Passavamo le nostre giornate o nel mio vecchio appartamento, o nel suo. Se dovevamo andare al cinema, uno dei due doveva partire prima, prendere i biglietti e poi essere raggiunto dall’altro. In strada, non dovevamo avere nessun tipo di contatto.” Alec si passò una mano sul viso. “Non era esattamente la storia che uno si aspetta, ma mi andava bene. Lo avevo accettato perché io stesso ci ho messo tanto a fare coming-out e so che nessuno ha il diritto di farlo al posto nostro, quindi aspettavo. Quattro anni di attesa, quattro anni a sentirmi dire che prima o poi l’avrebbe detto ai suoi perché io ero speciale, ero importante; quattro anni che ho passato ad innamorarmi sempre più profondamente di qualcuno a cui interessava solo mentirmi. Sono stato sciocco e cieco.” Abbassò lo sguardo sul suo bicchiere. “Per questo sono partito. L’ospedale mi aveva chiesto se ero disposto ad andare ad Haiti per un anno. Ho pensato fosse la cosa giusta da fare: cambiare aria, provare a dimenticare il mio dolore e rendermi utile agli altri.” Rimase in silenzio, le mani strette intorno al bicchiere di plastica e gli occhi fissi a terra. Magnus non si aspettava una storia simile. Non si aspettava nemmeno che Alec arrivasse ad aprirsi così tanto. Nelle volte precedenti, le sue risposte erano state coincise e non troppo piene di dettagli. Aveva più che altro risposto a delle domande e ne aveva poste subito delle altre, come se non si ritenesse interessante abbastanza da continuare a parlare di sé, ponendo piuttosto l’attenzione sugli altri – su Magnus.
Ma adesso guardandolo seduto su una panchina, sudato e con una tuta addosso, gli occhi tristi e persi nel vuoto, Magnus sapeva che Alec gli aveva mostrato le profondità del suo cuore malandato. Era ferito e, diamine, adesso capiva il perché non aveva voluto uscire con David. Era mancanza di fiducia nei confronti degli uomini, era la paura di rimanere bruciato un’altra volta, di rischiare di donarsi di nuovo a qualcuno che l’avrebbe fatto a pezzi. Magnus conosceva quella sensazione. Camille l’aveva fatto sentire nello stesso modo, prosciugandolo di tutta la fiducia, della capacità di relazionarsi in profondità con qualcuno. Gli appoggiò una mano sul polso, accarezzandogli la pelle accaldata.
“So cosa vuol dire innamorarsi di qualcuno che pensiamo sia in un modo e si rivela essere l’opposto. Ma non devi mai, mai, sentirti sciocco per aver amato. L’amore è un sentimento bellissimo e siamo fortunati se riusciamo a provarlo. Non c’è niente di sbagliato, in questo. Lo sbaglio l’ha fatto lui, Alexander. Ti ha lasciato andare, ha preferito perderti, ed è questa la cosa sciocca.” Magnus gli sorrise, incoraggiante. “Per quello che vale, io penso tu ne valga la pena. E penso anche che non ti serva ammazzarti di palestra per stare bene senza maglietta!”
Alec sorrise e gli diede una piccola spallata. “Grazie, Magnus. Sai ascoltare, è una qualità che non si trova spesso, nelle persone.”
“Sono pieno di qualità che non si trovano spesso nelle persone!” Esclamò, un sorriso a tendergli le labbra.
Alec rise, più leggero questa volta. Intorno ai suoi occhi si formò una rete di rughe d’espressione che lo fecero apparire ancora più bello, secondo Magnus. Reputò un pazzo questo William, che aveva rinunciato a stare con lui.
“Posso chiederti una cosa io, adesso?” domandò Alec, finendo l’ultimo sorso del suo caffè.
“Certo.”
“È la madre di Erin? La persona che amavi e che si è dimostrata essere l’opposto di come pensavi…”
Magnus annuì. “Camille. Ballavamo insieme, l’ho conosciuta a vent’un anni. Dieci anni della mia vita con qualcuno che non conoscevo a fondo. Come vedi, ti capisco benissimo, tesoro.” Magnus guardò altrove, come se riuscisse a guardare attraverso un portale che l’avrebbe portato al passato. Era una persona diversa, più superficiale, forse. Veniva attratto da cosa diverse, come il divertimento sfrenato e incontrollato. Un sé più giovane si lasciava davvero troppo trascinare da Camille, che era una subdola manipolatrice già a vent’anni. Un sé più giovane tendeva a vivere la vita come se avesse voluto bruciarla alla velocità della luce, senza rendersi conto che, così facendo, non riusciva a coglierne i dettagli. Era cambiato, era maturato. La sua vita, adesso, gli ricordava una pianta che ogni giorno lui si impegnava ad annaffiare con le dovute cure per farla germogliare e crescere nel migliore dei modi. Niente più fuoco, solo acqua. Doveva crescere, non radersi al suolo da solo. Sia per se stesso che per la sua bambina.
“La amavo, moltissimo. Ma volevamo cose diverse. Quando abbiamo scoperto di Erin, lei voleva abortire. Ed è stato in quel momento che l’ho vista per quello che era: egoista, subdola. Mi sono reso conto di quanto i miei sentimenti per lei mi avessero offuscato la vista, di quanto l’avessi giustificata solo perché l’amore mi rendeva cieco.” Una pausa, un ricordo doloroso. “Non le ho permesso di farlo, comunque. Mi sento ancora meschino se penso a come ho gestito la cosa: lei era stata talmente crudele, aveva cominciato a definire Erin una cosa che le cresceva dentro, come se altro non fosse che un impiccio. Io vedevo l’opportunità di farci una famiglia insieme, lei solo un qualcosa di cui non vedeva l’ora di liberarsi. La mia carriera è finita! Continuava a dire, senza pensare che ogni parola che usciva dalla sua bocca mi trafiggeva il cuore. Lei non voleva la bambina, non voleva costruire una famiglia con me. Non potevo obbligarla, ma non volevo rischiare di perdere la mia bambina… era Erin, Alexander. L’ho amata ancora prima di sapere se fosse un maschio o una femmina, l’ho amata ancora prima che diventasse un vero e proprio feto.” Magnus sospirò. “Così le ho detto che avremmo trovato un accordo. Avremmo trovato un modo per tenere nascosta la gravidanza, uscendo dai riflettori per un po’, altrimenti avrei detto ai suoi sponsor le cose orribili che le erano uscite dalla bocca.” Fece una pausa. “Dio, mi vergogno così tanto per essermi comportato in quel modo.”
“Mi dispiace, Magnus.” Alec mise da parte il bicchiere vuoto per prendere tra le sue mani quelle di Magnus. “Per quello che vale,” Continuò, “Ci ha perso lei. Tu ed Erin siete una famiglia bellissima.”
“Ti ringrazio, tesoro.”
Alec gli rivolse un sorriso, stringendo un po’ la presa sulle sue mani, prima di lasciarlo andare. Non dissero altro, rimanendo in silenzio per un po’. Seduti uno di fianco all’altro, guardarono Central Park e le persone che lo attraversavano, chi con calma, chi di corsa, chi con gli occhi attaccati al cellulare.  Alec posò nuovamente lo sguardo su Magnus, rendendosi conto che si erano conosciuti un po’ di più, quel giorno; che si erano detti cose importanti, personali. Era un passo notevole, pensò Alec – il primo verso la guarigione, verso il completo esorcismo del suo passato. Sorrise.
“Posso chiederti un’altra cosa?”
“Quanto sei loquace, stamani, fiorellino. Certo che puoi.”
Alec gli diede un colpetto sul ginocchio, cercando di trattenere un sorriso. “Perché l’arancione? I capelli, i vestiti…” alluse ai pantaloni sportivi di Magnus, che erano neri, ma avevano una striscia arancione ai lati.
Magnus si aprì in un sorrisetto malizioso. “L’hai notato. In genere noti sempre tutto o devo sentirmi speciale?”
Alec guardò altrove, le guance che divennero rosa. La risposta era più che ovvia, vista la sua reazione e sapeva benissimo che Magnus aveva imparato ad interpretarlo a tal punto da dedurre che fosse perché, in qualche modo, Alec pensava che lui fosse speciale. “L’ho notato.” Si limitò a rispondere.
Magnus sorrise di nuovo. “Ottobre è il mese di Halloween. Ed essendo l’arancione il colore per eccellenza di Halloween, lo uso come promemoria per ricordare al mondo quanto io ami questa festa.”
Alec accennò con l’indice alla ciocca arancione nei capelli di Magnus. “Lo vedo.”
“Non giudicarmi, tesoro.”
“Non lo farei mai!” Alzò le mani in segno di resa.
“Bene, perché altrimenti dovrei non invitarti alla mia festa e senza di te sarebbe noiosa.”
Alec rise, scuotendo la testa. “È un modo strano per invitarmi, ma ci sarò. Verranno anche i miei fratelli?”
“Lo chiederò anche a loro, sì.”
“Fantastico, così posso vendicarmi su Jace.”
Magnus alzò un sopracciglio. “Per la tua torta?”
Alec annuì.
“È qualcosa che dovrei sapere?”
Alec negò con il capo.
“D’accordo, allora. Vogliamo ricominciare a correre? Vediamo se riesci a starmi dietro?”
“Mi stai sfidando, Magnus?”
“Se devi chiederlo vuol dire che non sono stato abbastanza chiaro, pasticcino.”
Alec ridusse gli occhi a due fessure. “D’accordo, allora. Corriamo.”
Magnus non se lo fece ripetere due volte.


*


Simon era appena uscito dal suo ufficio. Il suo capo lo teneva a lavorare fino a tardi, ultimamente, perché voleva portare a termine l’ultimo progetto a cui stavano lavorando prima dei tempi stabiliti. Ci daranno un bonus, Lewis, se riusciamo a finire prima. E sai cosa significa? Più soldi per me, più pubblicità per te. E non che a Simon non andasse bene, sapeva che essendo ancora giovane, la pubblicità gli faceva più che bene, ma di certo non avrebbe schifato qualche soldo in più a fine mese anche per sé.
Simon si riteneva piuttosto bravo nel suo lavoro, ma questo nuovissimo videogioco sembrava impossibile da perfezionare. Il suo capo continuava a ripetergli che sapeva che poteva fare di meglio, che l’aveva scelto proprio per le sue idee originali ed era ora che cominciasse a tirarne fuori di grandiose – come se il suo cervello fosse stato un dannato cilindro e si aspettasse di vederne uscire un coniglio da un momento all’altro. Simon ci lavorava giorno e notte – e quando non lo faceva in ufficio, a casa si trovava a riflettere su cosa rendesse effettivamente un videogame grandioso. Mentre si dirigeva verso la fermata della metro, si appuntò mentalmente di fare un sondaggio. Avrebbe iniziato con Max, che in pratica sapeva giocare a qualsiasi cosa esistesse.
Con questi pensieri per la testa, Simon cominciò a scendere le scale della metro, ma il suono del suo cellulare attirò la sua attenzione.
“Pron-”
“Oh, Simon, grazie al cielo hai risposto in fretta! È un’emergenza, devi venire immediatamente qui!”
Il tono allarmato di Isabelle lo fece preoccupare. “Iz, va tutto bene?” Simon si stava già immaginando gli scenari peggiori e il suo cervello iniziò a calcolare quanto avrebbe impiegato a raggiungere  l’appartamento di Isabelle se anzi che prendere il treno, avesse corso.
“È enorme Simon!”
“Mi stai facendo preoccupare, Iz. Calmati e dimmi che succede!”
“C’è una pantegana nel mio appartamento. Una pantegana! Come diavolo ha fatto ad entrare?!” La voce di Isabelle salì di un’ottava, ma Simon si rilassò immediatamente. Di tutti gli scenari apocalittici che si era figurato –  ladri, rapitori, un possibile serial killer – un topo in formato gigante era decisamente una passeggiata, a confronto.
“Sarò lì il prima possibile. Tu intanto… sali di una sedia, o sul tavolo.”
“Sono sul tavolo, in cucina. Dio, quanto odio quelle bestiacce!”
Simon sorrise –  ma non si lasciò andare in nessun modo ad una risata, altrimenti Isabelle l’avrebbe ucciso – e la salutò, terminando la chiamata.
Pensava di aver visto parecchie cose, al mondo, ma mai si sarebbe immaginato di assistere ad Isabelle Lightwood che ha paura di un topo.


Simon aveva una copia delle chiavi dell’appartamento di Isabelle. E davvero mentirebbe se dicesse di non aver fantasticato sul significato di quel gesto, prima che la realtà – saccente, crudele e brutale – gli ricordasse che anche i suoi fratelli ne avevano una. Magari non era nemmeno più friendzonato, ma direttamente brotherzonato e anche se non esisteva come parola, nella testa di Simon aveva comunque un significato a cui non voleva pensare in quel momento.
Se, da amico, poteva avere una possibilità su un miliardo, nel caso in cui Isabelle lo vedesse più come un fratello anche quella sua unica possibilità andava in fumo. Quando immaginava di poter essere un Lightwood, non si riferiva alla fratellanza, quanto piuttosto a diventare il marito di Izzy – e no, non gli importava un granché se di solito erano le mogli a prendere i cognomi dei mariti. Simon pensava che quella fosse una tradizione un tantino maschilista e decisamente retrograda. Era ora che si superasse un concetto simile, che prevede il passaggio da “signorina” a “signora” solo dopo che un uomo ha preso in sposa la donna in questione. Per come la vedeva Simon, Isabelle era già una signora – e non solo perché era dotata di un’eleganza naturale e rara da trovare, ma perché era unica nel suo genere, forte ed indipendente, affettuosa e gentile. Izzy era bella, non solo esternamente. Era bella dentro. E questa era la qualità che Simon preferiva in lei.
“Izzy, sono arrivato.” Si annunciò, aprendo la porta di casa. Percorse il piccolo ingresso dell’entrata che dava sul salotto. Era in ordine e decisamente colorato come sempre. Simon sorpassò il salotto, dirigendosi verso la porta sulla destra che sapeva dava sulla cucina. Trovò Isabelle in ginocchio sul tavolo, i capelli legati in una treccia e con indosso una tuta rosa, composta da pantaloni e una felpa aperta su una canottiera bianca. Era armata di un grosso cucchiaio di legno e Simon la trovò carinissima.
“Oh sei qui, grazie a Dio. È enorme Simon e a me fa schifo da morire!”
“Sai, non pensavo che qualcuno in grado di mettere KO energumeni tre volte più grandi di sé avesse paura di un topo.”
Pantegana, Simon. Sono grosse come zattere.”
“Stai esagerando, adesso.”
“Allora guarda tu stesso! L’ho intrappolata lì sotto!” indicò con il cucchiaio di legno una ciotola di plastica gialla rivolta al contrario sul pavimento, come se fosse una piccola cupola.
Simon alzò un sopracciglio. “Hai intrappolato il mostro lì dentro?”
Isabelle annuì. “Puoi fare qualcosa?”
“Senza alzare la cupola di contenimento, non credo proprio.”
Isabelle sgranò gli occhi e gli puntò addosso il cucchiaio. “Non osare anche solo pensare di liberare quella bestia!”
Simon contrasse le labbra all’interno della bocca per non sorridere. “Iz. Uccidi i ragni per tuo fratello, i ragni. E non i ragni super fighi che ti trasformano in Spiderman, ma quelli schifosi, pelosi e grossi come il Texas. Penso tu possa gestire la vista di questa pantegana, mentre provo a prenderla per sbarazzarmene.”
Isabelle appoggiò il suo cucchiaio sulla superficie del tavolo. “Non devi mai dire ad Alec questa cosa. Detesta che gli altri sappiano che è aracnofobico.”
Simon annuì. “Croce sul cuore. Ora, vuoi scendere dal tavolo e aiutarmi con questo problema?” Le porse una mano, che la ragazza afferrò senza pensarci due volte e scese dal tavolo. Quando Izzy portava i tacchi, era un poco più bassa di lui, adesso che aveva addosso solo dei calzini antiscivolo, la differenza d’altezza si notava di più. Simon fu enormemente tentato di darle un bacio sulla fronte per farla sentire al sicuro, ma lo reputò un gesto fuori luogo e un tantino troppo esplicito. C’è qualcosa che grida maggiormente: sono innamorato di te di un gesto simile?
Forse sì in realtà. Magari un bacio sulle labbra, o una confessione vera e propria, ma Simon non dava baci sulla fronte a chiunque, quindi per come la vedeva lui, un gesto simile era inequivocabile.
“Hai un pezzetto di formaggio, in frigo?”
“Vuoi intrappolarla come in Tom&Jerry?”
“Più o meno, sì.” Fece spallucce Simon ed Isabelle sorrise. La ragazza di diresse al frigo e prese un pezzo di formaggio che consegnò a Simon.
Il ragazzo anche se non era propriamente sicuro di quello che stava per fare, alzò con delicatezza la ciotola e sistemò il pezzo di formaggio vicino al bordo alzato. L’animale, percepito l’odore del cibo, anzi che scappare tirò fuori il naso dalla sua trappola improvvisata e si mise ad annusare il formaggio. A quel punto, Simon sollevò completamente la ciotola e trovò… un criceto.
“Isabelle…” cominciò, parlando alla ragazza che si era nascosta alle sue spalle. “…Hai mai davvero visto una pantegana?”
“No, ma so che sono roditori e che sono grosse. E questo animale è grosso ed è un roditore.”
“Iz, questo è un criceto!”
Isabelle gli balzò davanti, offesa dalle insinuazioni dell’amico. “Mica sono stupida, Simon! So riconoscere un criceto e questo non lo è! Guarda quant’è grosso!”
Simon si chinò all’altezza dell’animale e lo sollevò, adagiandoselo contro il petto mentre il piccoletto finiva di mangiare. “È il criceto della signora Andrews, al piano di sopra. Quella donna ha la tendenza a nutrire qualsiasi essere vivente un po’ troppo… pensa che una volta l’ho incontrata in ascensore e mi ha convinto a mangiare due dei panini che aveva appena comprato perché mi vedeva, citandola, un po’ debilitato. Questo criceto è grosso solo perché lei lo fa ingrassare.”
Isabelle lo fissò confusa e un po’ spaesata, poi portò l’attenzione sull’animaletto. Aveva effettivamente le sembianze di un criceto, anche se era davvero gigante. Si sentì improvvisamente una stupida.
“Ho reagito come la classica damigella in pericolo. Quanto posso essere idiota?”
“Non lo sei per niente. Tutti abbiamo paura di qualcosa. Io detesto gli spazi chiusi, tu hai paura dei topi. Sei solo umana, Isabelle.”
Izzy si rilassò: Simon aveva ragione e aveva l’innata capacità di sapere sempre cosa dire per farla stare meglio o tirarla su di morale. Era un dono speciale.
“Grazie per essere corso in mio soccorso.”
“Quando vuoi, milady.”
Isabelle sorrise e si sporse per lasciare un bacio sulla guancia di Simon. “Portiamo il criceto alla signora Andrews?”
Simon annuì. “Sei consapevole che ci chiederà se ci siamo finalmente sposati, vero?”
“Lo dice sempre e tutte le volte dobbiamo ripeterle che siamo amici. Ma su una cosa ha ragione…”
“Quale?”
“Sei davvero un ottimo partito. E sei molto carino.”
Simon si strozzò con la sua stessa saliva, mentre i neuroni dentro al suo cervello cominciavano a scontrarsi nel panico tra di loro, come se fossero improvvisamente saliti sulle macchine degli autoscontri da ubriachi e non sapessero fare altro se non collidere tra di loro senza nessuna logica.
“Ehm, sì, grazie, credo. Andiamo su?” si affrettò ad aggiungere, per evitare di prestare troppa attenzione al suo cuore impazzito.
Isabelle annuì. Insieme si diressero verso la porta di ingresso, dove Isabelle indossò delle pantofole a forma di unicorno e, prese le chiavi, uscirono di casa con il criceto ancora in braccio.
Direzione: terzo piano.


Di ritorno dal loro incontro con la signora Andrews, che, dopo averli ringraziati, aveva raccontato nei dettagli la fuga di Omero – così si chiamava il criceto – e la sua conseguente preoccupazione, Simon ed Isabelle camminavano nel corridoio che portava dall’ascensore all’appartamento della ragazza al secondo piano. Anche quella volta, si trovò a riflettere Simon, la signora Andrews aveva chiesto se si erano sposati. Siete così belli insieme, cari miei. La gioventù è il momento giusto per il matrimonio. Non aspettate di diventare vecchi, credetemi!
Isabelle tutte le volte le ripeteva che erano soltanto amici e Simon, ogni volta, si trovava a detestare sempre un po’ di più quella parola. Amici. Ogni volta che usciva dalla bocca di Izzy, lui avrebbe voluto dirle: ti amo! – o infilare la testa nel forno per la frustrazione data dalla sua mancanza di coraggio – ma poi si immaginava le conseguenze che una confessione simile avrebbe portato: imbarazzo, la rovina della loro amicizia. Simon non voleva questo. Non voleva che si allontanassero perché, oltre all’amore che provava nei confronti di Isabelle, lei era davvero sua amica. Simon era sicuro che, prima o poi, il momento giusto per confessarle i suoi sentimenti sarebbe arrivato. Prima o poi, il coraggio avrebbe preso il sopravvento su qualsiasi altra emozione e le avrebbe parlato a cuore aperto. Le parole gli sarebbero uscite di bocca con naturalezza, non troppo pretenziose, ma giuste. O almeno, questo era quello che Simon sperava.
Arrivati davanti alla porta, Isabelle inserì la chiave nella toppa e l’aprì.
“Vuoi fermarti a cena? Prendiamo la pizza.”
Simon le sorrise. “Non so dire di no alla pizza.” In realtà non sapeva dire di no ad Isabelle. La ragazza sorrise e lo fece entrare in casa per primo; poi chiamò la pizzeria.


“Ma dimmi onestamente, hai davvero mai avuto dei dubbi su chi fosse il candidato perfetto?” domandò Simon, addentando un pezzo della sua pizza ai funghi. Ne avevano ordinata una formato gigante e avevano chiesto di dividerla a metà, mettendo nella parte di Simon i funghi – perché era vegetariano – e in quella di Isabelle il prosciutto. Se ne stavano seduti sul divano della ragazza, le gambe di Isabelle sul grembo di Simon, mentre lo scatolone della pizza era sul tavolino di vetro davanti al divano.
Alla televisione, stavano guardando Il diario di Bridget Jones, un film che guardavano solo quando erano insieme, negando in presenza di chiunque che fosse – insieme all’intera saga – uno dei loro film preferiti.
“Assolutamente no! Mark Darcy vince a mani basse!” Esclamò Isabelle, dopo aver ingoiato il suo boccone.
Simon sorrise. “Colin Firth vince sempre a mani basse. Lo trovo affascinante persino io!”
Isabelle rise e scosse affettuosamente la testa. “Sei proprio un tipo, Simon Lewis.”
“Questo è quello che dite voi ragazze quando avete a che fare con uno che è un po’ strano e magari anche bruttino.”
Izzy gli diede uno schiaffetto sul braccio. “Smettila! Non è vero. Non sei strano e non sei nemmeno brutto! Sei bello e hai un modo di fare speciale, Simon. Ogni ragazza sarebbe fortunata ad uscire con te.” Lo guardò con i suoi bellissimi occhi neri, che avevano la capacità di fargli mancare il respiro come mai era successo, prima di lei. Simon aveva avuto parecchie cotte, ma niente, niente, era paragonabile alla sensazione che provava ogni volta che Isabelle lo guardava in quel modo. Era quella sensazione che gli aveva fatto capire che si era irrimediabilmente innamorato di lei. Isabelle lo guardava e Simon riusciva quasi a sentire il suo sangue che si trasformava in elettricità, dandogli l’impressione di venire folgorato e rianimato allo stesso tempo. Riusciva a fermargli il cuore e a ridargli vita nel medesimo momento, come se lei stessa fosse fine ed inizio, la cosa più simile a quel concetto di alfa e omega.
Solo Isabelle, con la sua capacità innata di accendere il cuore di Simon.
Allora esci con me, avrebbe voluto dirle, prima che si ricordasse che Izzy aveva un ragazzo. Scacciò tutti i suoi pensieri, accantonò le sue sensazioni e chiese, spostando l’attenzione su di lei, piuttosto che su di sé: “A proposito di Mark, come va con il tuo?”
“Non è il mio. Ci stiamo conoscendo, ancora.”
“Ma lui sembra molto preso da te.”
“Anche a me lui piace. È un tipo carino e gentile, ma è presto per dare delle etichette, ecco. Non è che è già il mio ragazzo. Usciamo, tutto qui.”
Simon annuì, sistemandosi meglio le gambe di Izzy sulle sue. Lasciò le mani appoggiate all’altezza delle ginocchia della ragazza, ma fu un gesto così istintivo e naturale che a nessuno dei due diede fastidio – ne risultò essere fonte di imbarazzo.
Uscite, tutto qui. E lui lo sa?”
Izzy annuì. “Certo, sono stata sincera. Gli ho detto che vorrei conoscerlo meglio, prima di buttarmi in una relazione a capofitto. Sai come sono finite tutte le mie relazioni che sono iniziate principalmente con il sesso. Quando si finiva di stare avvinghiati, le conversazioni erano spesso deboli e mentalmente non avevo nessun tipo di connessione. Vorrei avere qualcosa di diverso, un rapporto vero, che vada al di là della fisicità. Ma voglio andarci piano, questa volta. Evitare di affrettare le cose e rimanerci male nel caso non dovessero finire bene.”
Simon zittì quella vocina malefica nella sua testa che gli stava suggerendo che loro avevano una connessione mentale, un’intesa che permetteva loro di capirsi anche solo con uno sguardo, senza aggiungere una parola. Non voleva prestarle attenzione, a quella vocetta. Cos’era, un’auto-sabotaggio? Persino il suo subconscio gli remava contro, adesso, ricordandogli quello che avrebbe voluto, ma che non aveva?
“Prenditi il tuo tempo, tutto quello di cui hai bisogno. Lui aspetterà a dare un’etichetta al vostro rapporto e nel mentre imparerà a conoscerti. Una volta che avrà visto che persona sei, capirà che ne è valsa la pena aspettare.” E forse stava parlando anche un po’ per se stesso, perché davvero per lei avrebbe aspettato fino alla fine dei suoi giorni, se solo avesse saputo di avere una possibilità. Ma lo pensava sul serio. Al di là di se stesso, era sincero. Non c’era egoismo nelle sue parole, solo la pura verità. Isabelle era una ragazza per la quale valeva la pena aspettare. Una volta che lei aveva capito di potersi fidare abbastanza della persona che aveva di fronte, si mostrava esattamente per quello che era – e se uno poteva trovala bellissima all’esterno, avrebbe capito che dentro lo era ancora di più.
Isabelle era come quel sasso che, una volta aperto, mostra al suo interno l’opale più bello che possa esistere.
La ragazza sorrise, un sorriso ampio che le andava da orecchio ad orecchio e spostò le gambe dal grembo di Simon solo per riuscire a mettersi in ginocchio sul divano e sporgersi verso di lui per abbracciarlo stretto stretto. “Come farei senza di te, Simon Lewis?”
“Ce la faresti comunque, sei tipo la Wonder Woman dei tempi moderni.” Rispose e Isabelle rise contro il suo orecchio. Simon si unì a lei. “Sono serio, Izzy,” continuò. “Non sento nemmeno la necessità di dirti che se dovesse farti soffrire ci penserei io perché se lo facesse, sapresti cavartela benissimo da sola. Mi farebbe anche un po’ pena, se devo dirla tutta.”
“Stai esagerando, adesso!” Esclamò Isabelle, sciogliendo l’abbraccio.
“Non esagero, dico la verità. Ma, se dovesse farti soffrire, e vuoi un aiuto per fargli una bella ramanzina, puoi contare su di me!”
“Grazie.” Sussurrò Iz, prima di sporgersi e lasciargli un bacio sulla guancia. Simon sorrise come un bambino a cui era appena stato comprato il gelato.
Rimasero insieme tutta la sera, finirono la pizza e guardarono due film su tre della saga – e il terzo lo mancarono solo perché Simon cominciava ad avere sonno e pensò che fosse meglio tornare a casa sua, farsi una doccia e buttarsi a letto.
Dopo essersi salutati, con un abbraccio e la promessa di non raccontare a nessuno – soprattutto ai fratelli di Isabelle – l’incidente con il topo/criceto, Simon, in viaggio a piedi verso la metro, pensò che era fortunato. Aveva Isabelle nella sua vita e, per adesso, gli bastava.


*


Alec camminava verso la scuola di Magnus. Era quasi ora di cena e lui aveva appena finito il suo turno. Durante la sua pausa, nel pomeriggio, lui e Magnus si erano scambiati qualche messaggio e il ballerino l’aveva invitato a cena a casa sua. Alec si era offerto di passarlo a prendere e andare a casa insieme. Non si vedevano da qualche giorno e Alec era inspiegabilmente elettrizzato all’idea di rivederlo. Se, di norma, tendeva a passare i suoi sabato sera con Maia, Isabelle e Simon all’Hunter’s Moon, quel sabato in particolare l’avrebbe passato con Magnus – e l’idea lo rendeva più felice di un giro di bevute.
Nulla da togliere al tempo che passava con sua sorella e i suoi amici, ma Alec a volte aveva anche bisogno di tranquillità. E poi, doveva ammettere con se stesso, passare del tempo con Magnus gli piaceva, quindi quando gli aveva proposto di fare qualcosa insieme, Alec aveva provato una strana euforia infantile. Non voleva dare troppo peso a quella sensazione, più che altro per non crearsi dei castelli costruiti sull’aria. Contro ogni logica – e Alec ne usava tanta, troppa se lo si chiede ad Isabelle – aveva deciso di non interpretare niente, di non analizzare il rapporto che avevano lui e Magnus. Decise semplicemente che si sarebbe goduto la loro amicizia, senza pensarci troppo.
Aprì la porta a spinta della scuola di Magnus e percorse il corridoio che portava alla grande sala da ballo dove si tenevano le lezioni. Quando la raggiunse, notò immediatamente Magnus. Si era tagliato i capelli, rasandoli ai lati e lasciandoli lunghi al centro. Erano tenuti bassi e pettinati da una parte – la ciocca arancione era ancora presente e Alec, istintivamente, sorrise. Indossava una maglietta a maniche corte bianca e un paio di pantacollant azzurri; ai piedi portava ancora le scarpette da danza classica. Alec non fece in tempo a cercare anche Erin con lo sguardo, che notò l’interlocutore di Magnus. Di norma, sapeva che poteva capitare che qualche genitore si fermasse a parlare con lui riguardo i progressi delle figlie, ma quel tipo sembrava stesse tenendo una conversazione del tutto diversa.
“Dai, Magnus, sarà divertente. Faremo come ai vecchi tempi.” Disse il tizio e Alec ebbe la conferma che di certo non era lì per parlare di figli.
Magnus, tuttavia, sembrava a disagio davanti a quel tipo. “Ti ringrazio, ma…”
L’altro alzò una mano come per zittirlo e quel gesto infastidì Alec. “Non provare a rifilarmi una scusa. So già che hai detto a Sophia che ci sarai. Saremo lì entrambi, io sono in città, e in passato insieme ci siamo divertiti. Non vedo perché non dovremmo farlo.”
Alec non seppe davvero cosa gli passò per la testa, o per quale motivo non riuscì a tenere chiusa la bocca. Forse fu la sensazione di vedere Magnus a disagio, o l’impressione che provò, guardandolo: Magnus sembrava stesse cercando un modo gentile per rifiutare quel tipo senza essere scortese.
“Forse perché ha detto di no? È chiaro che non voglia farlo, quindi perché insisti?” La sua voce echeggiò tra le mura della stanza e i due uomini si voltarono verso di lui, che era rimasto in piedi alla fine del corridoio – o l’inizio, se lo si guardava dalla prospettiva del ballerino e del suo interlocutore.
Non appena Magnus lo vide, gli angoli della sua bocca inevitabilmente si alzarono. Notando quel gesto, Alec si avvicinò ai due, fino a che non li raggiunse. L’uomo che stava parlando con Magnus era decisamente bello, discretamente alto – ma non quanto Alec – con dei tratti del viso marcati. Aveva occhi neri, capelli ricci dello stesso colore e una carnagione olivastra.
Stava guardando Alec con un sorriso, mentre i suoi occhi percorrevano la sua intera figura con interesse. “Lui è il motivo per cui non vuoi venire con me?”
“Ehm, sì.” Disse Magnus, lanciando uno sguardo ad Alec, una silenziosa richiesta di reggergli il gioco.
“Oh, Magnus, hai sempre avuto dei gusti ottimi. Sul serio, tra te e lui non so chi guardare.” L’uomo guardò Alec ancora una volta – e onestamente, tutte quelle attenzioni non richieste infastidirono il medico anche un po’ – prima di guardarlo dritto negli occhi. “E hai un bel caratterino, non è vero? Ma non hai bisogno di essere geloso, so quando devo tirarmi indietro. Anche se, se tu non fossi impegnato con Magnus, potrei perdere la testa per uno come te.”
“Tu perdi la testa per chiunque abbia un bel viso, Imasu.” Commentò Magnus, più pungente di quanto in realtà avesse voluto.  Perché poi? Gli dava forse fastidio che guardasse Alexander con interesse? Che i suoi occhi percorressero lascivi tutta la sua figura?
Forse un po’, ma scacciò immediatamente quel pensiero. Era assurdo. Lui e Alec erano amici. Amici.
“Oh, ritira gli artigli, Magnus. Non infastidirò il tuo bello, e nemmeno te, se è per questo.” Fece una pausa, lisciandosi il cappotto che indossava. “Ci vediamo domani sera. Non vedo l’ora di rivedervi.” Ammiccò, con un sorriso smagliante rivolto ad entrambi e lasciò la sala.
Solo quando Alec sentì la porta chiudersi, si rivolse a Magnus. “Puoi spiegarmi cos’è appena successo?”
“Sì, ma prima vieni nel mio ufficio. Ho lasciato Erin lì e non voglio stia troppo sola.”
Alec annuì e insieme si diressero verso l’ufficio di Magnus.


Trovarono Erin seduta alla scrivania di Magnus, intenta a disegnare. Quando la bambina si accorse del padre sorrise, e il suo sorriso si allargò ulteriormente quando notò che c’era anche Alec.
Scese dalla seggiola girevole – decisamente alta per una bambina della sua età – e corse in contro ai due.
“Alec!” esclamò e l’uomo, istintivamente, si chinò all’altezza della bambina. Allargò le braccia e la piccola si buttò al suo interno, stringendo le proprie al collo di Alec, il quale rise.
“Ciao, piccolina. Come stai?” La sollevò, prendendola in braccio. Erin lo lasciò fare e Magnus, per poco, non si mise a piangere di gioia. Non capitava spesso che  Erin desse confidenza a persone che conosceva da poco. Anzi, non era mai capitato. Eppure, con Alec si comportava come se lo conoscesse da sempre ed era molto espansiva con lui. L’unica persona con cui si comportava in quel modo, oltre a Magnus, era Madelaine. Per quanto Erin fosse legata a Catarina o a Raphael e Ragnor, quando li salutava era molto più pacata.
“Bene.” Rispose la bambina. “Ho fatto un disegno, vuoi vederlo?”
Alec annuì e si diresse verso la scrivania con Erin in braccio. Trovò un foglio dove sopra c’erano disegnate due donnine stilizzate, con le gambe e le braccia a stecco. Dai tutù rosa, tuttavia, Alec dedusse potesse trattarsi di Erin e Diana. Soprattutto perché una aveva i capelli neri e l’altra biondi – capelli, che non erano altro delle righe  disegnate con due pennarelli diversi.
“Siete tu e Diana?”
La bambina annuì. “Diventeremo principesse ballerine, da grandi. Avremo un regno dove balleranno tutti.”
“Oh, ma davvero?” Solo allora, Alec notò le coroncine stilizzate sulle teste delle bambine disegnate.
Erin annuì.
“Sembra davvero molto bello.” Commentò Alec ed Erin sorrise.
Magnus sentì il cuore che batteva un po’ più forte, ma decise di non concentrarsi su quella sensazione. Se non altro perché lo stava portando in una direzione che vedeva come protagonisti lui e Alec, insieme. E non poteva lasciarsi andare a fantasie del genere ogni volta che Alec prendeva in braccio Erin. Primo: perché non voleva fare la figura del pazzo che non appena vede la figlia legare con un uomo – per quanto meraviglioso possa essere – pensa a sposarselo; due: perché aveva appena ricordato a se stesso che lui e Alexander erano amici.
“Qualcuno ha fame?” domandò, inserendosi nella conversazione tra Alec ed Erin. Entrambi lo guardarono.
“Sto morendo di fame!” esclamò Alec e Magnus sorrise.
“Allora vogliamo andare? Decideremo cosa mangiare nel tragitto.”
Alec annuì e, dopo che Magnus ebbe sostituito le scarpette da danza con delle sneakers, uscirono dalla scuola. Dopo averla chiusa con le dovute misure di sicurezza, si avviarono per la strada verso casa, pensando a cosa avrebbero potuto ordinare d’asporto.


*

“Sul serio, non penso tu abbia davvero idea di cosa significhi cibo da asporto, Alexander.” Commentò Magnus, una volta messo piede nel loft. Si voltò alle sue spalle, dove Alec era rimasto fermo sulla soglia con un sacchetto in mano, pieno di cibo che andava cucinato.
“Mi sembrava scortese non fare niente, visto che mi hai invitato. Quindi cucinerò per sdebitarmi.”
“Non devi sdebitarti di niente.” Magnus abbassò la voce e coprì le orecchie di Erin. “E in caso contrario, mi sarei accontentato di vederti senza maglietta.” Ammiccò e Alec, ovviamente, arrossì – ma non demorse.
“Sei meno complicato del previsto, se si tratta di nudità.”
“Della tua nudità.” Specificò. “Chiamala pura curiosità. Solo a scopo scientifico, puramente disinteressato.” Magnus tolse ad Erin il giubbottino e lo sistemò sull’attaccapanni all’ingresso. “Allora, visto che hai deciso di fare la spesa, senza farmi pagare la metà,” Lo guardò serio, consapevole di aver perso quella battaglia al supermercato solo qualche minuto prima, nonostante avesse insistito. Insomma era lui che l’aveva invitato a cena, mica poteva fargli pagare la cena. Ma Alec era di altre vedute: siccome era stato invitato e fino ad ora si erano quasi sempre visti nel loft di Magnus, pensava che fosse giusto che almeno facesse qualcosa – il che implicava preparare la cena.  “Sistemati pure in cucina.” Concluse Magnus. “Fai come se fosse casa tua, confettino. Io faccio il bagnetto ad Erin e ti raggiungo.”
Alec sorvolò sul soprannome, ma a Magnus non sfuggì l’occhiata che gli lanciò. Era divertente trovargli soprannomi simili solo per vederlo corrucciarsi. Era tremendamente carino.
“Fai con calma.” Il medico posò un attimo la busta a terra e si tolse il giubbotto, che appese all’attaccapanni. Rimase solo con un paio di jeans strappati sulle ginocchia e un maglione grigio che un tempo sicuramente era stato nero; le maniche così allungate a forza di tirarle, che arrivavano a coprire metà palmo delle mani.
“Sai dov’è la cucina.” Gli sorrise e quando Alec ricambiò annuendo, Magnus sentì un sentimento strano alla base del suo cuore – qualcosa che aveva seppellito da tempo e che non provava da anni: intimità.
Era sempre stato abituato all’idea che un concetto simile richiamasse necessariamente il contatto fisico, spesso l’atto sessuale in sé, due corpi che si sfiorano.
Aveva dimenticato che intimità, oltre alla fisicità, implica anche altro. Implica sentirsi a proprio agio all’idea che qualcuno prepari la cena in casa sua, mentre lui è in un’altra stanza a fare il bagno alla sua bambina. Implica complicità.
Ed era una cosa che con Alec stava riscoprendo.
“So dov’è la cucina.” Confermò Alec. “Adesso correte a lavarvi. Anche tu, Magnus.”
“Mi stai nemmeno troppo velatamente dicendo che puzzo, confettino?”
Alec ridacchiò. “No, ti sto dicendo che hai lavorato tutto il giorno, sudando, e non ti fa bene rimanere con il sudore addosso. Fatti una doccia, o rischi di ammalarti.”
“Come dici tu, dottore.” Magnus si avvicinò, riducendo la distanza che c’era tra di loro. Gli appoggiò una mano a palmo aperto sul petto, all’altezza dello sterno. “Sei carino quando fai il premuroso, lo sai?” Sussurrò, prima di lasciargli un bacio sulla guancia.
Alec arrossì repentinamente. Tu sei carino sempre, avrebbe voluto rispondergli, ma le parole gli morirono in gola. Forse perché il suo cuore batteva talmente forte da otturarla e impedire a qualsiasi suono coerente di uscire. Ma Magnus, come sempre, capì i suoi silenzi. Non si faceva mai scoraggiare da essi, era come se capisse che, a volte, il carattere chiuso di Alec prendeva il sopravvento su tutto e gli impedisse di aprirsi totalmente.
“Vado, allora. Se hai bisogno di qualcosa chiama.”
Alec annuì, deglutendo nel tentativo di togliersi il cuore dalla gola e rimandarlo nel petto, dov’era giusto che stesse. Osservò Magnus dirigersi verso il corridoio che dava alle camere con Erin e, inevitabilmente – anche se si stava dando dell’imbranato colossale – sorrise.


“Vediamo, di cosa potrei avere bisogno, adesso?” Domandò Alec ad Erin. La piccola, dopo il bagnetto, era rimasta con lui in cucina, mentre Magnus era andato a farsi la doccia. Nella situazione attuale, Erin era stata promossa ad aiuto cuoco e sembrava parecchio felice della cosa.
Alec aveva in programma di cucinare del pollo in salsa di soia, semplificando un pochino la ricetta in modo che risultasse commestibile anche per Erin.
La bambina, seduta al tavolo, adocchiò il pollo fatto a cubetti radunato su un tagliere e sorrise, come se avesse appena risolto un grosso mistero.
“Del pollo! Hai bisogno del pollo!” Esclamò.
Alec, davanti al piano cottura dove aveva messo una padella sul fuoco, si picchiettò la fronte con il palmo della mano. “Giusto! Grazie, chef!”
Erin ridacchiò e guardò Alec che prendeva il tagliere e sistemava il pollo dentro alla padella, dove lo lasciò rosolare insieme alla salsa di soia e al miele. Il pollo sfrigolò e Alec abbassò un tantino il fuoco, prima di allontanarsi per cercare qualcosa con cui mescolarlo senza rischiare di farlo bruciare.
“Sai dove papà tiene i cucchiai di legno?”
Erin annuì. “Nel cassetto proibito.”
Ad Alec venne da sorridere. Non era difficile immaginare perché fosse proibito. “E puoi dirmi qual è?”
La bambina indicò un cassetto proprio sotto al piano cottura, chiuso con un’apposita chiusura anti-bambino. La casa di Jace e Clary era piena zeppa di quegli aggeggi. Alec lo aprì e trovò sia ciò che cercava, sia il motivo per cui Erin non doveva avvicinarsi a quel cassetto: una serie di coltelli, più o meno affilati che avrebbero provocato parecchi danni, se fossero accidentalmente finiti nelle mani di una bambina.
Estrasse un cucchiaio di legno e richiuse il cassetto, con tanto di misura di sicurezza. Erin non si perse una mossa e Alec lo notò. Era una bambina genuinamente curiosa e mai invadente.
“Vuoi aiutarmi a mescolare?”
“Non posso stare vicino al fuoco. Lo dice papà.”
“Papà ha ragione, ma vicino al fuoco ci starò io. Tu puoi stare in braccio, se vuoi, e mi aiuti a mescolare.”
Gli occhi ambrati della bambina luccicarono di entusiasmo. Annuì e allungò le braccia in direzione di Alec, il quale abbandonò la sua postazione per dirigersi verso il tavolo. La sollevò e se la sistemò sul fianco sinistro, in modo da avere il braccio destro libero. Tornato davanti al piano cottura, Alec si sistemò di tre quarti, in modo che Erin fosse lontana da ogni possibile schizzo di salsa bollente o dal fuoco.
La bambina aveva un braccio intorno al collo di Alec, ma usò la mano libera per appoggiarla sopra a quella del medico e aiutarlo nell’ardua impresa di girare il pollo nella salsa. Alec si trovò a sorridere. La manina di Erin era così piccola a confronto con la sua che gli fece molta tenerezza. Gli ricordò le volte che lui e Diana avevano giocato con il pongo e sua nipote diceva sempre che per lui era più facile modellarlo perché aveva le mani grandi.
“Che state facendo?” domandò Magnus, entrando in cucina. Non si erano accorti di lui e per un attimo era rimasto a guardarli appoggiato allo stipite.
Non appena udì la sua voce, tuttavia, Alec si voltò nella sua direzione e sorrise. Magnus aveva pettinato i capelli tenendoli bassi da una parte – di solito, portava la cresta alta – ed era senza trucco. Alec lo reputava bello anche così, gli sembrava più naturale. Portava un paio di pantaloni di una tuta grigi – Alec cercò di non prestare attenzione al fatto che fossero un tantino aderenti, soprattutto sulle cosce. I suoi sforzi, ovviamente, furono inutili – e un maglione rosso e peloso.
“Cuciniamo, papà!” Rispose Erin, entusiasta. “Aiuto Alec a mescolare, ma non sto vicino al fuoco. Ci sta lui. Lui può perché è grande, vero?” domandò, rivolgendosi al padre. Magnus notò Alec che sorrideva e non poté fare a meno di sorridere a sua volta. I ragionamenti di Erin gli scaldavano sempre il cuore.
“Vero, bintang.” Annuì e si avvicinò ai due. “Cosa preparate di buono?” domandò, mettendosi al fianco di Alec. Erin adesso si trovava tra loro due.
“Pollo in salsa di…” La bambina guardò Alec in cerca di aiuto, così lui le sussurrò la parola che non si ricordava all’orecchio. “Soia!” Concluse la piccola.
Magnus le lasciò un bacio sulla guancia. “Sembra davvero buonissimo.” Poi guardò Alec e per un momento gli sembrò strano non baciarlo. C’era così tanta intimità, sintonia, come se facessero cose simili tutti i giorni e si conoscessero da sempre. A volte, quando si guardavano, gli sembrava stranissimo che si conoscessero da poco e non da una vita intera. Distolse lo sguardo, sentendosi improvvisamente vulnerabile, anche se non aveva pronunciato nemmeno una parola dei pensieri che gli ronzavano in testa – quasi temesse Alec riuscisse a leggergli la mente. “Apparecchio.” Disse, distogliendosi totalmente dal treno dei suoi pensieri.
“Posso aiutarti, se aspetti un pochino.”
“Non dire sciocchezze, girasole. Stai già preparando da mangiare. Non posso mica farti fare tutto!” Gli sorrise e, prima di dirigersi verso la dispensa per prendere i piatti, gli lasciò una carezza sulla schiena.
Amici o no, Magnus aveva capito che gli piaceva avere qualsiasi tipo di contatto con Alexander. Di conseguenza, approfittava di ogni occasione per poterlo anche solo sfiorare.



Dopo cena e dopo qualche chiacchiera, Erin aveva avvertito una certa sonnolenza. Si era strofinata un occhietto con il dorso della mano e aveva chiesto a Magnus se poteva andare a dormire.
«Ma certo, bintang. Andiamo a lavarci i denti.» Si era alzato dal tavolo e aveva preso in braccio la figlia, che immediatamente aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Magnus sospettava che sarebbe crollata nel giro di pochissimo tempo.
«L’asilo e le lezioni di danza la stancano. Vado a metterla a letto. Mi aspetti qui?»
Alec aveva annuito e Magnus si era diretto con Erin verso l’uscita della cucina. Solo quando fu sull’uscio, sembrò realizzare qualcosa, che lo spinse a voltarsi di nuovo verso il suo ospite. «E non azzardarti a sparecchiare o a lavare un piatto, intesi? Ho una lavastoviglie, per quello, e tu per stasera hai fatto abbastanza!» Lo aveva ammonito, con tanto di indice alzato e il suo tono paterno da non ammetto repliche. Ad Alec altro non era rimasto da fare che alzare le mani in segno di resa e obbedire.
Magnus in ogni caso era tornato dopo pochissimo e aveva trovato Alec ancora seduto al tavolo.
Adesso, si trovavano entrambi in piedi, uno di fianco all’altro. Magnus con le mani immerse nel lavandino a sciacquare piatti e padella, Alec che lo guardava con le braccia incrociate al petto.
“Perché non posso aiutarti?”
“Perché sarei un padrone di casa pessimo, se ti lasciassi fare tutto.” Magnus aprì la lavastoviglie e ci sistemò i piatti che aveva appena finito di sciacquare. Aprì uno sportello sotto al lavandino e ne estrasse una scatola di cartone che conteneva le pastiglie per la lavastoviglie. Una volta sistemata la pastiglia, avviò il lavaggio. “Finito.” Batté le mani in uno schiocco. “Vuoi da bere?”
Alec sorrise e annuì. Si diressero insieme verso il salotto, dove Magnus aveva il suo angolino per i liquori. Quel mobiletto rigorosamente chiuso a chiave. Alec sospettava che anche quello fosse una zona della casa che veniva associata alla parola proibito da Erin.
Alec osservò Magnus versare del whiskey in due tumbler bassi e poi passargliene uno. Si diresse verso il divano, dove si sedette con più grazia di quanto davvero fosse necessario. Alec, mentre si sedeva a sua volta, pensò che evidentemente a Magnus veniva naturale muoversi in quel modo. Non lo faceva di proposito, era più che altro istinto, o natura.
Magnus era naturalmente aggraziato, elegante. Ad Alec piaceva.
“Direi che dobbiamo parlare.” Cominciò Magnus, guardando Alec alla sua sinistra.
“Questa frase non preannuncia mai niente di buono. È così grave ciò che devi dirmi?”
“Grave, no. Ma penso di averti messo in una situazione che non ti piacerà.”
“Fare finta di essere il tuo ragazzo davanti a qualcuno che chiaramente non volevi avere intorno non mi disturba, Magnus. Tu l’hai fatto con me.”
“Non è quello… anzi, a proposito, grazie. È ciò che Imasu ha detto dopo che penso non ti piacerà.”
“Mettimi alla prova.”
Magnus bevve un po’ del suo whiskey. “Due volte al mese, vado a ballare da una mia amica, Sophia. È un’insegnante di tango. Lei organizza serate alle quali chiunque può partecipare, ballerini professionisti o amatoriali non importa. È solo per divertirsi e, onestamente, a volte ne ho bisogno. Sai, ricordarmi che la danza non è solo il mio mestiere, ma una vera e propria passione.” Alec annuì e Magnus continuò: “Una delle due volte, di questo mese, sarebbe domani. E Imasu era lì, prima, per chiedermi di ballare con lui. Ha visto te e ha pensato che, stando insieme, il motivo per cui gli stavo dicendo di no fosse perché ballerai tu, con me. So che farlo in pubblico ti imbarazza, ma mi faresti un enorme favore. Ricambierò, prometto.”
Era vero. Ad Alec la sola idea di ballare lo metteva in imbarazzo, figuriamoci farlo in pubblico e insieme a Magnus, che era un ballerino professionista. Lui a confronto avrebbe fatto la figura del pezzo di legno. Ma questa serata per Magnus sembrava importante, quasi tanto quanto lo era l’evitare di ballare con Imasu, quindi Alec decise che era sicuramente più forte la voglia di aiutarlo, che il suo imbarazzo.
“Lo farò.” Disse, quindi.
Magnus gli buttò le braccia al collo, abbracciandolo stretto. Alec ricambiò – facendo attenzione a non versare il whiskey sul divano – cingendogli la schiena. Il suo profumo invase le narici di Alec, che sospirò impercettibilmente. Riuscì chiaramente a percepire la propria pelle che veniva ricoperta di brividi, come se persino il suo corpo gli stesse comunicando quanto quel profumo fosse in grado di ammaliarlo. 
“Grazie, tesoro!” Gli sussurrò all’orecchio, prima di sciogliere l’abbraccio.
“Non ringraziarmi.” Alec gli sorrise, un solo angolo della bocca alzato. “Ti pentirai di avermelo chiesto non appena mi vedrai ballare.”
“Ti ho già visto ballare. Non sei male, ti serve solo qualcuno che ti guidi. E domani lo farò io.”
Alec annuì e abbassò lo sguardo sul suo bicchiere. Il liquido ambrato intrappolò i suoi occhi il tempo necessario affinché trovasse il coraggio di chiedere: “Siete stati insieme? Tu e Imasu, dico… puoi non rispondere, se non vuoi parlarne.”
Magnus alzò la mano che aveva libera, in un gesto silenzioso che stava significare che quella domanda non provocava nessun tipo di problema. “Sì, siamo stati insieme. Due anni fa. Lui è un amico di Sophia – sono entrambi peruviani, si conoscono da quando erano bambini, in pratica. Lei me l’ha presentato perché, a quanto diceva, era stufa di vedermi triste. Io e Camille ci eravamo lasciati da due anni e non avevo avuto nessuno, dopo di lei. Non mi sentivo totalmente pronto a riaprirmi a qualcuno, ma pensai che potevo fare un piccolo sforzo, vedere come andava… così ho accettato la proposta di Sophia. Mi ha presentato Imasu, un musicista che girava per il paese con la sua band. All’inizio l’ho trovato davvero interessante: era pieno di storie da raccontare, aveva visto posti che avevo visto anche io e spesso ci trovavamo a discutere sulle abitudini e le usanze dei paesi che avevamo visitato. Pensavo ci fosse sintonia, ma poi gli ho parlato di Erin e tutto è cambiato. Diceva che non era pronto a stare con qualcuno che non l’avrebbe messo al primo posto. Gli pesava l’idea che ci sarebbe sempre stata una bambina tra di noi. Mi è dispiaciuto, perché mi stavo davvero affezionando a lui, ma capisci che se devo scegliere tra qualsiasi persona e la mia bambina, io sceglierò sempre Erin. Così ci siamo lasciati.”
Alec era rimasto in silenzio ad ascoltare. La sua mente venne invasa dalle immagini di Imasu che guardava Magnus come se fosse la cosa più bella del pianeta, come se ancora lo desiderasse. Provò una strana fitta al cuore, un sentimento pungente ed invadente che assomigliava alla gelosia. Ma non poteva essere gelosia, giusto? Lui e Magnus non avevano quel tipo di rapporto. In un’amicizia, quel genere di gelosia non esiste.
“Penso sia ancora preso da te.” Sussurrò. “Da come ti guardava, si vedeva che gli interessi ancora.”
“Non penso. Più che da me, penso fosse attratto dall’idea di me. Voleva rivivere quell’emozione bruciante che abbiamo vissuto all’inizio. Gli inizi sono sempre entusiasmanti. Ma è quando i rapporti, inevitabilmente, si complicano che capisci chi è che vuole restare al tuo fianco, indipendentemente da tutto, e chi no. Imasu fa parte della seconda categoria. Non gliene faccio una colpa, non fraintendermi, semplicemente vogliamo cose diverse.”
“E tu cosa vuoi?”
“Stabilità, Alexander.”
Alec annuì. Non è un po’ quello che vogliono tutti? Sentirsi stabili, avere la sensazione di avere il controllo. Una delle sensazioni peggiori che si possano provare è quella di sentirsi mancare la terra sotto ai piedi. Gli esseri umani agognano la sensazione di sicurezza per tutta la vita, per questo esistono le confort zone, zone nelle quali ci si sente a proprio agio, nelle quali il mondo fa meno paura.
Alec lo capì in pieno. “Sono sicuro che c’è qualcuno per te, Magnus. Qualcuno che ti darà quello che vuoi e ti farà sentire bene.”
“Lo spero.” E mentre, sorridendo, i suoi occhi si posarono su Alec, si domandò se, in fondo, non l’avesse già trovato qualcuno di simile. Se il destino, il fato, o chi per esso, gli stesse dicendo che non doveva cercare lontano, che la soluzione era proprio lì davanti ai suoi occhi.
Forse devi smettere di cercare, gli sussurrò la coscienza. E Magnus, per un minuscolo lasso di tempo, si permise di sperarci.


*


Domenica sera, Magnus, con Erin al proprio fianco, si trovava davanti alla porta dell’appartamento della madre. Non vivevano poi tanto lontani l’uno dall’altra, quindi aveva potuto muoversi tranquillamente a piedi. Bussò e rimase in attesa.
“Amori miei!” esclamò Madelaine, salutandoli, non appena aprì la porta.
“Ciao, ibu.” Magnus si sporse per darle un bacio sulla guancia, mentre Erin alzò le braccia, in una richiesta di essere sollevata. Madelaine non se lo fece ripetere e la prese in braccio, riempiendola di baci. La bambina ridacchiò, felice.
“Come state?”
“Bene,” rispose Magnus, entrando in casa non appena sua madre gli fece spazio. Aveva ancora un po’ di tempo prima dell’incontro con Alexander. “E tu?”
“Tutto bene.” Madelaine lo guardò e un sorriso fece capolino sul suo viso. “Come mai sei così bello, stasera?”
Magnus aveva passato ore a prepararsi. Si era truccato gli occhi usando del kajal per la parte inferiore – aveva letto che dava l’effetto di intensificare lo sguardo ed evidenziare il colore degli occhi – e dandosi dell’ombretto dorato sulle palpebre. Aveva pettinato i capelli in modo che la sua cresta risultasse perfetta e ordinata, con il ciuffo arancione che spiccava orgoglioso. Aveva indossato un paio di aderenti pantaloni grigio scuro, abbinati ad una camicia color oro, ricoperta di minuscoli brillantini, i cui bottoni iniziali erano sbottonati, mostrando varie collane.
“Io sono sempre bello, ibu.” Magnus si lisciò il cappotto scuro che teneva aperto.
“Oh, questo lo so, tesoro. Ma stasera lo sei particolarmente. C’è un motivo specifico?” Madelaine lo guardò con malizia. “Un compagno di ballo speciale?” Aggiunse e Magnus si chiese se sua madre non fosse in grado di leggergli nel pensiero. La donna non sapeva che si doveva vedere con Alexander, sapeva solo che, come ogni mese, quando Magnus andava a ballare lei teneva la bambina.
“Dai per scontato sia un maschio?”
“Do per scontato sia Alec, tesoro.”
Magnus la guardò arrendevole. “E hai ragione.” Come diamine ci riusciva?
La donna sorrise, vittoriosa, ma non disse nulla.
“Ieri Alec è venuto a trovarci.” Disse Erin, udendo quel nome. “Abbiamo cucinato, mentre papà si faceva la doccia.”
Madelaine alzò un sopracciglio e fece passare lo sguardo dalla nipote al figlio. “Ma davvero?”
Magnus sapeva che non poteva sfuggire a quello sguardo che vede anche cose che non sono avvenute in sua presenza e capisce cose che Magnus non aveva detto, così si arrese – mentre la convinzione che sua madre fosse una specie di sacerdotessa voodoo si faceva sempre più strada in lui. Doveva per forza avere dei poteri sovrannaturali, giusto? Altrimenti come faceva a capire sempre tutto?
“Davvero. Siamo prima andati a fare la spesa, poi ha insistito tanto per cucinare perché l’avevo invitato. È venuto a prendermi al lavoro, ed essendo preoccupato che potessi ammalarmi, avendo sudato tutto il giorno, mi ha detto di fare una doccia mentre lui teneva d’occhio la bambina.”
Madelaine ascoltò in silenzio, poi arricciò le labbra e si picchiettò il mento con la mano libera. “Quindi mi stai dicendo che mentre cucinava la cena per te, ha passato del tempo con tua figlia, mentre tu eri in un’altra stanza a fare la doccia?”
“Puoi smettere di fare insinuazioni, per favore?”
Madeline fece spallucce. “Io non sto insinuando niente, anakku, espongo solo i fatti per vedere se ho capito bene. Il fatto che tu pensi che io possa insinuare qualcosa, forse altro non è che il riflesso delle tue insinuazioni  nelle mie.”
“Non credo di aver capito.” La guardò, un tantino confuso. Non era sicuro di aver effettivamente capito il punto, anche se si era fatto una vaga idea.
“Io penso che invece tu l’abbia fatto.” Madelaine si avvicinò al figlio e gli accarezzò una guancia. “Adesso vai alla tua serata, tesoro. Ci vediamo domani mattina.”
Magnus non sapeva davvero come ribattere alle insinuazioni della madre, quindi decise di non farlo. Non era esattamente certo di essere d’accordo con lei, ma non era certo nemmeno di essere in disaccordo con lei. Era un vero casino, quindi decise di smettere di pensare e darle ascolto almeno su un punto: andare al suo incontro con Alec.
Salutò la madre e la figlia, riempiendo quest’ultima di baci – la scorta per quelli della buonanotte, le disse – e si diresse alla porta, uscendo – ignaro del fatto che sua madre stesse ancora sorridendo. Magnus non poteva rendersene conto, ma una madre riesce a percepirle certe cose – e suo figlio irradiava un’aura che Madeline non vedeva da parecchio tempo. Magnus sembrava felice, ma questo il diretto interessato doveva ancora capirlo.


*


Alec era nervoso. Stava davanti all’indirizzo che gli aveva mandato Magnus e si torturava le mani. Si sentiva già inadatto ad un posto simile e nemmeno era ancora entrato. Sospettava che quella sala fosse piena di persone in grado ballare egregiamente, mentre lui non era in grado di fare due passi senza rischiare di inciampare o pestare i piedi a qualcuno. Se non fosse che l’aveva promesso a Magnus, a quest’ora sarebbe già fuggito a gambe levate. Ma aveva fatto una promessa e Alec era un uomo di parola. Così rimase in attesa, osservando coppie o persone da sole che entravano mano a mano dentro a quella scuola. Era arrivato un po’ in anticipo, quindi non si aspettava di vedere Magnus apparire da un momento all’altro, eppure… Magnus si stava proprio incamminando nella sua direzione, un sorriso stampato sul viso –  accendendolo come il sole, tagliando il manto notturno, accende il giorno, colorando il cielo della più appagante e meravigliosa tonalità di rosa. Magnus era uno spettacolo che bisognava fermarsi a guardare per forza.
“Ciao, tesoro.” Lo salutò, quando furono uno di fronte all’altro.
“Ciao.” Alec gli sorrise e improvvisamente percepì tutte le sue ansie svanire, come se solo guardando dentro gli occhi di Magnus, quel nodo di timore si sciogliesse.
“Vogliamo entrare?” Magnus gli offrì un braccio. Alec la trovò una cosa carina e un tantino galante, se doveva dirla tutta. Annuì, comunque, prendendo Magnus a braccetto.
“Se dovessi farti fare una brutta figura, ti autorizzo a vendicarti.”
“Non dire sciocchezze, zuccherino. Non potresti mai farmi fare brutta figura.” Gli sorrise, cercando i suoi occhi. Li trovò immediatamente perché Alec lo stava già guardando. Il medico si chiese se ballare con Magnus fosse facile come perdersi nei suoi occhi. E, soprattutto, se ballare gli piacesse tanto quanto gli piaceva finire immerso da quell’ambra liquida che aveva il potere di rassicurarlo. Istintivamente, si rispose di sì. E per una volta, Alec decise che avrebbe dato retta al suo istinto.



Una volta dentro a quella scuola, Alec si guardò intorno. Era diversa da quella di Magnus, ma in qualche modo simile. Lo spazio ampio dedicato alla sala da ballo e il parquet erano simili, ma questa scuola non aveva attaccapanni ad altezza di bambino. Evidentemente Sophia insegnava solo agli adulti.
“Magnus!” Una donna li raggiunse, raggiante. Era bellissima, Alec doveva riconoscerlo. Aveva il fisico slanciato e tonico di ogni ballerina, era abbastanza alta e mora, con due occhi neri grandi ed espressivi. Salutò Magnus con due baci e poi rivolse un sorriso ad Alec.
“Ciao, sono Sophia.” Si presentò, porgendogli una mano. Aveva i capelli legati in uno chignon stretto ed era truccata appositamente per la serata. Indossava un vestitino pieno di strass argentati e fucsia, che finiva con una gonna che si muoveva ad ogni suo movimento. Alec sapeva che indumenti del genere erano funzionali ad una migliore comodità nel ballo, aiutando il ballerino, o la ballerina, ad avere più libertà di movimento nei passi. Afferrò la mano che gli veniva porta e la strinse. “Alec.”  
“È un piacere conoscerti. Spero vi divertiate, questa sera. Se volete scusarmi, devo controllare che le ultime cose siano a posto.”
“Ma certo, cara, vai.” Magnus la salutò con un sorriso e Alec con un cenno del capo. Entrambi la guardarono allontanarsi.
“Lei sembra più simpatica di Imasu.” Confessò Alec.
Magnus si trovò a ridacchiare. “Sophia è meno… esuberante. È una donna vitale ed energica, ma sa essere più discreta.” Si incamminò verso un angolo della sala, lasciando l’ingresso e dirigendosi verso quello che aveva tutta l’aria di essere lo spazio adibito a guardaroba – dotato di carrelli portatili a cui erano appese una quantità indefinibile di grucce, alcune già occupate.
“È il tuo tipo di donna?” Domandò Alec, rimanendo al fianco di Magnus. Gli occhi bassi per via di quella domanda. Era solo curiosità, la sua, ma gli venne timore di risultare inopportuno, o invadente.
“Non ci ho mai pensato, perché non l’ho mai messa in quell’ottica, ma potrebbe essere sì.”
“Perché la trovi bella, o…?”
Magnus, che stava cercando una gruccia libera, si fermò con le mani a mezz’aria e si voltò verso Alec, che arrossì repentinamente. “Sei curioso, pasticcino.”
“Scusa.” Disse subito Alec, cominciando a giocare con la cerniera del suo giubbotto. 
“Non ho detto che mi dispiace.” Magnus abbandonò la sua posizione per avvicinarsi ad Alec e fermargli le mani. Le tenne sopra alle sue finché Alec non alzò lo sguardo su di lui, poi disse: “Puoi farmi tutte le domande che vuoi, voglio che tu lo sappia, questo.”
Alec sentì la gola diventare arida come il Sahara. Magnus aveva quel modo di guardarlo che lo scombussolava. Le sue mani erano calde contro le proprie e riusciva a percepire il netto contrasto con il metallo freddo degli anelli, ma non gli dispiaceva.
“O-okay. Anche tu, se vuoi.” Alec si schiarì la gola. “Puoi chiedermi quello che vuoi.”
Magnus gli regalò un sorriso soffice. “Ti ringrazio, tesoro. Ho la sensazione che la tua mente sia un mistero, sai? Mi fa piacere sapere che ne ho accesso.”
Alec abbassò lo sguardo, ma un sorriso gli tendeva le labbra. “L’unico misterioso qui, sei tu. Ma suppongo sia un elemento portante del tuo fascino.”
“Mi trovi affascinante?”
Alec ritirò le labbra all’interno della bocca, come se avesse parlato troppo. “Non hai risposto alla mia domanda.” Deviò.
“Nemmeno tu.” Una delle mani di Magnus abbandonò quella di Alec per posizionarsi sotto al suo mento e spronarlo ad alzare il viso. Quando furono occhi negli occhi, Magnus ripeté: “Mi trovi affascinante?”
Alec deglutì e si limitò ad annuire, mentre le sue guance prendevano fuoco. “Adesso tocca a te.” Disse, cercando di togliere l’attenzione da sé.
“Mi piacciono le cose belle, a tutti piacciono. Ma sono il tipo di uomo che si innamora prima dell’anima, che del corpo. La bellezza corporea svanisce, Alexander, quella del cuore rimane tutta la vita.” Magnus gli accennò un sorriso. “Sophia è bellissima, ma non la conosco bene come dovrei per sapere se sia effettivamente il mio tipo. E capisci bene che dopo Camille voglio provare a conoscere chi ho davanti il più possibile.”
Alec annuì perché capiva davvero. Di sicuro, fidarsi per Magnus non doveva essere facile, non dopo Camille.
Alla fine, non erano poi così diversi, sotto questo punto di vista. I loro cuori erano entrambi stati spezzati da due persone cui loro avevano donato loro stessi, i loro cuori e la loro fiducia. Sono esperienze, queste, che inevitabilmente segnano e hanno delle ritorsioni sui rapporti futuri.
“È difficile capire le persone.”
“Sì, ma in alcuni casi vale la pena impegnarsi per farlo. Certe persone valgono quella difficoltà, non credi?”
Alec annuì. “Dal carbonio al diamante, Magnus. Ci sono alcuni processi che portano inevitabilmente a cose belle.”  
“Sei poetico in un modo tutto tuo, confettino.” Magnus accennò un sorriso divertito.
Alec alzò gli occhi al cielo, ma venne tradito da un sorriso tutto fossette che si formò inevitabilmente sul suo viso. “Lo prenderò come un complimento.”
“Voleva esserlo.” Magnus gli fece l’occhiolino e poi si voltò nuovamente a cercare una gruccia. Ne trovò due vicine e ne passò una ad Alec, che la afferrò. Magnus si tolse il proprio cappotto e lo posizionò accuratamente nella gruccia, Alec fece lo stesso con il suo giubbotto. Erano ancora uno di fianco all’altro, mentre risistemavano gli indumenti sul carrello-attaccapanni, quando sentirono una voce giungere alle loro spalle.
“Ragazzi!” Esclamò Imasu e Alec, incapace di trattenersi, alzò gli occhi al cielo nel modo più naturalmente infastidito che esistesse. Magnus dovette trattenere un sorriso perché in certi casi Alec non riusciva ad avere filtri e la cosa gli piaceva parecchio. Era sincero, sia che si trattasse di simpatie che di antipatie. Non aveva maschere che indossava in base a chi si trovava davanti, comportandosi come poteva intuire che il suo interlocutore volesse che si comportasse. Era sempre nudo e crudo, inevitabilmente se stesso. Qualcosa che andava ad inserirsi nella lista cose in cui è diverso da Camille, che invece aveva un’infinità di maschere che metteva a seconda dell’occasione.
“Comportati bene, Alexander.”
Si voltarono all’unisono verso Imasu, che li stava raggiungendo.
“Altrimenti?” lo stuzzicò Alec, ma Magnus non fece in tempo a rispondere perché il peruviano li aveva raggiunti.
“Quanto siete belli, Dio quanto lo siete. Sono quasi invidioso. Potrebbero guardare tutti voi e ignorare me completamente!”
Alec si trattenne dal dire che con quella maglietta verde evidenziatore l’avrebbero notato anche dalla luna, ma solo perché Magnus gli aveva appena chiesto di comportarsi bene.
“Come stai, Imasu?” Domandò Magnus per cortesia, sorvolando su quel commento. Evidentemente, anche alle sue orecchie era risultato artificioso ed inadeguato, ma sapeva essere un uomo di classe – quasi un aristocratico e non solo perché era estremamente elegante qualsiasi cosa portasse, fosse un maglione rosso e peloso, fosse una camicia dorata e scollata che attirò tutta l’attenzione di Alec. Sul serio, come aveva fatto a non notarla, ancora?
Imasu stava straparlando di una nuova tecnica appresa di recente per suonare il charango, il suo strumento, ma ad Alec davvero non poteva interessargliene di meno, soprattutto perché Magnus era vicino a lui, con una camicia sbottonata – quattro bottoni, quattro – che mostrava parte del suo petto glabro e ambrato e, santo cielo, Alec non aveva mai desiderato essere una collana tanto quanto come in quel momento. Arrossì a quel pensiero, vergognandosene un po’. Si stavano conoscendo e l’ultima cosa che voleva fare era oggettificare Magnus, ma ciò non toglieva che Alec avesse dei momenti di debolezza.
“Ti annoio, caro?”
Dal silenzio che seguì a quella domanda, Alec capì che era riferita a lui. Distolse l’attenzione da Magnus per portarla su Imasu. “Alec.” precisò, perché i nomignoli non gli piacevano.
A meno che non sia Magnus, a darteli.
Questo era un altro punto su cui Alec, adesso, non voleva proprio concentrarsi.
“E no, non mi annoi. Tendo sempre a stare in silenzio, quando devo ascoltare qualcuno. È il motivo per cui abbiamo due orecchie e una bocca: ascoltare il doppio e parlare la metà.”
“Ma quanto sei pungente, querido. Sei proprio una rosa perfetta, bellissimo e con le spine.”
“Imasu,” Si inserì Magnus, un tantino infastidito. “Falla finita.”
Imasu alzò le braccia in segno di resa. “D’accordo, d’accordo. Ho afferrato. Vado a cercare il mio compagno di danza di questa sera. È uno dei nuovi allievi di Sophia, ma pare che sia un talento naturale!” Salutò i due sventolando una mano e si allontanò ancheggiando, come se facesse di tutto per essere notato. Alec non se ne stupì, Imasu sembrava un tipo davvero egocentrico.
“Sai, forse Erin ti ha salvato, in fondo. Può essere bello quanto gli pare, ma è veramente fastidioso.”
“Tu dici?” Ridacchiò Magnus. “L’anima, Alexander. L’anima.
Alec concordò con un cenno del capo e la loro conversazione terminò perché Sophia chiamò tutti i ballerini al centro della sala.



Alec non sapeva ballare, questo era ormai un dato di fatto, appurato tanto quanto la consapevolezza che il sole sorge ad est. Ma Magnus… Magnus sapeva farlo benissimo. E sicuramente c’entravano gli anni di disciplina e di allenamento, ma Alec era convinto che fosse un talento naturale. La tecnica aveva solo affinato qualcosa che sarebbe stato perfetto in ogni caso. A Magnus veniva naturale ballare come alle persone veniva farlo camminare.
“Sto ballando da solo, Alexander.” Magnus abbozzò una mezza piroetta e porse una mano ad Alec, che era rimasto fermo fino a quel momento. Guardare Magnus ballare era davvero ipnotico. Amava farlo e si vedeva. Il suo viso si rilassava a tal punto da dare la sensazione che l’uomo fosse in un’altra dimensione, il suo luogo di pace, la sua oasi felice. Si muoveva con delicatezza, ma anche con decisione. Era come se il ritmo giusto scorresse nel suo sangue e lo aiutasse a muovere i passi adeguatamente perfetti alla tonalità della musica. Era come se Magnus fosse la musica.
“Lo scopo di questa serata era che tu ballassi con me, zuccherino.”
Alec afferrò la mano che gli veniva porta e immediatamente Magnus lo tirò a sé – così vicino che i loro nasi si toccarono.
“Sono un uomo di parola, Magnus. Ho solo bisogno di tempo per ambientarmi.”
Magnus deglutì per quella vicinanza e sfiorò il naso di Alec con il proprio – qualcuno l’avrebbe definito l’accenno di un bacio all’eschimese, ma non Magnus. Se avesse dato un significato a quel gesto avrebbe valicato un confine che non andava ancora valicato. “Allora lascia che ti aiuti a farlo.” Cercò con gli occhi quelli di Alec. “Lasciati guidare, sono piuttosto bravo a farlo.”
“Sei piuttosto bravo anche a vantarti.” Commentò, divertito.
“Quella è una delle cose che so fare meglio. Insieme ad altre, che vorrei mostrarti volentieri.” Gli fece l’occhiolino e Alec sentì chiaramente lo stomaco attorcigliarsi su stesso – e ringraziò che determinate sensazioni di fermarono all’altezza del suo addome e non scesero oltre quella zona.
“Parli di danza, non è vero?”
“E di che altro, sennò? A meno che non sia tu a parlare d’altro, in quel caso ti ascolterei più che volentieri.”
“Stai dicendo che in altri contesti non mi ascolti volentieri?”
“Sei sempre così bravo a rigirare la frittata?”
Alec strinse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. “Balliamo?”
“Pensavo non me l’avresti mai chiesto.”
Magnus fece intrecciare le dita delle loro mani e lo trascinò al centro della sala da ballo. Era piena di ballerini, ma Alec ne vedeva solo uno.
Magnus si fermò al centro della sala e si voltò verso di lui. “Conduco io, pasticcino, ma tu cerca di divertirti, d’accordo?” gli parlò alzando un tantino la voce per sovrastare la musica. Alec annuì e sentì una mano di Magnus poggiarsi al centro della sua schiena con l’intento di avvicinarlo più a sé. Era sicuro che i loro addomi collidessero ed era sicurissimo che la cosa gli piacesse pure.
“Dobbiamo ballare il tango?”
“No, non è musica da tango, questa. È più…jazz.”
“E come si balla il jazz?”
“Muovendo i piedi, prima di tutto, tesoro. Evitando di stare immobili, come seconda cosa e, per ultimo, ma non meno importante: rilassandosi.”
Alec gli lanciò un’occhiata seria. “Stai facendo del sarcasmo?”
“Solo a te è concesso?” Magnus sorrise, furbo. “È una regola, del tipo: tu sei quello sarcastico, io quello spigliato?”
“Non mi piace dare etichette.”
“Bene.” Magnus premette Alec ancora di più a sé. “Perché nemmeno a me piace.”
Erano così vicini che Alec poteva chiaramente sentire il respiro di Magnus su di sé. Avevano già provato a ballare insieme, ma adesso era diverso. Erano vicini come non lo erano mai stati, stretti come non lo erano mai stati – come se Magnus non avesse avuto nessuna intenzione di lasciarlo andare.
“Segui la musica.” Soffiò il ballerino, gli occhi che caddero inevitabilmente sulla bocca dell’altro. Era un puro attentato al suo autocontrollo, a quel ferreo contegno che Alec si imponeva sempre prima di ogni cosa.
“Preferisco seguire te.” Gli rispose, posizionando la mano che non era intrecciata a quella di Magnus sulla spalla dell’uomo di fronte a sé.  
Magnus rialzò gli occhi su di lui, un sorriso compiaciuto a tendergli le labbra. “Allora cominciamo.”



Era liberatorio, divertente. Qualcosa che Alec non aveva mai fatto nella sua vita, ma che gli stava piacendo da morire.  Ballare non gli era mai piaciuto, ballare con Magnus gli piaceva tantissimo.
Come da programma, aveva condotto lui per tutto il tempo, muovendosi a ritmo di musica e guidando Alec a fare lo stesso. I loro corpi si erano mossi all’unisono e in sintonia, finendo i movimenti che l’altro aveva iniziato – che Magnus aveva iniziato. Alec aveva perso il conto delle volte che Magnus l’aveva allontanato da sé solo per poi riprenderlo, facendo fare ad Alec una giravolta che inevitabilmente li aveva fatti finire faccia a faccia, così vicini che sarebbe bastato un niente per far scappare un bacio che entrambi stavano trattenendo, secondini di un prigioniero particolarmente ostico e dedito alla fuga.
Aveva perso il conto anche delle risate, causate dai suoi strafalcioni, dal fatto che Magnus avesse dovuto ristabilire l’equilibrio di entrambi più di una volta, perché Alec inciampava sui suoi piedi. Ma Magnus era lì, ogni volta, a riportarlo a sé, a rimetterlo in piedi e a ridere con lui e non di lui.
Gli sembrava di essere tornato bambino, di essere riuscito a rivivere quella spensieratezza del gioco che si ha solo da piccoli, quando la preoccupazione più grande è sbucciarsi le ginocchia.
Alec si stava divertendo facendo una cosa che non aveva mai pensato l’avrebbe fatto divertire. Una minuscola parte di sé si chiese se non fosse proprio l’uomo con lui a fargli quell’effetto. L’effetto Magnus, l’avrebbe chiamato. Qualcosa che rendeva le farfalle nello stomaco una banalità, un nonnulla.
Magnus lo attirò di nuovo a sé, la fronte appoggiata alla sua, mentre muoveva dei passi nuovi, ritmati e decisi, ma in qualche modo più lenti – passi che Alec si trovò a seguire d’istinto, senza inciampare più, come se riuscisse a leggere le mosse giuste da fare negli occhi di Magnus. Provò, dettato forse dal momento, a prendere l’iniziativa: tenne una delle mani di Magnus agganciata alla propria, mentre allontanò Magnus da sé – proprio come gli aveva visto fare solo poco prima. Il ballerino lo guardò divertito e lo assecondò, muovendo dei passi sul posto, ancheggiando un tantino, prima di lasciare che Alec lo tirasse di nuovo a sé. Magnus si esibì in una serie di piroette, prima di finire di nuovo vicino ad Alec. La cosa che stupì il medico, tuttavia, fu il modo in cui Magnus si ricongiunse con lui: circondò la sua vita con una gamba e lo tirò a sé. Rimase in quella posizione e ad Alec non rimase altro da fare che afferrare la coscia di Magnus per dargli un sostegno.  
Impiegò più tempo del necessario a capire che, se Magnus era immobile, era perché la canzone era finita e quello era il loro passo finale.
Non gli importava granché, comunque. Riusciva solo a vedere Magnus, i suoi occhi ambrati che erano incatenati ai suoi, i loro corpi che erano incastrati in un modo perfetto, quasi fossero stati creati per combaciare – come il pezzo di un puzzle. Sentiva il suo respiro accelerato e sicuramente c’entrava il fatto che avesse ballato tutta la sera, ma era anche certo che c’entrasse la vicinanza di Magnus.
“Sei stato bravissimo.” Magnus gli accarezzò una guancia coperta di una leggera barba. Dovette resistere all’impulso di muovere la mano lungo il perimetro della mascella e alzare il pollice per accarezzargli il labbro inferiore. Sarebbe stato troppo. Troppo esplicito, troppo diretto. Così si trattenne. Sciolse quell’intreccio e Alec lo lasciò andare.
“Penso sia solo merito del mio insegnante. A quanto ho sentito dire è bravissimo a condurre.” Alec sorrise, di quei sorrisi pieni di luce che facevano comparire le fossette sulle guance, e Magnus rise – pienamente consapevole che aveva appena passato una serata bellissima, come non gli capitava da parecchio tempo. E il merito era tutto dell’uomo che adesso aveva davanti.






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Ciao a tutti e ben ritrovati! Siete sopravvissuti a questi primi due episodi della 3B? Qual è stata la vostra parte preferita e perché proprio la training scene con un Magnus che flirta spudoratamente e Alec che alla fine cede perché, insomma, chi non cederebbe davanti a Magnus Bane in canottiera? (“You know how we get”, disse Magnus ad un Alec imbronciato per non aver ricevuto un bacio, ma adesso lo sappiamo tutti come va a finire e grazie tante agli autori, davvero). Ho adorato ogni loro singola scena insieme in quell’episodio. E Alec è di una dolcezza unica con Magnus (e anche con Madzie, sono degli zii perfetti per lei e le fantasie sui Malec papà volano come farfalle a primavera).
Comunque, punti per Luke Baines che sembra essere un Jonathan fantastico, con quell’aria calma che nasconde una mente squilibrata. Lo amo già.
Jace mi ha fatto una tenerezza infinita nella 3x11 e quel momento con Isabelle è stato così dolce – il bacio sulla mano mi ha fatta sciogliere un po’ – che volevo abbracciarli entrambi. Sono una brotp che meriterebbe più spazio, secondo me.
Simon e Izzy mi hanno già conquistata e spero riescano a sviluppare il loro rapporto in questi episodi rimanenti – a proposito, ho usato la scena dei tunnel come ispirazione per la parte Sizzy in questo capitolo, ma sicuramente l’avrete capito.  
Ad ogni modo, bando alle mie ciance sugli episodi: vi chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto poco tempo e di conseguenza la scrittura di questo capitolo è andata un po’ a rilento. È venuto un po’ più lungo degli altri e spero che non l’abbiate trovato troppo pesante. Contate che doveva includere anche la festa di Halloween, ma avevo l’impressione che ci sarebbe stata troppa sproporzione con la lunghezza dei capitoli precedenti. In più non volevo aggiornare troppo in ritardo – visto l’immenso in cui sono già – e quindi vi chiedo scusa. Ad alcuni ho detto che Alec in questo capitolo avrebbe avuto la sua vendetta su Jace, ma proprio perché non volevo allungarlo troppo ho pensato di scrivere la cosa anzi nel prossimo capitolo!
Comunque, parlando del capitolo: abbiamo Izzy che si intromette all’inizio perché anche se ha detto ai suoi fratelli nel capitolo 1 di non fare commenti, lei in cuor suo vuole che Alec e Magnus leghino e quindi è propensa ad una spintarella. In più Alec parla un po’ di Will e questo è un pezzo che mi agita un po’ perché temo non vi piaccia. Uso anzi i flashback perché mi sembra rendano la lettura un po’ più scorrevole, se non è così ditemelo senza remora alcuna! In ogni caso, penso che più in là il discorso verrà ripreso e Alec parlerà con Magnus con dei dialoghi diretti tra loro due. Ho una vaga idea di come fare, ma non ne sono ancora sicura.
Anyway! C’è anche una parte Sizzy e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate perché non ne sono molto sicura. Ho paura di averli resi un po’ OOC, soprattutto Isabelle.
Chiedo scusa all’Imasu originale che nei libri non era così, ma mi serviva un modo per far ballare di nuovo insieme Alec e Magnus, di conseguenza l’ho modificato un po’ per i miei scopi e davvero chiedo scusa a lui e a Cassandra Clare.
Nel complesso, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. Ringrazio chiunque legga la storia, l’abbia messa tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque trovi del tempo per recensire. Lo apprezzo davvero moltissimo e vi abbraccio tutti! <3 
   
 
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