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Autore: ninety nine    11/03/2019    2 recensioni
15 marzo 1945
Il fascista Arturo Ghidini viene mandato sulle montagne per catturare e uccidere i ribelli partigiani. Si considera un uomo forte e fedele al Duce. Ma tra i partigiani ritrova un vecchio amico d’infanzia, da cui si era allontanato entrando nelle camicie nere e uccidendo per codardia una persona a lui cara. I due avranno modo di riavvicinarsi, ma la guerra si nasconde anche nei momenti più inaspettati e, forse, non concede mai il lieto fine.
Guerra è la storia di un uomo codardo e pieno di paura, vittima delle persone che incontra che strada e carnefice per conto di quelle stesse persone. È la storia di un’amicizia rubata al Fascismo e da esso rovinata. È il racconto di una guerra civile che colpisce il quotidiano e rende le persone inconsapevoli, vinte, coraggiose o spietate.
Tra i boschi e le montagne del bresciano due uomini torneranno bambini, all’ombra di un uomo che li vuole lontani, all’ombra della morte, all’ombra della violenza che è sempre dietro l’angolo.
[Storia partecipante al contest " Il Contest dell'Antieroe! " indetto da MaryLondon sul Forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Guerra, capitolo II

Ombre dal passato



 


Fascista.
Quella parola rimbombò per un po’ nelle orecchie di Arturo. Sì, era un fascista. Era un fascista, e si era fatto fottere da quei partigiani come un bambino. Era lì, legato e umiliato: chi era diventato?

“Dove li portate?” chiese, accennando ai suoi soldati, rivolto al capo partigiano.

Sebastiano non rispose: lo fece Falco al posto suo.

“Non è affar tuo.”

“Sono il loro comandante, non posso abbandonarli.”

Ecco, pensò l’uomo, sono tornato in me. Ora combatterò per loro, almeno per aver salva la loro vita. Se mi ammazzeranno, almeno ci saranno loro a portare avanti gli ideali del fascismo.

“Il fascismo sta morendo, Ghidini. Non frega più nulla a nessuno delle vostre gerarchie” intervenne Sebastiano, sempre freddo.

Arturo sentì di nuovo rabbia e smarrimento di fronte a quella figura. Erano tredici anni che non si vedevano: l’aveva lasciato ragazzo e ritrovato uomo. L’aveva lasciato distrutto e in lacrime e ritrovato con costruita intorno una corazza inespugnabile. O almeno, questo voleva far credere. Lui scelse di giocare la stessa carta.

 “Allora lasciateli andare. Se il fascismo sta morendo non sarà di certo la loro morte che farà la differenza.”

La sua voce non tremava, quella volta. A quell’affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Arturo si sentì addosso gli occhi di soldati e partigiani e strinse i denti per farsi vedere forte, per evitare di lasciare che alcuna emozione trasparisse. Lo stava facendo per quei ragazzi, certo, gettatisi in una missione più grande di loro, ma in fondo anche per se stesso, per dimostrare a Sebastiano che era diverso da quel fascista che suo padre lo aveva fatto diventare. Aveva sempre combattuto per la giustizia, Sebastiano, fin da quando erano bambini inseparabili, a differenza sua. Lui non ne era mai stato capace, aveva sempre seguito quello che i superiori gli dicevano. Suo padre. I generali nell’esercito. Mussolini. Hitler. Ripensò a pochi istanti prima, a quando aveva chiamato il giovane biondo zecca rossa. Il disgusto di nuovo gli riempì la bocca dello stomaco.

 
“Passa la palla, Arturo, avanti!”

Un gruppetto di bambini correva sul ciglio della strada, lanciandosi un vecchio pallone. Arturo era tra quelli, i riccioli neri sudati che gli ricadevano sulla fronte. Calciò la palla in direzione del ragazzino che l’aveva interpellato, biondissimo, con gli occhi azzurri e di poco più alto di lui.

“In porta Seba, tira in porta!” lo incitarono alcuni degli altri.

Il biondino sorrise e calciò tra due pali che delimitavano la porta. Il portiere, piccolo e cicciottello ma con un gran sorriso sul viso, non poté fermare quel missile.

“Gol Seba! Gol!” urlò Arturo, correndo ad abbracciare l’amico.

“Siamo la squadra più forte del quartiere, Artu!” esultò l’altro, ricambiando l’abbraccio.

Presto, anche gli altri ragazzini gli si fecero intorno festanti.
Ma il loro momento gioioso durò poco; un uomo alto e ben piazzato si avvicinò al gruppetto con aria minacciosa. Facendosi largo tra i bambini a spintoni arrivò fino ad Arturo e lo trascinò via rudemente dagli altri. Senza fiatare, gli tirò un ceffone in pieno visto che fece barcollare il bambino.

“Quante volte ti ho detto di stare lontane da queste schifose zecche rosse?” gli domandò sprezzante.

Il ragazzino non rispose, ma chinò la testa con fare mortificato. L’uomo rimase a guardarlo, in evidente attesa di una risposta.

“Sono miei amici, papà. Perché non posso giocare con loro?”

Non capiva, Arturo, come mai suo padre odiasse tanto quei ragazzini. Un secondo ceffone raggiunse la sua guancia, facendolo cadere a terra. Singhiozzando, il ragazzino si coprì la testa con le mani aspettando che suo padre si sfilasse la cinghia e lo picchiasse come era solito fare a casa. Sebastiano però, rapido, si intromise tra i due.
L’occhiataccia che il signor Ghidini gli lanciò fu più eloquente di mille parola, ma il bambino non arretrò di un passo.

“La prego” disse con voce decisa.

“Non gli faccia del male. Stavamo solo giocando.”

“Levati di mezzo, moccioso. È mio figlio.”

Il biondino scosse la testa.

“Non vi lascerò picchiarlo ancora” affermò stringendo i pugni.

Arturo lo guardò spaventato. Nessuno aveva mai osato contraddire suo padre e lui sapeva per certo che Sebastiano non l’avrebbe passata liscia. Avrebbe voluto fare qualcosa, alzarsi, scagliarsi contro suo padre e fargli provare tutto quello che lui provava quando veniva picchiato. Avrebbe voluto farsi grande grande e proteggere il suo amico. Avrebbe voluto tante cose, ma non riuscì: rimase a terra, con le lacrime che gli scivolavano sul viso.

“Seba…” sussurrò, quasi ad avvisare il bambino, ma non fu sufficientemente veloce: il ceffone di suo padre era già partito, ben più violento di quelli che dedicava a lui. Il
viso di Sebastiano si girò di lato e un rivolo di sangue gli scivolò dal labbro spaccato.


“Cocciuto e ribelle, come quei rifiuti sociali dei tuoi genitori. Vi ci dovrebbero rinchiudere, in quelle fabbriche in cui vi spaccate la schiena” sputò l’uomo con disprezzo.

Sebastiano sentì a sua volta le lacrime pungergli gli occhi, ma alzò il viso verso l’uomo, che vi lesse rabbia e desiderio di giustizia. Aggirando il ragazzino, tirò in piedi in figlio e lo spinse verso la strada. Sebastiano rimase immobile, con i pugni stretti e il mento alto, mentre i due gli passarono accanto. Arturo si voltò verso di lui, fissandolo con riconoscenza, finché i due non scomparvero dietro l’angolo.
Era il 1925.
 
 

“Ha ragione.”

La voce di Sebastiano, che fino a quel momento era rimasto con lo sguardo fisso sulle cime delle montagne in preda a una lotta interiore, riscosse Arturo dai suoi pensieri. Quasi non si rese conto di quel che quell’affermazione significava.

“Ha ragione, questi uomini non hanno colpa. Hanno scelto male da che parte stare, ma la guerra sta finendo e non c’è alcun bisogno di spargere altro sangue. Lasciateli andare.”

Arturo sentì la riconoscenza invadergli il corpo. Avrebbe voluto gettarsi ai piedi di Sebastiano, ma il suo orgoglio, o forse soltanto la rigida educazione ricevuta nell’esercito, glielo impedì.

Rosso.

Falco si rivolse a Sebastiano utilizzando il suo nome di battaglia.

“Se li lasciamo andare questi torneranno con il doppio degli uomini e ci faranno fuori tutti.”

Sebastiano rifletté alcuni istanti: il suo compagno aveva ragione.

“Fategli passare la voglia di farlo, allora. Ma non ammazzateli, non voglio che vi sporchiate le mani con altro sangue.”

Falco annuì, si voltò e tirò un pugno in pieno viso a uno dei soldati. Gli altri partigiani fecero lo stesso, e Arturo non ebbe la forza di opporsi anche a quello. Da una parte, sapeva che non sarebbe servito a nulla. Dall’altra, temeva, da buon vigliacco, che lo stesso trattamento sarebbe toccato a lui, se si fosse opposto.
Sebastiano fu lesto a porsi dietro di lui e ad afferrargli le braccia legate insieme. Lo tenne lì, inchiodato a guardare i suoi sottoposti picchiati, a pensare al significato di pietà e paura, finché Falco non si voltò verso di loro.

Falco, assicuratevi di lasciarli in un luogo ben lontano da qui. Ditegli di tornare a casa, che la guerra sta finendo e non c’è alcun bisogno di farsi ammazzare negli ultimi mesi. Nessuno si curerà della loro assenza, al massimo penseranno che li abbiamo uccisi noi. Assicurati che lo capiscano. Io mi occupo di lui.”

Falco annuì, e sorrise. Fu un sorriso stanco, quello di una persona che non vedeva l’ora di decretare finita quella guerra e di tornare a casa come il capo voleva che facessero quei ragazzi.
Arturo fu certo che il ragazzo che Sebastiano chiamava Falco avesse capito le motivazioni del capo e ne fu sollevato: i suoi soldati sarebbero stati al sicuro. Pesti, sanguinanti, ma liberi e vivi. Non tutti gli antifascisti presi erano stati così fortunati, e la colpa spesso era stata sua.
 


Il signor Ghidini, padre di Arturo, camicia nera e manganello, era a capo di un folto gruppo di fascisti della prima ora. Trascinavano un uomo sulla quarantina con un occhio già pesto che si dibatteva per liberarsi. Lo spinsero contro il muro e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente. L’uomo cercò di respingerli, riuscì anche ad assestare un paio di pungi, ma subito il gruppo gli fermò le braccia contro il muro, lasciandogli viso e corpo completamente esposto. Arturo, quindicenne, uscì dalla porta di casa attratto dalle urla. Non era la prima volta che vedeva la violenza squadrista in azione, ma quella volta in particolare l’evento lo sconvolse; infatti, sa in fondo alla strada arrivò un ragazzino biondo. Sebastiano.

“Basta! Basta!” urlava disperato. Arturo quasi poteva vedere le lacrime che gli rigavano il viso.

“Basta, è mio padre! Vi prego!”

Alcuni volti si affacciarono dalle finestre vicine, qualcuno tentò una flebile opposizione a quella scena, ma bastò che una camicia nera si voltasse verso di loro perché questi continuassero per la loro strada in silenzio. Sebastiano fece per scagliarsi contro il gruppo di fascisti, ma venne fermato dalle braccia forti di un operaio che era corso lì da una fabbrica poco distante.

“Seba! Seba, no!”

Il giovane operaio aveva gli stessi capelli biondi del ragazzino, ma la le fattezze da uomo dell’individuo picchiato contro il muro. Sebastiano si volto versò il fratello e cominciò a tirargli una serie di pugni sul petto.

“Lasciami andare!”

Il ragazzo lo lasciò fare, ma si assicurò di non farselo sfuggire.

“Lasciami andare, è papà!”

“Lo so, Seba. Lo so, ma ti ammazzeranno se vai là. Papà non vorrebbe.”

Il ragazzino affondò il viso nella tuta del più grande, evidentemente singhiozzando. Il fratello lo abbracciò forte, sussurrando qualcosa. Nessuna delle camicie nere parve fare attenzione alla scena che si stava svolgendo appena a qualche metro di distanza: la loro attenzione rimaneva concentrata sull’uomo, che nel frattempo si era accasciato a terra tossendo. Arturo non aveva mai visto l’amico tanto sconvolto. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma aveva paura. Paura di suo padre, paura degli altri squadristi, paura della reazione di Sebastiano se l’avesse visto con la camicia nera che indossava. Era sceso perché sua padre aveva voluto che lui partecipasse a quella spedizione punitiva. Chissà se sapeva che l’uomo che stavano massacrando era il padre di quel suo amico biondo che tanto disprezzava.
In quell’istante, il signor Ghidini si accorse del figlio poco distante, e lo chiamò a sé con fare autoritario. Arturo, all’improvviso, si sentì addosso gli occhi di tutti gli squadristi, ma anche quelli penetranti del migliore amico. Per alcuni istanti restò fermo, indeciso e sconvolto. Poi suo padre lo chiamò, e lui non riuscì ad opporsi a quel richiamo. Si sentì morire ad ogni passo, ma continuò ad avanzare con gli occhi bassi. Non ebbe il coraggio di voltarsi verso Sebastiano quando arrivò di fronte all’uomo a terra. Questi lo guardò, con due occhi identici a quelli del figlio.

“Colpiscilo” intimò suo padre.

Arturo tremò.

“Arturo…” sussurrò Sebastiano con la voce rotta dal pianto.

Nessuna delle camicie nere parve udirlo, ma quell’implorazione scosse profondamente il ragazzino.
Suo padre gli strinse una spalla.

“Colpiscilo.”

Tremando, Arturo sollevò il piede. Sentì Sebastiano gemere e tentare di liberarsi dalla presa del fratello, che però non lo lasciò andare. Lo strinse a sé ancora più forte, rendendosi conto dello sgomento che il fratellino provava.
Il piede di Arturo colpì piano il braccio dell’uomo.

“Più forte, Arturo. In faccia.”

La voce di Ghidini non ammetteva repliche.
Il ragazzino si passò le mani sul viso, sentendosi un topo che scappa al primo accenno di pericolo, al primo fischio dell’aquila, ma di nuovo sollevò il piede, e con più forza colpì l’uomo in viso.
Sebastiano urlò qualcosa che alle orecchie dell’amico arrivò come un suono distorto dal dolore e dallo stravolgimento. Arturo fece un passo indietro, ma suo padre lo fece inginocchiare, gli prese un braccio e gli intimò di stringere la mano a pugno. Ripetutamente, guidò il suo braccio con devastante forza sul naso e sugli occhi della vittima, fino a che le nocche di Arturo iniziarono a bruciare, come gli bruciavano gli occhi di lacrime amare. Stava tradendo il suo migliore amico, l’unico che l’avesse mai difeso da quell’uomo che ora lo guidava. Lo stava tradendo e si sentiva una carogna. Nemmeno un topo era: no, era un verme. Un vile. Accanto a lui e a suo padre, anche gli altri squadristi ripresero a picchiare l’uomo. Quando finirono, quando suo padre lo sollevò congratulandosi con lui per l’uomo che era diventato, il volto dell’uomo era irriconoscibile, e il suo petto non si sollevava né abbassava più. Era morto. Aveva ucciso un uomo. Aveva ucciso il padre di Sebastiano. Barcollando, Arturo andò ad appoggiarsi al muro ci casa sua. Il ciglio di quella strada era diventato il teatro di un tradimento tanto grande che il ragazzino faticava a concepirlo. Aveva la nausea, gli pareva di non riuscire a respirare. Ghidini e gli altri squadristi salirono in casa, con le mani e le scarpe sporche di sangue, ma ridendo e parlando come se nulla fosse successo. Non appena il gruppo scomparve dietro la porta, il fratello di Sebastiano lasciò andare il ragazzino, che si precipitò sul corpo del padre. Lo scosse alcune volte prima di comprendere che non gli avrebbe risposto. Rimase immobile alcuni istanti, mentre anche il maggiore comprese che suo padre era morto. Alcune lacrime solcarono il suo viso da uomo mentre si accovacciava accanto al fratello e lo tirava a sé. Sebastiano si divincolò e, con il petto scosso da singhiozzi che fecero malissimo ad Arturo, si strinse al petto freddo del padre. Il fratello gli strinse la schiena, facendogli sentire quel calore che il padre non poteva più dargli. Piangeva anch’esso, ma sommessamente. I suoi occhi erano fissi su quel ragazzino con la camicia nera che aveva visto, in passato, bazzicare nei pressi di casa sua. Arturo ricambiò lo scambio, svuotato di qualsiasi forza. Presto, però, si rese conto che il ventenne lo guardava con un odio che non aveva mai visto in nessun altro. Prima che anche Sebastiano alzasse la testa e gli riservasse quello sguardo, spaventato dalla piega che la situazione e la sua vita avevano preso, Arturo barcollò via. Appena rientrato in casa, con la porta serrata alle spalle e nessuno che poteva vederlo, scoppiò in singhiozzi inarrestabili.
Da quel giorno, Sebastiano gli stette ben lontano. La loro amicizia svanì in un solo pomeriggio. Arturo, troppo spaventato da un’eventuale reazione dell’amico, non provò mai a riavvicinarsi, per quanto quella cosa lo facesse soffrire ogni singolo giorno. Sebastiano, da parte sua, continuò a guardarlo con odio e rancore. Non gli perdonò mai, se non dopo anni, vedendo cosa la guerra facesse fare alle persone, quei calci e quei pugni.
 
 

Perso nei ricordi, quasi non sentì le mani forti di Sebastiano che lo trascinavano via dal gruppo. I compagni avevano chiesto la sua morte, e Sebastiano aveva compreso che opporsi non sarebbe servito a nulla. Anzi, era giusto che Arturo morisse per il rischio che aveva fatto correre a tutti loro. Così, aveva scelto di occuparsene lui, come capo della banda e in virtù del legame che li aveva uniti prima della guerra, e ora lo stava conducendo nel folto del bosco. Come ammazzarlo ancora non l’aveva deciso, aveva scelto di tenere quel pensiero il più lontano dalla sua mente fino all’ultimo.

“Grazie” disse Ghidini inaspettatamente.

Il partigiano non rispose.

“Per aver risparmiato i miei compagni, intendo. Sarò un vile codardo, ma non sono un ingrato.”

Con l’episodio di tanti anni prima fresco nella sua mente, il colonnello riuscì finalmente ad ammettere che tutte le sue azioni erano state dettate dalla viltà e dalla codardia, non dall’amor di patria. Non aveva avuto rispetto per suo padre, per i suoi superiori, per Mussolini. No: li aveva temuti, tanto da lasciarsi guidare lontano da tutto ciò a cui teneva per loro. Lo aveva ammesso, finalmente, ma probabilmente lo aveva sempre saputo. Tuttavia, non riusciva a pentirsene: sapeva che, tornando indietro, avrebbe compiuto ancora le stesse scelte, perché ancor di più aveva paura del giudizio sociale. Ce l’aveva anche in quel momento, solo nei boschi non con Sebastiano, ma con un partigiano. Non riusciva a scrollarsi di dosso quell’etichetta, quella sensazione di nemico. Cosa avrebbe detto l’Italia se lo avesse visto?
Sebastiano continuò a non rispondere, ma Arturo vide i suoi polsi tremare mentre stringevano le sue braccia. Non riuscì a trattenersi dal ridere.

“Che c’è, partigiano, hai paura?” lo schernì, spinto da chissà quale impulso inconscio.

L’inconscio, su una persona incapace di opporsi alla vita, gioca un ruolo fondamentale. Lasciarsi spingere dall’inconscio vuol dire poter non scegliere mai.
Sebastiano si accese di rabbia. Strinse i denti, gli afferrò la camicia all’altezza del colletto e lo sbatté contro un albero. I suoi occhi mandavano scintille.

“Non fare tanto lo spiritoso. Ti ho perdonato anni fa per tutto quello che hai fatto, in nome della nostra amicizia, ma potrei sempre dimenticarmene e tirarti un paio di pugni come quelli che tirasti tu a mio padre, tredici anni fa.”

La sua voce suonava tesa come una corda di violino. Il rancore che si era tenuto dentro a lungo ora usciva come un fiume in piena, finalmente libero di essere espresso. Eppure, Arturo in quel momento provò sollievo: Sebastiano l’aveva perdonato. Giusto in tempo per ucciderlo, ma lo aveva fatto.

“Tredici anni, Sebastiano. Tredici anni.”

Non sapeva nemmeno lui cosa voleva dire con quella frase. Forse solo constatare per quanto tempo fossero stati separati. Senza Sebastiano, Arturo non era nessuno. Non riusciva a splendere: era come la Luna, priva di luce propria. Sebastiano era il sole, la vita, la gioia. Lui non era nulla. Perso Sebastiano, si era lasciato trascinare nel vortice dell’oscurità di suo padre, perché, non potendo brillare, aveva scelto di odiare e di farsi odiare. Chissà cosa c’era veramente dentro di lui.

“Penso che mio padre avrebbe vissuto volentieri altri tredici anni” gli rinfacciò il biondo.

“Per servire la Patria in guerra?”

Arturo non poteva evitare quel tono strafottente. Gli serviva per nascondere le emozioni che la vista di quegli occhi chiari gli provocava. Lo aveva perdonato. Gli aveva ucciso il padre di botte, ma lo aveva perdonato in nome della loro amicizia. Chissà quando era avvenuto, di preciso. Percepiva un certo sollievo anche nella voce del giovane, in realtà. Sfogare quelle emozione vecchie di anni gli aveva fatto bene. Evidentemente quei tredici anni non erano stati facili nemmeno per lui, anche se probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.

“Per fare il partigiano, a differenza tua” gli sputò in faccia Sebastiano.

Poi lo tirò via dall’albero.


***

A spintoni, Sebastiano fece avanzare Arturo tra gli alberi. Le braccia, ancora legate dietro la schiena, iniziavano a fargli male, ma la vicinanza del vecchio amico lo facevano sentire quasi in pace. Era come aver ritrovato una parte di sé che era scomparsa tredici anni prima. Certo, da una parte era disgustato, perché quella sensazione andava contro tutto quello su cui aveva giurato. Ma ormai la confusione regnava sovrana nella sua testa: avrebbe voluto soltanto che quello stupido periodo non fosse mai iniziato, così da non costringerlo a compiere scelte di cui si era pentito. O meglio, a compiere scelte e basta. Si era lasciato trascinare dalla corrente, non era stato capace di scegliere ciò che desiderava veramente. Si disprezzava, per quella. Ma ancora di più si disprezzava perché aveva lasciato che un altro essere umano, che un ragazzo dagli occhi azzurri, facesse crollare le sue sicurezze e le penetrasse tanto facilmente da destabilizzarlo in quel modo. Fino a quel momento, non aveva vacillato. Ora, davanti all’azzurro degli occhi di Sebastiano, si chiedeva il perché di ogni azione compiuta nel nome di suo padre o del Duce.

“Ti devo ammazzare, lo sai, vero?”

Ancora una volta, le parole di Sebastiano interruppero il suo flusso di coscienza. Ma Arturo si stupì, perché tutta la freddezza di qualche momento prima era scomparsa. Al contrario, la voce di Sebastiano era quella di un uomo stanco, in preda alle emozioni, sopraffatto dagli eventi.
Non è tanto diverso da me, dunque pensò Arturo.
Solo più coraggioso.
Voltandosi per guardare il giovane partigiano, che avanzava dietro di lui e non gli aveva mai lasciato andare le braccia, Arturo vide che i suoi lineamenti erano cambiati, rispetto a poco prima, trasfigurati da quelle emozioni che la sua voce tradiva.
Per una volta, scelse per quello che desiderava veramente. Scelse di rendergli quel compito il più facile possibile.

“Fallo. Uccidimi. Meglio morire per mano di uno sporco partigiano rosso che non tornare sconfitto. Come ci sei tornato, tu, a casa, quel giorno di tredici anni fa? Come ci
sei tornato, consapevole che non avevi fatto niente?”

Quelle parole gli costarono una fatica immane, soprattutto perché sentì che Sebastiano era rimasto sconvolto. Tremava terribilmente e aveva per alcuni istanti serrato le palpebre. Arturo chiuse gli occhi, aspettandosi di sentire il metallo freddo della pistola sulla tempia. In fondo, se lo meritava. Ma la pallottola non arrivò. Giunsero piuttosto parole che, se possibile, facevano ancora più male. Dure come pietre, tanto vere da penetrare con violenza nel cuore di Arturo.

“Come ci sei tornato tu, invece, a casa tua? Accolto dal giubilo di quelle cazzo di camicie nere, immagino. Un assassino, proprio come loro.”

Sebastiano urlava, ora. Urlava parole che non aveva mai potuto dire.

“Non sai quanto mi hai fatto schifo. Quando mi hai fatto pena. Ti credevo diverso. E invece non eri altro che un fascista.”

Arturo si voltò, liberandosi dalla presa del partigiano. Scivolò via dalla sua presa come il verme che si sentiva, senza che l’altro opponesse resistenza. Lo guardò negli occhi e vi lesse tutto il dolore di una ferita che mai si era risanata. Vi lesse perdita, senso di tradimento, rabbia. Ed era stato lui a fargli quello.

“Non ho scelto io in che famiglia nascere, Sebastiano.”

La sua risposta fu di una pacatezza che stupì persino lui. L’istinto di urlare era forte, e non capì se a bloccarlo fu l’empatia verso Sebastiano o il timore di una sua reazione.
Nonostante il tono però Sebastiano arretrò come colpito da una scarica elettrica. Gli aveva fatto del male. Il giovane estrasse la pistola, puntandogliela contro. Il suo dito, poggiato sul grilletto, tremava.

“Tu non hai mai scelto nulla” sputò.

Sebastiano fu lapidario, ma Arturo era consapevole che aveva ragione.

“Uccidimi” disse nuovamente.

Vedere la morte in faccia non lo spaventava. Morire significava mettere fine a quell’esistenza di nulla degli ultimi anni.
Sebastiano mirò, e per un attimo Arturo fu convinto di essere già morto. All’improvviso, però, il giovane gettò la pistola a terra.

“Non posso farlo. Ti odio, ti vorrei vedere riverso a terra come è rimasto mio padre anni fa, ma non ci riesco. Sono stanco della guerra. Sono stanco di uccidere gente che ho conosciuto. Non voglio ammazzarti, e non lo farò.”

In quell’istante, grosse gocce di pioggia presero a scendere dal cielo. Una si incastrò tra le ciglia di Arturo, assomigliando a una lacrima. Sbatté di occhi, mentre i ciuffi di capelli già iniziavano ad attaccarsi alla fronte. La riconoscenza gli scaldò il cuore.

“Mi stai salvando la vita, partigiano?”

Non c’era disprezzo nelle sue parole.

Un accenno di sorriso fiorì sulle labbra di Sebastiano.

“Andiamocene da questa pioggia, o ci ucciderà entrambi una bella polmonite.”
 







Salve a tutti! Eccomi ad aggiornare questa mini long! In questo secondo capitolo entriamo nel vivo, non tanto della vicenda, quanto piuttosto delle psicologie dei personaggi. Conosciamo qualcosa in più di loro, delle loro vite, della loro relazione precedente al fascismo e anche dei loro modi di affrontare questo improvviso ricongiungimento. È un capitolo un po’ lungo ma concentrare il tutto i tre capitoli lo ha reso necessario: spero comunque vi sia piaciuto!
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto e recensito il primo capitolo, e tutti quelli che sono approdati qui ora… a presto!
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