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Autore: Luana89    18/03/2019    0 recensioni
Non fu la sua bellezza a colpirmi: bensì l’assenza d’espressione sul suo viso. Il mio occhio fissava attraverso l’obiettivo, poco prima di scattare la prima foto del mio anno scolastico. Lo sconosciuto sembrò quasi sentire il lavorio dei miei pensieri, sollevò di scattò il capo guardando tra la folla, e i suoi occhi si poggiarono su di me per una manciata di secondi che valsero un’intera vita. C’era qualcosa in lui, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Lo capii poco prima che sparisse all’interno della struttura: le persone attorno a quel ragazzo sembravano scostarsi al suo passaggio, come se quel singolo essere umano fosse in grado di domare la forza di gravità e il baricentro spostandoli a suo piacimento. Mi persi per un istante.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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V.



Fissavo le pareti dell’albergo nella quale stavo chiuso ormai da quasi una settimana, le mie giornate erano scandite dalle chiamate del medico che aveva in cura la mia tutrice, dalle nostre dispute. Ero stato chiarissimo nei miei propositi, o mi permetteva di vederla e parlarle o non avrei risolto alcun problema legale andandomene via così com’ero arrivato.
Deviai la sesta chiamata di Shou nel giro di un’ora, avevamo litigato pesantemente al mio arrivo a Mississipi. Si era mostrato contrariato nel non essere stato avvisato, e nonostante TJ fosse stato avvistato a Las Vegas non riusciva a stare tranquillo; non potevo dargli torto, nemmeno io mi sentivo tranquillo in quel momento, ma non avevo scelta. L’occasione di vedere Mary non sarebbe ricapitata mai più.

 
 
*
 
Il vento sferzava gli alberi fuori sollevando le foglie mature cadute sui pavimenti di pietra dell’università. La voce monocorde del professore sembrava un brusio lontano, una cantilena che Enoch non riusciva a cogliere immerso com’era nello scrutare il nulla oltre la finestra e dentro se stesso. La mina scarabocchiò il foglio bianco, le linee tracciate formarono un coniglietto stilizzato, ripensò a Joshua, al loro ultimo saluto e la cosa lo infastidì.
Non sapeva bene il motivo, sapeva solo di sentirsi a disagio in quel preciso momento, come ogni volta in cui non riusciva a cogliere le sfumature di se stesso e delle proprie emozioni. Gioia? Dolore? Rabbia? Erano troppo semplici da definire, ma c’era altro molto altro che ancora non sapeva nominare né capire. La punta della matita si spezzò distruggendo quel momento di pace, fissò stranito i colleghi attorno a se chiedendosi quanto tempo fosse passato dall’inizio della lezione, tutto sembrava fermo e sospeso come se si fosse seduto soltanto due minuti prima.
 
Il corridoio elegante e abbellito da quadri era deserto al momento, i passi sembrarono rimbombare fino all’arrivo alla grande porta intarsiata. Non si premurò di bussare entrando semplicemente nel grande ufficio del rettore; i due si scambiarono un’occhiata astiosa che Enoch concluse con un sorrisino sedendosi su uno dei comodi divanetti.
« Mi hai chiamato?» le dita tamburellavano sulla soffice imbottitura.
«Si, volevo sapere se avessi deciso qualcosa.» Arthur Cutler era un uomo piacente ormai sulla sessantina, gli anni però non sembravano pesare sulle sue spalle possenti e fiere, poche rughe solcavano il volto marchiato dal sole e i capelli brizzolati aggiungevano classe alla sua persona. Non esisteva una pecca nella sua vita perfetta, solo una piccola macchiolina risalente ormai a vent’anni prima, quando l’unica figlia Madalyn Cutler aveva pensato bene di scappare con un tedesco - un attore squattrinato chiamato Evrard Weizsäcker. Anche in quel caso Arthur aveva posto rimedio in fretta, riportando all’ovile la figlia dopo pochi anni e con lei il frutto di quell’amore disapprovato fino all’odio, fino al disgusto.
«Dovresti essere meno palese nelle tue intenzioni, vuoi liberarti così in fretta del tuo unico nipotino?» Enoch sorrise ma l’ilarità non arrivò ai suoi occhi.
«Manca poco alla tua laurea, sono del parere che dovresti semplicemente accettare il mio aiuto e andare a studiare all’estero.» Arthur si sedette di fronte a lui sorseggiando dello scotch.
«E tu dovresti semplicemente accettare il fatto che non hai alcun potere su di me, non sono io la tua pedina nonno.. sei tu la mia.» Le dita tatuate picchiettarono contro il legno pregiato del tavolino, il viso del rettore cambiò espressione rabbuiandosi.
«Un pazzo come te dovrebbe essere chiuso in una clinica specializzata, ringrazia la compassione di tua madre.»
«E i depravati dove dovrebbero essere rinchiusi? In un ufficio elegante all’interno di Yale?» Il bicchiere ormai vuoto venne sbattuto fragorosamente sul tavolo frantumandosi. Enoch si alzò come se avesse molle e non gambe, piazzandosi faccia a faccia con l’uomo che superava di mezza testa abbondante. «Non prendermi per il culo, tua figlia non ha pietà né rimorso, il motivo per cui sono qui è quel diario.»
«Ti renderai conto da solo di quanto sfidarmi è pericoloso.» Il giovane dagli occhi blu scostò il viso, lo disgustava dover condividere il respiro con l’uomo che portava il proprio sangue; senza aggiungere altro si diresse verso la porta che richiuse alle sue spalle. Rovistò dentro lo zaino estraendo un tubetto arancione ormai quasi vuoto, la pillola cadde sul palmo della sua mano e infine dentro la bocca. Non avrebbe resistito altri due anni rinchiuso in quella vita, in quella pelle che avrebbe staccato a morsi se solo gli fosse stato possibile, non esisteva salvezza. Non c’erano ancore a cui appigliarsi. Non c’erano soluzioni per lui.

 

 
*
 
L'odore di disinfettante colpì le mie narici riportandomi indietro nel tempo, il giorno in cui mi ero risvegliato su quel letto scomodo e in quella camera asettica vi era il medesimo odore. Schivai un'infermiera il cui carrello sembrava troppo pesante per bilanciarne il peso e l'equilibrio continuando a fissare i numeri sulle porte, finché una voce non mi distrasse.
 «Joshua Walker?» Fissai il medico di fronte a me sbattendo le palpebre quasi faticassi a metterlo a fuoco.
«Mi conosce?» lo vidi sorridere gentilmente.
«Litighiamo ormai da giorni per telefono.» Stavolta fui io a sorridere indicando una porta poco distante.
«E’ quella la sua camera?» Il medico annuì fermandomi prima che potessi proseguire.
«Non è lì, ogni giorno vuole stare nella stanza ricreativa quando tutti vanno via, ti ho fermato per questo..»
«Dov’è questa stanza?» Mi venne indicato il secondo piano della struttura e fu lì che mi diressi.
Da bambino pensavo lei avesse i capelli più belli e lunghi tra tutte le donne, un ovale perfetto e degli occhi simili a schegge verdi capaci di ammaliarti o ferirti. TJ aveva ereditato i suoi occhi. Adesso fissavo la sua schiena ingobbita curva in quella sedia consunta, le dita rattrappite artigliavano i braccioli con le unghie.
''Le unghie non vanno mai portate lunghe, appena sopra il polpastrello. Altrimenti peccherei di vanità, e le donne che lo fanno sono solo misere sgualdrine vanitose''. Così diceva, così il me bambino forgiava le sue consapevolezze.
 «Satana.» La sua voce sibilante come il sussurro di un serpente, era lo spettro della donna che conobbi.
 «L'unico diavolo che vedo siede su una sedia a rotelle e mi fissa.» Mary portava ancora i capelli pudicamente legati, ma ciocche ribelli scivolavano sul viso consunto rendendo il quadretto ancora più disordinato, accentuando le guance infossate e gli occhi iniettati di sangue.
 «Pagherai ogni tuo peccato, sei nato dal male e dal male tornerai.» La pelle della sedia stridette al contatto con le unghie, aveva stretto così forte da rompersene una; vidi il sangue sgorgare dal suo dito.
 «L'Eterno è un Dio geloso e vendicatore, l'Eterno è vendicatore e pieno di furore
«L'Eterno si vendica dei suoi avversari e conserva l'ira per i suoi nemici.» Concluse con la sua voce ormai arrochita forse dalle troppe urla.
 «Lo ricordi ancora? Era il versetto preferito del reverendo, lo decantava sempre quando mi chiamava nel suo ufficio. Ogni cinghiata era una parola.» la mia voce era come lo specchio distorto del mo furore.
«Ho sempre saputo che avresti portato il male nella nostra casa, lo dissi a Thomas ma non volle ascoltarmi.»
 «Quando entrai per la prima volta in casa l'aria odorava di crostata e cera d'api, disgusto entrambi gli odori adesso.» Mi fissò in silenzio, come se non fosse minimamente toccata dalle mie parole. Mi alzai sentendo le gambe anchilosate, voltandomi verso la finestra a fissare quel paesaggio sterile e infecondo. La rabbia, l'odio, il rancore, la sete di vendetta pensavo fossero tutti sentimenti che non avrei mai sperimentato ma mi sbagliavo; li sentivo ribollire dentro il mio cuore corrodendolo, scendevano in pancia sciogliendo ogni cosa fino a rivelarsi una pozzanghera putrefatta e maleodorante.
 «TJ tornerà a ucciderti, lui è parte di me e so che lo farà.» Il tono divenne improvvisamente lamentoso, soffriva la perdita del suo primogenito come ogni madre. Era strano considerarla una ‘’madre’’.
 «Spedirò TJ in galera, e voglio che tu sia la prima a saperlo. Devi fissare la televisione urlando di dolore, strappando ogni tuo capello.»
 «Non avrai questa soddisfazione, Benjamin Simmons.» Il mio vero nome, pronunciato da quelle labbra avvelenate mi colpì come dieci frustate.
 «Avermi escluso dai registri di famiglia non ti servirà, a conti fatti sono ancora l'unico erede in grado di poter amministrare i ''nostri'' beni. Ruth è troppo piccola per poterlo fare.» E le sue urla riecheggiarono nella stanza producendo un'eco stridente, e quell'eco sembrava invocare ogni disgrazia. Mi voltai, accarezzandole la nuca, le sue unghie si conficcarono nella mia carne con cattiveria e io mi persi un po' in quelle pietre verdi adesso annacquate.
 «Dovrei raccontarti di come TJ mi ha amato?» Le mie lacrime colpirono i suoi vestiti consunti.
 «TACI.»
 «Vivrò e vedrò i vostri corpi stanchi, vedrò la gente sputarvi sopra. Perché questo è il prezzo che dovete pagare per ogni mia ferita, ogni mio giorno su quel letto, ogni cinghiata data dal reverendo. SIETE TUTTI COLPEVOLI.»
 «È caduta, è caduta Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione.» La sua voce suonava spasmodica, parlava velocemente quasi a mangiarsi le parole, parlava come se volesse proteggersi.. da me. Non avrebbe mai compreso quanto fossero loro intrappolati tra le mura di una Babilonia immaginaria, quanto la sua vita fosse stata un'immensa bugia sotto i comandi di un essere repellente che adesso marciva con i vermi.
 
(Se il serpente morde prima d’essere incantato, l’incantatore diventa inutile. )
 
 
Avevo mentito sull’eredità, non ero minimamente interessato a intascarmi parte dei soldi appartenenti alla famiglia Walker, spettavano di diritto a Ruth ormai che TJ era poco meno di un criminale fuggitivo. Non l’avrei privata di ciò che le spettava, non potevo toccare il denaro appartenuto a suo padre, all’uomo che avevo ucciso. Quanto avrei dovuto espiare? ‘’Fino alla morte’’, la voce di Thomas mi arrivò alle orecchie come un alito spettrale, rabbrividii lasciandomi dietro quel posto infernale.
Prima di tornare a Yale due erano le mete prefisse, la prima fu Ruth. La trovai cresciuta, quando fuggii aveva solo cinque anni e per sua fortuna non ebbe mai modo di sperimentare la crudeltà del padre; mi si ruppe il cuore a lasciarla, a conti fatti l’avrebbero affidata provvisoriamente a una famiglia e il terrore che potesse incappare ancora con persone orribili sapevo non mi avrebbe fatto dormire la notte. Avevo pensato di lasciare tutto, persino l’università e occuparmi anch’io di lei ma con quali soldi? Come potevo crescere una bambina senza toccare un centesimo di quell’eredità? Mi prefissi la mia laurea, un lavoro stabile per potermi riprendere Ruth, quella bambina era l’unica cosa bella in una famiglia di diavoli, l’unica cosa da proteggere; inoltre con lei avevo un debito che non potevo espiare neppure in un’intera vita: l’averla resa orfana.
La mia seconda meta fu la casa in cui avevo vissuto, sporca e impolverata adesso sembrava davvero in linea con tutti gli abusi che aveva dovuto contenere al suo interno. Il sole non riusciva a filtrare dalle finestre, mi sedetti sulla sedia scricchiolante in cucina e due bambini corsero a perdifiato dal salotto al tavolo. Li guardai rubare la marmellata, il più grande tra i due fece segno al piccolo di tacere.
 
— Se fai il bravo ti porterò in un posto bellissimo.
— Quale?
— Un campo di girasoli immenso, ti piacciono i girasoli Joshua?
 
 
 
In quelle due settimane d’assenza la mia cartella messaggi era implosa, tutti mi avevano pensato tranne Lui. Schioccai la lingua contro il palato trascinando la mia valigia lungo il corridoio.
«Ma guarda un po’ chi è tornato, il bambino di Yale.» Lasciai cadere il bagaglio con un tonfo sordo sbuffando sonoramente, Kevin stagliato in controluce nel corridoio sembrava quasi un ologramma. Lo avevo conosciuto dopo la mia famosa, e unica al momento, uscita con Enoch. Si era integrato nel gruppetto ‘’della camera’’ come lo chiamavamo noi, e mi stava appiccicato come la colla ai capelli. Però era simpatico, non riuscivo a prenderlo in antipatia, anche se avevo spesso il sentore che il suo modo di guardarmi e parlarmi non fosse propriamente innocente.
«Non mi sei mancato per niente, Kevin.»
«Tu invece mi sei mancato moltissimo.» Ecco, era proprio di questo che parlavo. Lo fissai stranito mentre afferrava la mia valigia indicandomi la porta. «Dai, ti aiuto a disfarla.»
«Guarda che sono in grado di farcela anche da solo.» Una porta sbatté con forza, forse troppa, facendoci sobbalzare. Non vedevo Enoch da due settimane e adesso era lì, le mani in tasca e gli occhi vacui che sembravano trapassarmi. Sorrisi mimando il gesto di sollevare la mano per salutarlo ma lui semplicemente mi voltò le spalle andando via.
«Come vedi nulla è cambiato, Enoch è il SOLITO SIMPATICONE.» Kevin alzò la voce per farsi sentire, mentre io racimolavo i pezzi della mia dignità e del mio cuore offeso. Perché mi aveva ignorato? Era questo il suo modo di definirsi ‘’amico’’ di qualcuno?
«Stai zitto e aiutami con la valigia, ho l’emicrania e un principio di stizza.» Rimbrottai il biondino accanto a me perché era l’unico con il quale potessi prendermela in quel momento, non sembrò farci caso mentre mi seguiva parlando di tutto ciò che mi ero perso in quelle settimane.
 
 
Mischiai il rum alla coca-cola attento a non esagerare con le dosi, Sophia seduta oltre il bancone ciarlava come se fossimo nel suo salotto a sorseggiare il tè e io non fossi nel mio orario lavorativo intento a impazzire dietro le ordinazioni. Alla parola ‘’Enoch’’ la mia attenzione venne totalmente calamitata.
«Scusa che hai detto? Non stavo seguendo..» ignorai la sua espressione di biasimo sfoderando il mio miglior sorriso, con fossette annesse.
«Ricordi Jane, la ragazza del secondo anno alla facoltà di lingue? Beh, Enoch sembra aver stretto un rapporto parecchio uhm.. intimo con lei.» La parola intimo iniziava a farmi incazzare pesantemente.
«Definisci ‘’intimo’’.» Jane era una bella ragazza dai capelli rossi come foglie mature, dal carattere spigliato quasi arrogante e dall’intelligenza spiccata.
«Si stuzzicano parecchio, secondo me lei ha una cotta per lui e a lui non dispiace.» Ottimo, c’era qualche altra bella notizia in serbo per me? Venni distratto da un uragano biondo che superò il fondo del locale sbattendo la porta dello spogliatoio.
«Scusami un istante…» mollai la mia postazione raggiungendo la stanza che a impatto mi sembrò vuota, seguii la scia dei singhiozzi trovando Nastya intenta a prendere a pugni un armadietto: IL MIO.
«Potresti non rompermelo?? E soprattutto potresti non romperti la mano?» La raggiunsi afferrandole il polso, fissando le nocche ferite, sospirai aprendo il mio armadietto illeso, per mia fortuna cadevo un giorno si e l’altro pure e le mie ginocchia perennemente sbucciate mi aveva costretto a camminare con dei cerotti a portata di mano.
«Scusami..» tirò su col naso riavviandosi i capelli, lasciandosi medicare.
«Che è successo?» Sembrò una parola magica la mia, e quella ragazza sempre così imperturbabile si aprì a me come un fiume straripante.
«Lavoro qui da due anni, anzi no io butto il sangue qui dentro da due anni. Chiedo sempre straordinari, sorrido ai clienti viscidi per avere le mance e accumulare denaro, e sai quanti soldi ho speso?» Restai in silenzio, sapevo che avrebbe continuato da sola. «ZERO. Un fottutissimo niente, Joshua. E sai perché? Perché vorrei andare anch’io all’università, vorrei avere una vita normale. A volte mi dico ‘’ehi stronza, hai 24 anni ormai e vuoi studiare?’’ eppure stringo i denti e vado avanti. Ho chiesto un lurido giorno di permesso dopo due anni e me lo ha negato.» La fermai mentre si accingeva a distruggere nuovamente l’armadietto con la mano sana.
«Ti calmi? E’ stato Reed?» Quell’uomo era uno stronzo, non ti concedeva aumenti neppure vedendoti morire dissanguato davanti a lui, anzi forse il sadico avrebbe gioito.
«Si..» tirò su col naso fissandomi, il mio cuore si strinse.
«Non ti preoccupare, avrai il tuo giorno libero. Se lui si assenta, la decisione spetta a Sophia.. no?» sorrisi delineando il piano perfetto.
Reed si assentò non un giorno, non due ma ben quattro. Avevo probabilmente sbagliato le dosi del lassativo messo nel suo caffè pomeridiano. Che peccato.
 
 
Il mio umore sembrava scisso, mentre sedevo sul divanetto della camera di William mi sentivo felice di rivedere i loro volti, persino quelli ‘’antipatici’’, mentre dall’altro lato ribollivo osservando Jane scherzare con Enoch. Il mio viaggio a Mississipi era servito a sgretolare la mia convinzione sul volergli essere amico, mi ero preso una cotta per lui. Anzi definirla cotta mi sembrava quasi banale, ma non riuscivo nemmeno a spiegare cosa provassi, era stato qualcosa di viscerale sin dalla prima volta in quel piazzale mentre lo fissavo attraverso l’obiettivo. Quella consapevolezza servì solo a farmi chiudere in me stesso, non potevo dire a nessuno cosa provavo per lui, non a Sophia che già sospettava, non a Nastya, non a Kevin (figuriamoci) e nemmeno a Friedl, soprattutto a lui. Mi sentivo in colpa, come se ciò che provavo fosse sbagliato. Fissai di nuovo Enoch: guardami, guardami, guardami! Lo supplicai con il pensiero e improvvisamente i suoi occhi incrociarono i miei, mi legò al suo sguardo e mi bloccò. Non riuscivo a non fissarlo e lui non sembrava propenso a distoglierlo per primo, ero come paralizzato su quel divanetto mentre il mio cuore martellava come un tamburo.
«Shua..» Friedl era seduto vicino a me e mormorava al mio orecchio.
«Mh..» continuavo a fissare Enoch, e lui me.
«Ieri ho dormito in camera di ‘’chi-sai-tu’’, mi ha permesso di dormire nel suo letto capisci?» Quelle parole furono come un secchio d’acqua gelata in faccia, fu grazie a quelle che interruppi quel contatto visivo fissando la persona di fianco a me.
«E lui dove ha dormito.» Pregai ogni santo esistente e non, inventandomeli pure, affinché la sua risposta non fosse quella che temevo.
«In camera con me è ovvio, sei proprio scemo a volte ma che domande fai?» Ero proprio scemo sul serio, risi senza un perché e la mia risata da bassa e sforzata divenne sempre più forte e divertita, mi pungevano persino gli occhi, che strano.
«Josh.» Quella voce ebbe il potere di farmi smettere immediatamente, come mi aveva chiamato? Josh? Era la prima volta che lo faceva, fissai i suoi occhi blu e istintivamente mi alzai ignorandolo.
«Io vado, ho sonno e domani ho lezione con il professore maledetto.»
«Quello che ti chiama ‘’ranuncolo’’?» Kevin rise mostrandosi soddisfatto di far credere alle persone di conoscere particolari di me che nessuno sapeva, mentre io scossi il capo salutando un’ultima volta prima di andare via.
 
Mi resi conto di una presenza alle mie spalle solo al terzo piano, mi raggelai un secondo prima di voltarmi e accasciarmi quasi contro la ringhiera.
«Dio..»
«No, sono Enoch.» non risi a quella battuta mettendo su un sorrisino falso.
«Simpatico davvero, che ci fai qui?» inarcò un sopracciglio superandomi nelle scale.
«Che posso fare secondo te? Torno in camera mia.» La logicità della risposta mi indispose, lo seguii in silenzio per un’altra rampa di scale fino al corridoio. «Ho pensato che te la saresti fatta sotto a tornare in camera da solo.»
«Io non—» non finii la frase, le sue parole saltellavano dentro la mia scatola cranica. Mi aveva seguito perché preoccupato?
«Ti sei divertito a Mississipi?» stavolta risi sinceramente.
«Non molto.. ti sei divertito in mia assenza?» Cercai di non essere troppo velenoso nel tono.
«Non molto..» sembrò vago nella risposta facendomi preoccupare stavolta sinceramente, mentre stava bloccato di fronte a me invitandomi a entrare in camera.
«Perché no?» Restammo in silenzio a fissarci e alla fine mi sembrò di vederlo sorridere, ma non ero sicuro a causa dei giochi d’ombra sul suo viso.
«Mancavi tu, senza di te non è divertente questo posto.» Mi lasciò così, andandosene via con quella sua camminata sicura, un po’ spavalda, quel modo che avevano i piedi di toccare il terreno muovendosi uno dietro l’altro. Quella camminata solo sua che avrei riconosciuto tra mille. Mi chiusi in camera soffocando un urlo, mi prendeva in giro? Giocava con me? Mi ignorava dal mio ritorno, aveva flirtato spudoratamente con altre ragazze di fronte a me e adesso che voleva dire quella frase? Forse niente, forse dovevo prenderla per ciò che era.. la semplice considerazione di un amico. Quel vincolo adesso mi sembrava troppo stretto, mi pentii di essermi mostrato felice quando mi aveva definito così ormai un mese prima. Mi pentii davvero tanto.
 

 
  
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