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Autore: Saelde_und_Ehre    13/03/2019    10 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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III.
Nach Drill und Dreck, gibt's Erbsen mit Speck



 

Allertato dal lontano rombo dei motori, che in quel silenzio si udiva amplificato, il maggiore Hans Bühler distolse lo sguardo dalla cartina che stava consultando, sollevò il binocolo e scrutò la spianata che si estendeva ai piedi dell’altura. Di tanto in tanto, il Sole faceva capolino da dietro le nuvole, irrorando l’atmosfera di una luce lattescente e fastidiosa. “Peggio del previsto”, grugnì tra sé e sé, riservando un’occhiata accigliata alla nutrita schiera in avvicinamento. Da quella distanza, i camion sembravano giocattoli che si muovevano su un plastico, ma ciò che lo preoccupava era il loro numero.
I suoi soldati si erano già schierati in formazione da battaglia lungo il rilievo boscoso, per attendere il nemico in posizione strategica. Bühler aveva pianificato tutto nei minimi dettagli, sicuro della riuscita: si era offerto volontario per andare incontro alle schiere polacche al posto del tenente colonnello von Rauheneck – quello che, tra tutti i suoi superiori, aveva osteggiato con più vigore la sua precoce promozione – e adesso non poteva deluderlo per nessuna ragione. Aumentò ancora di più la messa a fuoco e increspò le labbra, per osservare meglio i convogli e farsi un’idea di quanti fanti potessero contenere.
Cercando di fare in fretta il punto della situazione, si chiese per l’ennesima volta se il piano che aveva elaborato presentasse qualche falla che lui, troppo preso dall’urgenza di agire, non era ancora riuscito a individuare.
“Di male in peggio,” borbottò nuovamente.
Il maresciallo Fuchs, che passava da lì trascinandosi dietro una pesante cassetta di munizioni, si fermò a pochi passi da lui. “Prego, signor maggiore?”
L’ufficiale non lo degnò di uno sguardo. “Credo siano almeno un reggimento,” proferì, a denti stretti.
Fuchs parve non capire. “Contro due battaglioni?”
“Un battaglione e mezzo, per la precisione.”
Il sottufficiale, che doveva avere almeno il doppio degli anni del giovane comandante, lo scrutò da sotto le folte sopracciglia inarcate. “Non dovrebbe essere un problema per dei soldati della Ostpreußen, signor maggiore.”
“La vittoria arriva solo alla fine della battaglia,” replicò l’uomo di ferro.
“Senz’altro, signore.”
Bühler congedò il maresciallo lasciandogli detto di convocare a rapporto i comandanti di compagnia, poi trasse dalla tasca un taccuino e si mise ad annotare con la sua grafia nervosa tutte le informazioni che aveva raccolto sul reparto nemico. Quando si voltò, Schwieger e Walkenhorst, giunti sul posto, salutarono militarmente.
“Riposo,” disse il maggiore con un gesto sbrigativo, faticando ancora ad abituarsi al pensiero che quelli che fino a due mesi prima erano i suoi parigrado fossero adesso ai suoi ordini. Fece loro cenno di avvicinarsi alla cartina e i due ufficiali lo affiancarono, uno da un lato e uno dall’altro. “I nemici vogliono arrestare la nostra avanzata, ma saremo noi a far retrocedere loro”, dichiarò, con serena risolutezza. “Mentre aspettiamo che il tenente colonnello von Rauheneck ci raggiunga col quarto battaglione, il piano è questo.”
E iniziò a spiegare.

La battaglia infuriava. Tra i fitti alberi della foresta aleggiava la tetra bruma sollevata dalle esplosioni, perforata in più parti dalle traiettorie dei proiettili.
Appena ebbe terminato di riportare sulla mappa i progressi dell’offensiva, Bühler si avviò verso le prime linee, dove i mitraglieri e i fucilieri si erano ordinatamente schierati in una trincea abbandonata, protetti da barriere di sacchi imbottiti. Qualcuno dei soldati trasalì vedendolo passare proprio accanto a loro con le mani dietro la schiena, ma la forza dell’abitudine li portò a scrollare le spalle.
L’ufficiale non ci fece caso. “Allora, Hauer, come vanno le cose?” chiese dopo un po’, fermandosi vicino a un tenente che colpiva il caricatore inceppato del mitra.
“Alla grande, signore!” rispose convinto il ragazzo, rivolgendogli un sorriso a trentadue denti.
Egli riservò un’occhiata agli altri soldati del plotone per sincerarsi di persona che tutto andasse per il meglio, poi si congedò e continuò il suo giro di routine nel solco della trincea. Scambiò qualche facezia con un paio di sergenti, si fermò a rivolgere parole d’incoraggiamento a un ferito e raccolse da terra il fucile abbandonato da quest’ultimo, per dotarsi anch’egli di un’arma che non fosse la pistola d’ordinanza.
“Forza, lavativi!” ruggì il capitano Walkenhorst, riparato dietro una barriera accanto a due giovani sottufficiali che maneggiavano una mitragliatrice pesante. Bühler li raggiunse mentre inseriva le cartucce nel fucile. “Non abbiate paura di sprecare quei proiettili!”
“Signorsì!” esclamò un sergente, affrettandosi a ricaricare il nastro della sua MG 34. Il crepitare degli spari si fece ancora più fitto e serrato di quanto già non fosse; la controparte nemica rispose con altrettanta foga.
I due ufficiali si scambiarono uno sguardo d’intesa e il maggiore ghignò.
“Siamo in guerra, non a una battuta di caccia al fagiano!” li incalzò Walkenhorst. “Devo forse venire io a premere il grilletto per voi?”

Il soldato Schütze si aggirava per la trincea con falcate nervose, scrutando ogni volto nella speranza di scorgere quello del comandante di battaglione. “Dov’è il maggiore?” urlava, interpellando ogni singolo soldato che gli si parasse di fronte. Non era infrequente che Bühler sparisse nel bel mezzo di una battaglia, costringendo i portaordini ad andarlo a cercare – quando in prima linea, quando a presiedere le operazioni dei reparti d’artiglieria, quando nelle retrovie a occuparsi dei feriti.
“Signor maggiore?” ripeté, per l’ennesima volta.
Quasi per caso, Schütze lo adocchiò mentre parlava col capitano Walkenhorst, proprio sotto la linea di fuoco dei nemici. Se non fosse stato per la sua altezza, che lo faceva svettare su quella selva di teste immerse nella caligine degli spari, non lo avrebbe neanche notato. Non poté fare a meno di chiedersi se il predecessore del giovane, in tutti gli anni di onorato servizio prestati all’interno della Reichswehr, si fosse mai comportato in quel modo ma, prima ancora di vagliare le sue memorie per trovare una risposta a quel dilemma, dovette scacciarlo scuotendo vigorosamente la testa. “Herr Major!”
Finalmente, Bühler parve accorgersi di lui, appoggiò il fucile e gli andò incontro.
Incalzato dall’urgenza, il portaordini affrettò il passo per raggiungerlo. “Signore, il tenente colonnello von Rauheneck richiede un rapporto dettagliato dell’operazione in corso!”

Il maggiore si trattenne per un po’ vicino alle bocche da fuoco, tenendo il taccuino appoggiato contro il tronco di un albero mentre scribacchiava il rapporto che avrebbe dovuto fare al suo superiore, poi tornò a scrutare lo schieramento nemico. “Perdono terreno”, osservò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma a voce sufficientemente alta perché i suoi soldati lo sentissero. “Stiamo andando bene!”
Ordinò al plotone artiglieria di aumentare la potenza di fuoco, si fece scivolare nella tasca il taccuino e la penna e ricominciò col suo giro d’ispezione.
Inginocchiato per terra dietro un camion da trasporto munizioni c’era il sottotenente Schultz, che canticchiava una canzone popolare mentre impilava e catalogava le cassette contenenti i proiettili.
“Schultz!” lo chiamò.
Il ragazzo sussultò e arrossì violentemente, rischiando di farsi cadere una delle scatole sui piedi. “Signor maggiore!” balbettò.
Scattò subito sull’attenti, ma Bühler lo prevenne: i convenevoli lo stancavano in fretta, soprattutto quando sentiva l’esigenza di andare subito dritto al punto.
“Come al solito non era attento, sottotenente”, lo rimbrottò, prendendolo da parte. “E se fossi stato un infiltrato nemico?” Accompagnò quelle parole mimando il gesto di estrarre il pugnale che gli pendeva dalla cintura, seguito da una rapida torsione del polso e dalla simulazione di un affondo. “Avrei potuto avvicinarmi di soppiatto per accoltellarla alle spalle, e lei sarebbe stramazzato al suolo senza neanche accorgersene.” Inchiodò le sue pupille con uno sguardo severo. “E così, lei pretenderebbe di far parte di una divisione d’élite?”
L’altro deglutì e spostò il peso da un piede all’altro, passandosi una mano tra i capelli chiari. “Con tutto il rispetto, signore, sono abituato a ben altri incarichi e non mi aspettavo che lei…” s’interruppe, subito zittito da un’occhiataccia da parte del maresciallo Bergmann.
Onde scongiurare ulteriori polemiche nel bel mezzo di una battaglia, il maggiore fece finta di non aver sentito. Con un semplice gesto, si limitò ad allontanare il sottufficiale.
“Sottotenente, voglio che lei abbia ben chiaro perché l’ho relegata a questa mansione,” riprese, dopo una breve pausa. “La gloria individuale non è qualcosa che va cercato. La gloria si conquista tutti insieme, e il valore di un ufficiale si vede anche dalla capacità di comprendere quando è meglio evitare di mettere inutilmente a repentaglio la propria vita e quella altrui per un capriccio personale. Non tollererò altri atti sconsiderati come quello di ieri. Intesi, Schultz?”
Il ragazzo chinò il capo, mordendosi il labbro inferiore. “Sì, signore.”
“Molto bene, sottotenente. Ora torni alle sue occupazioni, non è facendo conversazione che si vincono le battaglie.”
Senza abbandonare il settore dell’artiglieria, Bühler diede un paio di disposizioni ai serventi dei 105 e si avvicinò per aiutare una recluta ad armare un obice particolarmente pesante.
“Grazie, signor maggiore,” mormorò il ragazzo, asciugandosi il sudore dalla fronte.
Hans annuì e gli diede una leggera pacca sulla spalla per incoraggiarlo. Fece per passare oltre, quando un urlo allarmato del maresciallo Bergmann lo richiamò all’attenzione. Un sibilo assordante lacerò l’aria torrida e, subito dopo, un ordigno si abbatté a pochi metri da lì, sollevando un mostro di fiamma che ghermì i cespugli e si gonfiò con un ruggito raccapricciante.
Bühler fece appena in tempo ad afferrare il bavero della recluta per spingerla via, poi finì sbalzato a terra dall’onda d’urto, mentre una bordata di schegge e pietrisco gli pioveva sulla schiena. Qualcuno urlò, ma il boato dell’esplosione coprì la sua voce.

“Dannazione”, gracchiò il maresciallo, tra i colpi di tosse. “Signor maggiore!”
Ancora frastornato dall’esplosione, un braccio schiacciato sotto il peso del corpo, l’ufficiale puntellò il gomito a terra per alzarsi. Una stilettata di dolore, che s’irradiò dal fianco destro trafiggendolo da parte a parte, lo costrinse a reprimere un grugnito. Sollevò la testa: tra le zaffate bollenti di fumo nero, scorse il sottotenente Schultz che cercava invano di diradarle con ampi gesti delle mani e il maresciallo chino su una sagoma riversa al suolo. Stringendo i denti, con gli occhi che gli lacrimavano a causa delle esalazioni, Bühler si sollevò a sedere e cercò di riprendere fiato, imponendosi di ignorare le fitte al fianco. Si avvicinò al ferito e si rese conto con sgomento che si trattava della giovane recluta: sembrava privo di sensi, e una scia di sangue gli scendeva giù dalla tempia.
Si alzò e, senza preamboli, ordinò: “Schultz, aiuti il maresciallo a portare questo ragazzo al posto di medicazione, prego.”
“Sissignore!”
“Signore, faccio rispettosamente notare che…” intervenne il sottufficiale, ma la mano alzata del maggiore gli impose di tacere.
“Bergmann, voglio il capitano Schwieger a rapporto da me entro due minuti,” tagliò corto. La sua voce, seppur più fioca del normale, non aveva perso la sua usuale fermezza. Con noncuranza, si portò una mano alla parte lesa: un liquido caldo e purpureo gli colava sul palmo, imbrattando la manica dell’uniforme, ma – rilevò – non doveva essere una ferita particolarmente profonda. O almeno, niente che potesse giustificare un suo momentaneo allontanamento dal campo di battaglia. Alzò gli occhi su quello che restava del pezzo d’artiglieria, poi oltre la volta alberata che li proteggeva: il cielo imbruniva, ma lo scontro sembrava ben lungi dal raggiungere un punto di svolta.

Incalzati dal sempre più vicino scalpiccio dei soldati nemici, Friedrich von Kleist ed Erich Kühn filavano senza neanche far caso a dove stessero andando. Le viuzze del villaggio si susseguivano tutte uguali, strette e tortuose, contornate dalle buie sagome di edifici di cui Erich, nell’ebbrezza della corsa, riusciva a malapena a discernere i connotati. Il cuore gli martellava nelle tempie dandogli l’impressione che la testa stesse per scoppiargli, rendendo ovattato e distante perfino il rumore delle raffiche di mitra che li inseguivano.
Senza smettere di correre, il tenente von Kleist rispose al fuoco con un paio di colpi di pistola in rapida successione. “Più veloce!” gridò.
Kühn, che si premurava di coprirgli le spalle mentre l’altro apriva la strada, lo seguì mentre svoltava l’angolo di un edificio parzialmente diroccato.
Una pallottola gli sfiorò lo stivale, accompagnata da esclamazioni concitate di cui il ragazzo non riuscì a cogliere il significato. Bastò tuttavia il tono ostile con cui furono proferite a fugare ogni dubbio circa i loro sottintesi, facendogli correre un brivido gelido lungo la spina dorsale.
“Vogliono colpirci alle gambe in modo da rallentarci,” spiegò von Kleist, sfiatando per l’affanno. “Siamo pur sempre ufficiali, non ci guadagnerebbero nulla a freddarci sul posto.”
“Non che essere catturati sia una prospettiva migliore,” ansimò il sottotenente.
“Decisamente no!”
Affrettarono l’incedere delle falcate, le pistole ben salde in pugno. I nemici continuavano a sparare a terra, seminando bossoli di proiettili che tintinnavano sull’acciottolato.
Il tenente imboccò un vicoletto incuneato tra due palazzi dall’ombra imponente. Il rumore dei loro stivali riecheggiava sui ciottoli della pavimentazione, l’equipaggiamento sbatacchiava contro i loro fianchi producendo un incessante tramestio.
All’improvviso, Friedrich von Kleist arrestò la propria corsa, in maniera così repentina che il sottotenente rischiò di travolgerlo. Si scambiarono un’occhiata carica d’apprensione: di fronte a loro, nient’altro che un muro di mattoni alto almeno due metri, assediato su entrambi i lati da altrettante stamberghe.
“Vicolo cieco”, constatò Erich, col cuore in gola.
Von Kleist si voltò, figgendo gli occhi sull’imboccatura del viottolo.
“Non c’è tempo per tornare indietro… ci sono alle costole.” Proprio in quel momento, i passi che credevano di essersi lasciati alle spalle tornarono a riecheggiare sempre più vicini. “Si prepari a saltare, Kühn!”
Appena il tempo di finire la frase, che il tenente spiccò un balzo e si aggrappò con entrambe le mani alla sommità del muretto, issandosi di peso per scavalcarlo. Erich aspettò che l’altro fosse scomparso al di là della barriera, poi saltò a sua volta mentre l’ennesima scarica di piombo s’infrangeva contro i mattoni.
Dopo una breve caduta, i due giovani rotolarono lungo un argine scosceso e rovinarono in un fosso invaso dalle erbacce. “Devo essermi slogato una caviglia…” mugugnò il tenente, tirandosi su con passo malfermo.
Kühn guardò prima lui, poi il muro a diversi metri di distanza, oltre il quale intravide l’elmetto verde di un polacco. Dall’altra parte qualcuno abbaiò qualcosa che suonava come un contrordine, a cui il soldato replicò in tono aspro. Il sottotenente agguantò il braccio di von Kleist e, senza ulteriore indugio, si lanciò a corsa attraverso il campo di grano che si estendeva di fronte a lui, trascinandosi dietro il camerata zoppicante.

“Non ho più colpi in canna!” ringhiò von Kleist, soffocando un’imprecazione mentre premeva il grilletto a vuoto. Il dolore per la storta gli era passato in fretta, e il giovane ufficiale lo precedeva sul terreno inciso da profondi solchi, falciando le erbacce bruciate dal sole.
Kühn si volse indietro: gli inseguitori gli urlarono contro in tono minaccioso e si fermarono a soccorrere uno dei loro compagni, che apparentemente era stato colpito di striscio da uno degli ultimi proiettili. “Pensi a correre, tenente!”
I due giovani scavalcarono il fosso che delimitava il campo, attraversarono una stradina sterrata e si lanciarono a rotta di collo oltre una staccionata che segnava i confini di un orto privato, disseminato di alberi da frutto.
Col fiato corto, scivolarono dietro una capannina per gli attrezzi, sfruttando il riparo offerto dai ciocchi impilati contro la parete. Erich si ripulì la manica della divisa dai forasacchi che vi si erano impigliati e rivolse uno sguardo di sfuggita al suo camerata: von Kleist stava riarmando la sua Walther P38 d’ordinanza, per poi abbassarla senza staccare le dita dal grilletto. Subito dopo, si sporse oltre l’angolo e con un cenno sbrigativo gli ordinò di nascondersi.
Il sottotenente si accovacciò coi gomiti sulle ginocchia e si tolse l’elmetto, la schiena appoggiata contro la catasta di legna; poi, con un sospiro, si passò una mano tra i capelli fradici di sudore e si attaccò alla borraccia, accogliendo con sollievo la sensazione dell’acqua che gli bagnava la gola riarsa.
Un calpestio cadenzato di molti stivali, che faceva da accompagnamento alle note solenni di una marcia militare, segnalò il passaggio di un piccolo contingente polacco.
“Aspettiamo che si calmino le acque, poi raggiungiamo il resto del plotone”, disse il tenente a bassa voce, quando i soldati furono abbastanza lontani.
Erich annuì. “Ricevuto, signore.”
Assorto, si perse a contemplare l’orizzonte: il cielo grigio, velato di striature d’indaco e di pesca, virava verso il tramonto, mentre stormi di uccelli migratori prendevano la via del meridione.
Friedrich von Kleist si sedette per terra accanto a lui. “Spero che i nostri siano riusciti ad arrivare sani e salvi al vecchio fienile.” Alla fine della battaglia, i tedeschi erano riusciti a mandare in rotta le forze polacche, ma un piccolo distaccamento aveva preso di mira il loro plotone e lo scontro a fuoco si era protratto per le strade del villaggio. Per coprire la ritirata dei soldati, i due ufficiali avevano loro comandato di disperdersi in vari gruppetti, inducendo i nemici a fare lo stesso. “Sapevo che la maggior parte dei polacchi avrebbero inseguito me, ecco perché ho dato ordine agli altri di precedermi… la ringrazio per avermi seguito fin qui, sottotenente.”
Kühn si passò una mano tra i capelli e rifletté a fondo sulle parole del suo compagno: quella dichiarazione lo aveva spiazzato e, per la seconda volta in un giorno, l’impalcatura di pregiudizi che involontariamente gli aveva costruito addosso barcollò pericolosamente.
Rifletté su quanto in fretta fossero cambiate le cose per lui, umile figlio di proletari: quando suo padre era morto, consumato dal cancro dopo una vita segnata dai ritmi massacranti del lavoro in fonderia, Erich aveva deciso di arruolarsi nell’esercito nella speranza di lottare per una Germania nuova e più vicina alle esigenze del popolo. Nonostante le reticenze della madre, a nemmeno diciott’anni era partito da Berlino con pochi averi stipati in una valigia di cartone e aveva presentato domanda di ammissione alla scuola ufficiali di Dresda. E adesso, dopo aver sperimentato tra i ranghi della Hitlerjugend l’essenza del vero cameratismo, si ritrovava a combattere spalla a spalla con un giovane rampollo della nobiltà prussiana.
Aprì la bocca, pur non sapendo esattamente cosa dire, ma si zittì non appena percepì su di sé gli occhi chiari del tenente, che sembravano volergli leggere dentro.
“Sarà ora di andare, Kühn?” disse von Kleist, rivolgendogli un sorriso sghembo. Con un gesto sommario, si ravviò all’indietro le onde di capelli dorati che gli piovevano sulle tempie, si rimise l’elmetto e si alzò in piedi. Non era molto alto né particolarmente robusto, ma compensava con una corporatura atletica e asciutta, messa in risalto da quell’uniforme che gli sembrava cucita addosso. Si affacciò al di là del nascondiglio tenendo alta la pistola, con lo sguardo intento di un’aquila che scruta la valle dalla sommità di un picco. “Calma piatta”, lo informò infine. “Venga, sottotenente, ma stia ben attento.”
Per tutta risposta, Kühn fece scattare la sicura della sua P38 e lo seguì come un’ombra.

L’ultimo vestigio del Sole morente non era che una striscia sanguigna dipinta sulla linea dell’orizzonte, prima avvisaglia delle tenebre impalpabili che presto li avrebbero avvolti. Friedrich von Kleist intravide la sagoma nera del fienile che incombeva in lontananza, vagamente rischiarata dal bagliore fioco della luna. Si appiattì dietro un albero cavo e si guardò intorno con circospezione, stringendo gli occhi: le spighe venivano scosse dolcemente dal vento della sera, mentre un nugolo di pipistrelli svolazzava intorno alle pale di legno di un vecchio mulino. Nessuno era in vista.
“Via libera”, bisbigliò.
I due ufficiali s’incamminarono verso il rifugio a capo chino, gli stivali che affondavano nell’erba alta fino al polpaccio. Circondato da uno steccato sbilenco e in parte divelto, il granaio era un enorme edificio col tetto spiovente, la facciata intonacata di bianco e una vistosa intelaiatura in legno che ricordava lo stile architettonico tedesco. Tutte le porte, anch’esse in legno, apparivano sprangate, ma dalle fessure tra le assi decrepite trapelavano un chiacchiericcio continuo e il tiepido lucore che un fuoco spandeva all’interno dell’ambiente.
Mentre Kühn gli copriva le spalle con la pistola ancora stretta nel pugno, il tenente von Kleist si accostò a quella che sembrava un’entrata laterale e bussò: tre colpi, secchi e decisi, dati con la punta delle nocche.
“Parola d’ordine,” gracchiò una voce dall’interno, in perfetto tedesco.
“Schadenfreude!” 1 rispose prontamente il sottotenente.
Friedrich scrollò la testa, sorridendo tra sé. “Ci faccia entrare, Eichmann.”
Si sentì lo schiocco del chiavistello e il gemito dei cardini che scorrevano cigolando, poi la porta si aprì disegnando una sottile lama di luce sull’erba. “Presto, dentro!” ingiunse ruvidamente il maresciallo, abbassando la sua antiquata Luger P08.

L’interno del fienile era pervaso da un’atmosfera lugubre, accentuata dalle fiamme dei bivacchi che guizzavano proiettando ombre sinistre lungo le pareti; un ampio squarcio sul tetto impediva che il fumo ristagnasse nell’ambiente.
Festoni di corde e altri attrezzi agricoli pendevano dalle travi che sorreggevano la struttura; le presse di fieno accatastate senza apparente logica ospitavano i sedili improvvisati di un gruppo di soldati intenti a conversare allegramente. Holger Schneider era appollaiato su un covone, dietro al quale spuntava la canna dell’obice, e stava fumando una sigaretta insieme ai suoi fedeli assistenti Horn e Schwarz, mentre Krause, in disparte in un angolo, giocava col cane facendogli mordere un berretto di stoffa.
Non appena vide i due nuovi arrivati, Otto abbandonò il suo temporaneo passatempo per andare a salutare il sottotenente Kühn, affondandogli il muso nella giubba dell’uniforme e scodinzolando entusiasta.
Nel frattempo, il maresciallo capo Eichmann prese il tenente in disparte per fargli rapporto dell’accaduto delle ultime ore, e gli raccontò di come una manciata di soldati comandati da Hoffmann fosse riuscita a tenere testa agli avversari mentre i serventi dell’artiglieria ripiegavano verso i campi trascinandosi dietro il cannone.
“Ci siamo trattenuti quel tanto che bastava per assicurarci che nessuno rimanesse indietro, poi ci siamo ritrovati fuori dal villaggio e ci siamo diretti qui come da ordini”, concluse.
Friedrich riservò un’occhiata d’insieme all’intero plotone, contando mentalmente il numero dei presenti. “Nessun ferito, oltre a quelli che sono stati trasportati al posto di medicazione dopo lo schianto?”
“No, signor tenente”, rispose il sottufficiale. “Si sono comportati tutti bene in sua assenza.”
Quella notizia ebbe il potere di rinfrancarlo più di quanto non lo avesse già fatto vedere i suoi soldati arzilli e di buonumore nonostante lo spiacevole inconveniente, e gli angoli della bocca gli si piegarono in un leggero sorriso. “E tra i nemici, avete fatto prigionieri?”
“Solo uno, che ci ha offerto la sua resa incondizionata. Gli altri hanno battuto in ritirata.” Eichmann indicò il cantone più buio. “Vede quei due col fucile, tenente?”
Il giovane allungò appena il collo, scorgendo ai loro piedi la figura di un soldato in verde-marrone che si abbracciava le ginocchia. Non fu particolarmente sorpreso dall’atteggiamento remissivo che mostrava di fronte ai suoi carcerieri. “Dopo andrò a fargli visita.” Indugiò su quell’ombra raggomitolata, poi si inoltrò sempre più a fondo nell’antro che li ospitava, verso l’alone di luce prodotto dalle fiamme crepitanti di un falò. “Lindemann, si metta subito in contatto col capitano Fromm”, ordinò, a voce abbastanza alta da catturare l’attenzione di tutti i presenti. “Dobbiamo organizzarci in fretta per raggiungere il resto della compagnia… o prepararci all’eventualità di trascorrere la nottata qui.”
“Subito, signor tenente!” scattò l’operatore radio, facendogli cenno di avvicinarsi. Subito dopo s’infilò le cuffie, rimase per una manciata di secondi in attesa e cominciò uno scambio concitato. A pochi passi di distanza, Friedrich non riusciva a captare le parole che pervenivano dall’altro capo, ma dal tono accalorato di Lindemann e dal nervoso tamburellare della penna tra un’annotazione e l’altra, dedusse che le notizie riferitegli da Hirsch non dovessero essere particolarmente buone. Quando la comunicazione s’interruppe, il graduato ripose le cuffie e riferì: “Signore, la nostra compagnia si trova a due chilometri da qui, non distante dal punto in cui ci siamo separati. La compagnia del capitano Bentheim ha indotto un reparto corazzato alla ritirata, mentre i nostri hanno sbaragliato la fanteria grazie all’intervento congiunto di un plotone della Leibstandarte…”
Il tenente inarcò le sopracciglia e fece per esprimere le proprie perplessità, ma Lindemann lo precedette: “Tuttavia, le due compagnie comandate dal maggiore Bühler sono state accerchiate da un reggimento di fanteria motorizzata e sono tuttora bloccate sulla linea del fronte. Ci sono giunte frammentarie informazioni a riguardo di un’esplosione in cui sarebbero rimasti feriti tre soldati, tra cui lo stesso maggiore.”
Hans è ferito? A quelle parole, Friedrich si sentì mancare un battito, e rimase per qualche istante a fissare il vuoto con gli occhi strabuzzati. “Il… maggiore?” sfiatò.
“Pare che non sia nulla di grave, visto che Bühler è rimasto a coordinare le operazioni come se nulla fosse, senza abbandonare il campo neanche per un minuto,” rispose il caporale, con un’alzata di spalle.
Non mi sarei aspettato nulla di diverso da lui, pensò il tenente, mentre un brivido di sollievo gli attraversava la spina dorsale. Nonostante la completa fiducia che nutriva nei confronti delle sue capacità, l’istinto lo portava a preoccuparsi per il suo compagno, e sapere che era fuori pericolo non era che una magra consolazione: conoscendo Hans e la sua tendenza a minimizzare anche gli infortuni più gravi, non si sarebbe meravigliato se gli avessero detto che aveva insistito per combattere con tre pallottole in corpo. “Capisco,” disse infine, cercando di darsi un contegno distaccato e buttando un’altra occhiata al suo orologio da polso. “Sono da poco passate le sette e mezzo di sera, e due chilometri a passo svelto si ricoprono in fretta. Riferisca ai soldati di disporsi per la marcia: intendo partire entro mezz’ora!”

“Ma quanto manca prima di arrivare?” borbottò il soldato Kollwitz, un giovanotto che doveva avere al massimo diciott’anni. “L’ora di cena è già passata da un pezzo, e a me brontola lo stomaco!”
Bauer lo affiancò e gli batté una manata sulla spalla, con ironica solidarietà. “Pensa che anche stasera ti toccheranno i piselli con lo speck!”
“E le solite gallette rafferme,” rincarò Löffler. “Vedrai come ti passa in fretta la fame, ragazzo.”
Kollwitz, stizzito, incassò il collo tra le spalle e affrettò il passo. “Bah, contenti voi.”
“Le ostriche e il caviale sono per ragazzini viziati!” gli urlò dietro Bauer, provocando in Löffler uno scoppio di risa incontrollate.
“Dopo il fango e il sudore, piselli e speck dalla marmitta da campo!”
Incuranti delle proteste del commilitone più giovane, i due uomini si scambiarono uno sguardo complice e iniziarono a cantare, coinvolgendo gran parte del plotone.

“Nach Drill und Dreck
gibt’s Erbsen mit Speck
aus der Gulaschkanone!”
2

Non c’era anima viva in giro: i canti, gli schiamazzi e le risate dei soldati erano le uniche cose che turbavano la quiete dell’aperta campagna; il medaglione argenteo della Luna spiccava in un cielo punteggiato di stelle, guidando i loro passi lungo quel sentiero deserto.
Friedrich von Kleist marciava in silenzio, le mani in tasca e un occhio distratto rivolto al paesaggio. Era in quei momenti che il suo animo romantico si risvegliava, riportando alla sua mente suggestioni che restavano celate dalla luce del giorno. Un sottile turbamento, soffuso di malinconia ma al tempo stesso impetuoso come una tempesta, lo conduceva lontano dalla prosaica quotidianità e guidava i suoi pensieri nelle lande del sogno.
Ma quel giorno, a gravare su di lui erano nubi cariche di pioggia: per inclinazione personale, sapeva di poter partecipare solo da esterno alla gioia dei suoi commilitoni, ma se ci ripensava non riusciva neanche a condividere le ragioni di tanta allegrezza. Essere scampati alla morte, ricevendo la grazia di un nuovo giorno da vivere, non era un motivo sufficiente per gioire: era solo un invito a rinnovare la lotta, fino a quando la vittoria o la morte non ne avrebbero decretato le sorti finali.
Quel giorno, nessuno aveva apertamente messo in discussione la sua decisione di trattenersi insieme al primo battaglione, trasgredendo gli ordini del capitano prima e di Hans Bühler poi, ma i sussurri dei sottufficiali rimarcavano il fatto che tutti si fossero resi conto della gravità della situazione.
Tuttavia, egli sentiva di aver fatto la cosa giusta, nella speranza di salvare le sorti della battaglia, ed era disposto ad affrontare i suoi superiori per far valere le proprie ragioni.

Rannicchiato sullo scomodo sedile posteriore della Kübelwagen, Hans Bühler giaceva insonne, prestando un orecchio distratto ai fruscii della foresta e al sommesso russare del capitano Schwieger. Al suo fianco, allineati, c’erano il cinturone della pistola, il berretto da ufficiale, una torcia e il binocolo.
Nel caso qualcuno tentasse una sortita notturna, meglio farsi trovare preparati…
Non si aspettava di trovarsi così presto a dover pernottare sul campo di battaglia, coi polacchi accampati dall’altra parte della trincea, benché il suo ferreo addestramento lo avesse già preparato all’evenienza quando ancora vestiva le stellette dorate di capitano. La luna piena, come una guardiana silente, vegliava sulle due schiere senza prender parte al conflitto.
Lo zaino appallottolato sotto la testa e gli stivali sporchi di fango ai piedi, il maggiore si rigirò inquieto su quel giaciglio improvvisato. I sedili scricchiolarono rumorosamente e una fitta al fianco gli riportò alla mente la ferita ricevuta in giornata, che, pur non essendo invalidante, continuava a dolergli ogni volta che tentava un movimento un po’ più brusco.
Subito dopo, udì un grugnito infastidito e uno sbadiglio al di là dello schienale che lo separava dal suo commilitone.
“Günther, sei sveglio?” bisbigliò.
Trascorse qualche istante di silenzio prima che l’altro rispondesse, biascicando le parole. “Hans… da quanto tempo non mi chiamavi per nome!”
“Le vecchie abitudini sono dure a morire.” Bühler sorrise appena, allungando le gambe fuori dal finestrino. “Ti ricordi, le notti d’estate passate a dormire all’addiaccio insieme agli altri capitani? Eravamo io, te, Bentheim e Walkenhorst…”
“E questi sedili sono sempre stati scomodi,” commentò l’altro. “Ma c’è da dire che sarebbe potuta andare peggio: pensa a quei poveracci che dormono nei sacchi a pelo con questa umidità…”
Il maggiore annuì in silenzio. Gli eventi appena precedenti alla guerra lo avevano disorientato, mettendo a dura prova la sua capacità di adattamento: poco prima di un’esercitazione, il precedente comandante di battaglione era morto per un colpo accidentale partito dalla pistola che stava maneggiando, e l’imminenza della guerra aveva portato il colonnello Wolff ad affidare l’incarico proprio a lui, che tra i quattro capitani era quello con più anni di servizio all’interno della Divisione. A distanza di due mesi, il giovane faceva ancora fatica ad abituarsi a quell’inaspettato cambiamento e a tutte le responsabilità che gli gravavano sulle spalle.
“E così, anche l’ultimatum della Francia è scaduto…” riprese Schwieger, muovendosi sui sedili anteriori.
“E adesso abbiamo praticamente tutta l’Europa schierata contro di noi”, disse laconico il maggiore. “Evidentemente, non gli è bastato metterci in ginocchio per vent’anni, con quelle scellerate clausole del trattato di Versailles… a quanto pare, nel prossimo futuro dovremo prepararci a combattere su più fronti.”
“Adesso è giunto il momento di rialzarci e di dimostrare che la Germania non china il capo di fronte a nessuno,” fu l’ardente replica del capitano.
Hans tacque; la sua mente rievocò le solide convinzioni che lo avevano spinto ad arruolarsi nell’esercito, che anni dopo si sarebbero perfezionate incontrando gli afflati idealistici del tenente von Kleist. “L’aquila risorgerà dalle proprie ceneri, come una fenice…”
“Sai, io ricordo ancora bene gli anni della crisi economica…” continuò Schwieger. “All’epoca ero ancora un ragazzino, ma mi sembra ieri quando mio padre tornò a casa dicendo di aver perso il suo lavoro come portuale ad Amburgo. Lui e mia madre dovettero fare molti sacrifici per tirare avanti con cinque figli piccoli…”
“La ricordo anch’io”, rispose Bühler, dopo una lunga pausa. “Mio padre era un avvocato molto rispettato, ma una volta tornato dalla guerra non fu più lo stesso: una mina gli aveva portato via una gamba e le sanzioni economiche lo costrinsero a chiudere il suo ufficio, campando di una misera pensione per invalidi.” Ancora una volta, il giovane fu investito da un’ondata di ricordi, che si susseguivano come in una catena: rivide se stesso a otto anni, con la divisa dell’austero collegio in cui sua madre l’aveva mandato; suo padre con le stampelle e il volto sfigurato dalle ustioni; e infine, come se immaginasse di contemplarlo dall’alto, il borgo medievale in cui era nato, immerso nel verde smeraldino delle colline e contornato dalle tinte più intense degli sconfinati boschi di abeti. “Mia madre fu costretta a ritirarmi dal collegio, e da quel momento in poi passai il resto della mia infanzia nella Foresta Nera, a casa dei miei nonni.”
Schwieger non rispose subito, perché un sonoro sbadiglio mise fine alla conversazione. Si mosse facendo dondolare il veicolo e, prima di distendersi nuovamente, concluse: “Ti conosco da così tanto tempo che potrei considerarti quasi un fratello, Hans. Mi ha fatto piacere parlare con te come ai vecchi tempi.”
Bühler sorrise nel buio. “Grazie per la chiacchierata, Günther.”
“Adesso torno a dormire. E tu vedi di non strapazzarti troppo, con quella ferita.”
Con un sospiro, il maggiore si rannicchiò contro lo schienale e si tirò la coperta fin sul mento, concedendosi di indugiare in qualche frammento di ricordo che lo legava a Friedrich.
Sapeva già che non avrebbe chiuso occhio.

Appena fuori dal campo visivo del comandante di compagnia, Friedrich von Kleist si passò una mano sul viso e scrollò il capo con l’aria di rassegnarsi all’ineluttabilità.
“La sua efficienza è proprio ciò che ci si aspetta da un ufficiale della Wehrmacht, tenente,” gli aveva detto il capitano, “sebbene un tale zelo nel condurre le operazioni non fosse stato richiesto da nessuno. Mi limiterò a renderlo noto al colonnello Wolff, che deciderà i provvedimenti da prendersi. Per ora, fino a nuovo ordine, si consideri congedato.”
Erano giunti all’accampamento poco prima delle nove di sera, dove ad attenderli avevano trovato un rancio tiepido e gli aneddoti dei loro compagni d’armi. I baraccamenti della 1. SS-Panzer-Division Leibstandarte emergevano dall’oscurità, punteggiati da tiepide luci, mentre i soldati delle due compagnie di fanteria si erano dovuti accontentare di alloggi di fortuna, e ancora si attardavano intorno ai fuochi in piccoli gruppetti sparuti.
Trascinando un passo dopo l’altro, il pesante bagaglio in spalla, il tenente s’incamminò verso la chiesetta sconsacrata che fungeva da camerata per gli ufficiali inferiori, pregustando già il momento in cui avrebbe adagiato le sue membra su qualcosa di morbido.
Le voci di tenenti, sottotenenti e capitani riverberavano tra le basse navate, occupate quasi completamente da zaini e sacchi a pelo. Le pareti dell’edificio erano spoglie, e l’intonaco bianco, scrostato in più punti, lasciava intravedere le macchie di colore di affreschi sbiaditi. Nell’aria, viziata dalla presenza di molte persone, aleggiava un vago sentore di muffa.
Friedrich stava ancora cercando un angolino da occupare con le proprie cose, quando vicino a ciò che restava dell’abside vide un ufficiale che agitava la mano per farsi notare. Riconoscendolo all’istante, il giovane lo raggiunse.
“Konrad!” lo salutò.
Il capitano Bentheim spostò lo zaino per fargli posto. “Ce ne hai messo, di tempo,” osservò.
“Storia lunga”, disse von Kleist laconico, mentre allestiva la sua postazione. “Il nostro intervento è riuscito a trarre d’impaccio il primo battaglione, ma una serie di inconvenienti ci hanno trattenuti sul posto…”
“Ne stavo giusto parlando a cena, insieme a Fromm. Ho sentito dire che Hans non se la passa meglio…”
Friedrich s’incupì. “Direi di no, anche se…” Si accostò all’amico, abbassando la voce affinché solo lui sentisse. “Conoscendolo, non lo ammetterebbe mai.”
“Un buon ufficiale si vede anche dalla capacità di anteporre l’incolumità dei soldati alla propria.”
“Già.” Il tenente si sistemò sul suo giaciglio, la schiena appoggiata al muro. “E tu? Hirsch diceva che vi siete scontrati con una sezione corazzata…”
“Sì”, rispose Konrad, con un brillio divertito negli occhi grigi. “E Baumann mi deve una birra.”
Von Kleist inarcò le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazioni, e l’altro si strinse nelle spalle.
“Ha lanciato una sfida: una birra a chi per primo avrebbe distrutto un carro armato…” spiegò.
“Ah!”
Bentheim cambiò discorso. “Pensavo che con quelli delle Waffen-SS ci fosse anche Reinhardt, ma a quanto pare la sua compagnia è occupata ancora più avanti, con le avanguardie corazzate.”
“Volevo proprio chiederti di lui… Werner von Tannenberg, invece, l’hai visto?”
“Domani lo incontreremo sicuramente, durante la marcia”, disse il capitano. “E forse, tra un paio di giorni ci ricongiungeremo anche con Reinhardt e Hans…”
Von Kleist annuì, sentendo improvvisamente la stanchezza prendere possesso del suo corpo. Se il furore della battaglia e l’adrenalina della corsa lo avevano tenuto sveglio fino ad allora, in quel momento iniziava a sentire le membra indolenzite e la testa pesante. “Suppongo di sì,” rispose.
Il discorso cadde così come era iniziato e, ancora una volta, Friedrich non poté fare a meno di interrogarsi sulle sorti del suo compagno.
C’erano momenti in cui l’uomo di ferro si toglieva l’uniforme e tornava ad essere semplicemente Hans, momenti in cui ogni formalità veniva accantonata e restava solo la natura eroica e sacrale del Bund.
Scivolò nel sonno pensando a lui.


  1. Schadenfreude è un concetto intraducibile che può essere reso in italiano come “gioire delle disgrazie altrui”.↩︎

  2. Dopo il fango e il sudore / ci sono i piselli con lo speck / dalla marmitta da campo! [nota: Drill vuol dire letteralmente “duro addestramento”, ma in questo caso penso che si riferisca in maniera generica alla fatica dei soldati]
    Sia questi versi che la battuta “caviale e ostriche sono per ragazzini viziati” (“Die Austern und der Kaviar sind für verwöhnte Knaben”) sono tratti da una celebre canzone militare della tradizione tedesca, Erbsen mit Speck.↩︎

  
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