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Autore: Imaginaerum    10/03/2019    1 recensioni
Un post periodo scolastico che vede un allontanamento tra Iwaizumi e Oikawa, più o meno volontario, più o meno confliuttuale, più o meno... vitale.
Dalla storia: "Ti ho visto in televisione. Sei sempre stato bello, con quel tuo sorriso magnetico e quei riccioli sempre perfetti in qualunque situazione, che fosse sotto la pioggia battente o nel bel mezzo di una partita tra grida e sudore. E anche adesso..."
Lasciate un commento per farmi sapere se vi è piaciuta! O anche solo per insultarmi, che forse è più appropriato. Per ora.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            Capitolo due.


Hajime rimase immobile lì dov’era, seduto sul bordo del letto e con il telecomando tra le dita, gelato nelle membra, a fissare quello schermo luminoso che aveva acceso praticamente in modo inconscio, con lo sguardo che era diventato vuoto, vitreo, lontano. Non era che non lo sapeva che la partita sarebbe stata mandata in onda proprio su quel canale proprio a quell’ora. Non era stata una mera coincidenza. Ma non era vero nemmeno che lo aveva fatto consapevolmente, che l’aveva accesa di proposito e che voleva vedere quel volto e quella presenza. Era più come se il suo inconscio, stanco di essere messo ancora da parte, avesse comandato alle sue mani di accendere la televisione, proprio su quel canale, proprio a quell’ora, e la sua parte cosciente non se ne fosse resa conto fino a che non se lo ritrovò davanti agli occhi.
   
Il tutto era durato cinque secondi al massimo, ma era bastato. Era bastato anche meno a dire la verità, era stato sufficiente il primo fotogramma, un quarto di secondo appena, un frangente talmente breve che Hajime non era nemmeno sicuro che fosse trascorso davvero, perché anche se avesse distolto lo sguardo prima, anche se non avesse osservato tutta la battuta, avrebbe comunque pensato, e, pensando, avrebbe comunque ricordato.

Era bastato perché vederlo lì, sorridente e beffardo, felice e totalmente ignaro dei suoi occhi fissi su di lui, attraverso quel maledetto schermo che continuava a trasmettere la sua immagine con tale noncuranza, gli aveva ricordato che Oikawa Tooru esisteva davvero. E la sua esistenza gli aveva ricordato quanto in realtà fossero distanti. E non solo fisicamente, sarebbe stato troppo facile altrimenti, ma erano distanti l’uno dall’altro, dalle rispettive vite, dal rispettivo affetto, dal passato che avevano condiviso. Erano distanti emotivamente, erano distanti perché non erano più niente, perché era così che erano diventati: estranei l’uno per l’altro. Era bastato, e tutto il mondo di Hajime era crollato come un castello di carta, dimostrandogli, in modo quasi crudele, quando effettivamente fosse incapace. Incapace di reagire, incapace di andare avanti, incapace di dimenticare e incapace perfino di ricordare, perché era stata sufficiente una singola immagine a buttare giù tutto. E a nulla erano valsi i suoi sforzi. Tanta, tanta fatica, immensa, mastodontica fatica, spesa a scavare buche profonde nel suo animo per seppellire ciò che gli si agitava dentro, nel petto e nello stomaco. Ore, giorni, mesi trascorsi a ripetersi e a convincersi che no, a lui non importava, non più, che era andato avanti, che non c’era più niente a tormentarlo, che aveva superato ogni cosa, che non provava più niente ormai. Un continuo, logorante, sfibrante sforzo che si altalenava tra il soffocare e l’ignorare. D’altra parte, Tooru era solo un amico che se n’era andato e di amici che se ne vanno ne era pieno il mondo: non era il primo che perdeva e sicuramente non sarebbe stato l’ultimo. Certo, erano pur sempre cresciuti insieme, lui e Tooru, e quindi che gli facesse un po’più male del previsto poteva anche essere normale. Anzi, era sicuramente quello il motivo del peso che lo opprimeva e che non andava né su né giù, ma che era rimasto bloccato lì, tra lo stomaco ed il cuore, e che gli toglieva l’aria. Ma, diamine, non c’era assolutamente nient’altro a giustificare quel tormento e quindi che motivo aveva di provare tutto quel dolore che gli rodeva dentro? Nessuno. Quel macigno non doveva esistere, e perciò non sarebbe esistito. E se n’era convinto Hajime, se n’era convinto al punto da credere di poter perfino riuscire a dimenticare. Anzi, ne era sicuro. Fine. 

E invece no. Tutti i suoi sforzi erano valsi a nulla, e non solo, ma continuavano a valere nulla, lui continuava a valere nulla.

Fu come ricevere un pugno in piena faccia, una coltellata alle spalle, una bastonata nello stomaco. Insomma, una cosa valeva l’altra ma il risultato non cambiava: gli aveva fatto male. Tanto. Troppo. Fu per questo che Hajime si arrabbiò. Non sapeva bene nemmeno lui con chi, se con il televisore che osava trasmettere le immagini della partita, se con Tooru che se n’era andato, o con tutto quel caos ingiustificato che aveva dentro e che gli stava sfuggendo di mano troppo velocemente. Che diritto avevano di distruggere tutto il suo lavoro, tutta la sua fatica? Che diritto avevano di portargli via la serenità, così, senza alcuno scrupolo? Che diritto avevano di destabilizzarlo, di essere così crudeli? Si arrabbiò, una rabbia incontenibile che arrivò dritta al cervello senza fare fermate e che distrusse l’ultimo barlume di lucidità ed autocontrollo che lo tenevano insieme e lo separavano dal baratro oscuro delle emozioni. Si sentì sopraffatto e la sua mente esplose con un bagliore accecante in milioni di schegge taglienti che si sparpagliarono in ogni angolo del suo essere, a ferirlo ovunque. Fu investito da un’ondata di ricordi, di immagini, di pensieri, di emozioni, di parole non dette e di episodi mai accaduti che si erano accumulati nella sua testa come tanti possibili finali, tante possibili alternative, tutte invariabilmente irrealizzate. Aveva tenuto dentro così tanto e così a lungo cose che non sapeva nemmeno di aver seppellito ed ora stava uscendo fuori tutto insieme prepotentemente e tutto puntava verso un’unica direzione, che gli apparve chiara nella mente, come unico pensiero cosciente in quel marasma torbido e confuso: Oikawa Tooru se n’era andato. E lo aveva fatto senza dire una singola parola.

Perché?

Aveva seguito la sua strada Oikawa Tooru, senza mai voltarsi indietro, nemmeno un istante, nemmeno per sbaglio. Se n’era andato dritto davanti a sé, come un’auto in corsa o un treno che non fa fermate. Era sempre stato così, questo glielo doveva riconoscere: testardo ed instancabile in modo quasi esasperante. Ma su quel treno, su quell’auto, erano sempre stati in due, erano sempre stati presenti l’uno per l’altro, sempre insieme, legati da qualcosa di non ben definito e su cui non aveva mai davvero riflettuto, ma non per questo meno reale. Meno speciale.

Quand’è che ho smesso di far parte della tua vita?

Oikawa Tooru aveva accettato quella convocazione in nazionale senza farne parola con lui. Hajime lo aveva rincorso fino all’aeroporto quando aveva scoperto tutto, quando non lo aveva trovato in casa e la madre gli aveva raccontato ogni cosa, credendo che il ragazzo fosse già ampiamente informato della situazione. Perché era talmente ovvio che quei due fossero inseparabili che tutti avevano dato per scontato che Hajime sapesse già tutto, perfino la madre di Tooru, perfino la sua di madre. Perché si, perché semplicemente non poteva essere diversamente. Hajime lo aveva raggiunto in tempo, ma ciò che si era trovato davanti non era Tooru, non il suo amico d’infanzia, il suo compagno di squadra. Non era Tooru la persona che lo aveva guardato da lontano con occhi freddi ed inespressivi mentre lui gli correva incontro. Non poteva essere lui la persona che si era voltata verso il gate con la valigia in mano prima che Hajime potesse raggiungerlo, senza dire nulla, nemmeno un saluto, nemmeno un sorriso, e senza mai voltarsi indietro. E a nulla era servita la tempesta di chiamate e messaggi che era seguita per i due mesi successivi, tempesta che si era conclusa infine con il suo numero bloccato dopo l’ennesimo messaggio.

Perché, Tooru? Perché te ne sei andato così, lasciandomi qui? Che cosa ti passa per la testa? Davvero non meritavo nemmeno un saluto?

Oikawa Tooru se n’era andato e lo aveva lasciato indietro. Eppure se ne sarebbe dovuto accorgere che qualcosa non andava, avrebbe dovuto capirlo che c’era qualcosa non tornava, nel suo comportamento o tra una parola e l’altra, perché anche se Tooru era un attore nato, lui lo conosceva da troppo tempo per non accorgersi della finzione che strabordava da ogni suo piccolo gesto. E invece aveva liquidato quel suo atteggiamento un po’scostante, un po’risentito, che aveva avuto nei giorni successivi alla cerimonia di saluto del terzo anno, come un altro suo attacco da prima donna, così frequenti in quell’egocentrico e permaloso di Tooru. Non era stato abbastanza attento, non era stato abbastanza vigile e accorto, preso com’era dalla decisione di proseguire o meno gli studi, perché, ormai era chiaro, non era la pallavolo la sua strada nella vita. Ma non aveva pensato nemmeno per un momento che Tooru non avrebbe fatto più parte della sua via, era un pensiero talmente assurdo che era semplicemente impossibile. Ed era stato questo l’errore più grande che aveva commesso: aveva dato la sua presenza per scontata.

Pensavi che per restare insieme avresti dovuto rinunciare alla pallavolo, è questo il motivo per cui te ne sei andato senza dire niente? Ma veramente mi conosci così poco da pensare una cosa del genere, oppure è che non sono mai stato veramente importante per te? Qual è il motivo, qual è!?

Il turbinio di ricordi e di pensieri si era mescolato e sovrapposto con un’intensità tale che aveva iniziato a gridare davvero davanti a quello schermo e non sapeva dire quando i pensieri si erano trasformati prima in voce e poi in urla, verso quella faccia che avrebbe spaccato volentieri a pugni se solo ce l’avesse avuta davanti veramente. Hajime tirò un pugno alla parete di fianco al letto della sua nuova stanza, quella che aveva preso in affitto per proseguire gli studi e che riusciva a permettersi a stento. Poi ne tirò un altro, e poi un altro ancora.

“Perché? Perché, stupido di un Oiscemo!? Te ne sei andato e mi hai lasciato indietro! Te ne sei accorto, si? Lo hai visto che non sono più al tuo fianco e nemmeno alle tue spalle?  Hai buttato tutto quello che avevamo, hai buttato via me, ME! Come se poi io fossi un ostacolo! Davvero valevo così poco per te?“

Al quarto pugno le nocche scorticate iniziarono a sanguinare e solo allora, per la prima volta dal giorno della partenza di Tooru, lacrime grosse e calde presero a scorrergli lungo le guance. E ben presto arrivarono anche i singhiozzi, che gli squassarono il petto violenti e incontrollati. Hajime pianse, pianse a lungo, inconsolabile, accasciato alla parete, arreso, devastato, distrutto. Aveva tenuto dentro per troppo tempo tutto quel caos di emozioni a cui non sapeva dare un nome e che aveva voluto solo ignorare, cancellare e riuscire a dimenticare, per non doverle affrontare, per non doverci fare i conti, ma soprattutto per non doverle definire.

“Hai ottenuto quello che volevi: gli occhi del mondo tutti per te. Ma per farlo mi hai buttato via. Sei felice adesso? Dimmi Tooru, ne è valsa la pena?”





"Ne è valsa la pena?"




   
 
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