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Autore: Luana89    21/03/2019    0 recensioni
Non fu la sua bellezza a colpirmi: bensì l’assenza d’espressione sul suo viso. Il mio occhio fissava attraverso l’obiettivo, poco prima di scattare la prima foto del mio anno scolastico. Lo sconosciuto sembrò quasi sentire il lavorio dei miei pensieri, sollevò di scattò il capo guardando tra la folla, e i suoi occhi si poggiarono su di me per una manciata di secondi che valsero un’intera vita. C’era qualcosa in lui, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Lo capii poco prima che sparisse all’interno della struttura: le persone attorno a quel ragazzo sembravano scostarsi al suo passaggio, come se quel singolo essere umano fosse in grado di domare la forza di gravità e il baricentro spostandoli a suo piacimento. Mi persi per un istante.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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VIII.



Da Evrard Weizsäcker aveva sicuramente ereditato l’altezza, il colore e la forma degli occhi e quella delle labbra. Se non fosse stato per quei piccoli dettagli genetici spesso e volentieri avrebbe dubitato della loro parentela, visto il carattere praticamente opposto. La spensieratezza di Evrard cozzava con i modi di fare spesso taciturni e solitari del figlio, eppure in un modo del tutto contorto a Enoch piaceva passare del tempo con lui nonostante questi non sapesse praticamente nulla degli scheletri che si annidavano dentro l’armadio del ragazzo.
«Ti ho avvisato una settimana fa del mio arrivo.» L’uomo sorrise mesto fingendosi presissimo a scegliere un libro.
«Me ne rendo conto..» Enoch sbuffò sedendosi sulla comoda poltrona del soggiorno.
«Se te ne rendi conto evita di farti trovare a letto con le ‘’signore allegre’’ che raccatti in giro, sono stanco di entrare e vedermi catapultato sul set di un porno.» La risata del padre gli fece capire quanto poco sul serio prendesse i suoi ammonimenti.
«Me lo chiedo da un po’, ma mio figlio..» non finì la frase mimando un gesto eloquente con la mano.
«Tu pensa alla tua vita sessuale, che alla mia ci penso io.» sorrise seraficamente chiudendo quel discorso surreale. Non era lì per dire al padre quanto e come facesse le capriole a letto, stava a Stoccarda per delineare un piano sul suo futuro più prossimo. In quella settimana aveva visitato alcune università cercando di capire quanto lasciare Yale avrebbe intaccato sulla laurea finale. Ma in fondo era sul serio così importante? Nel suo futuro non erano previsti lavori, famiglia e cose così, vi era il nulla che finalmente avrebbe abbracciato dopo essersi trascinato negli abissi infernali tutta la sua famiglia. Guardò Evrard leggere quello che sembrava un copione, non sapeva nulla del figlio conosceva solo ciò che a Enoch faceva comodo mostrare e la sua più grande colpa era forse non essersene mai interessato davvero nonostante l’affetto che nutriva. Era come se fosse rimasto incastrato a quindici anni prima, quando Madalyn era fuggita un giorno senza neppure avvisarlo, tutto il suo mondo era crollato al suo ritorno quella notte in una casa ormai deserta. Secondo Enoch l’uomo amava ancora la madre e probabilmente non avrebbe mai smesso.. se solo avesse saputo quanto fosse diversa l’idea che aveva di lei rispetto a ciò che davvero era.
 
Il diario portava una copertina spessa e in cuoio ormai rovinata dal tempo, ogni volta che la toccava il viso di quella ragazza balzava alla mente. Questa era la sua più grande eredità, tutto ciò che Rachel Miller lasciò poco prima di farsi trovare impiccata dentro il piccolo appartamento condiviso con alcune amiche del college; la polizia aveva lasciato il caso aperto per anni, tutti giudicavano impossibile credere che quella ragazza solare avesse messo brutalmente fine alla sua vita senza nemmeno un biglietto, una lettera, qualcosa che potesse far capire le motivazioni.
Quel ‘’qualcosa’’ cercato da tutti però esisteva davvero: il diario. Ma piuttosto che tenerlo con se, lo aveva affidato a un quindicenne conosciuto per caso, l’unico che avesse davvero mostrato interesse per lei. Enoch venne a conoscenza così degli orrori commessi dal nonno, tutto ciò che quella facciata elegante nascondeva.
Dentro le pagine appena ingiallite vi erano date, luoghi, nomi, persino alcune foto compromettenti di bambini, vittime di quel mostro che portava il suo sangue, che sarebbero servite a sbatterlo in galera per il resto dei suoi giorni; Rachel gli aveva strappato la promessa di custodirlo e farlo venir fuori quando la vendetta sarebbe stata compiuta. La sua morte non doveva essere vana, e l’amante odiato avrebbe dovuto pagare ogni suo crimine.
Grazie a quel diario donatogli aveva preso potere decisionale sulle vite di ogni membro della famiglia, soprattutto di Arthur, il criminale, e della madre complice spesso inconsapevole. Se non era ancora uscito tutto fuori il motivo era da imputarsi solo a lui, tentennava cercando il momento più adatto e questo sembrava divenire ogni giorno più vicino. Una volta che lo scandalo fosse esploso, non ci sarebbe stato più posto per lui a New Haven né a Yale; quel pensiero lo fece sorridere amaramente, vi era sul serio un posto ‘’per lui’’ a quel mondo?
 
*
 
Perché sei sparito senza dirmi nulla?
Quando tornerai?
Mi manchi..
— Enoch! Ti stai divertendo a Stoccarda??

 
Lanciai il cellulare sul letto dopo aver inviato quel messaggio, frutto di parecchie bozze eliminate poco prima dell’invio, non capivo il perché fosse così difficile per me abituarmi all’idea di non possedere chissà quale importanza nella vita di Enoch. Perché avrebbe dovuto avvisarmi? Sospirai sobbalzando quando la porta si aprì di colpo, ma non rientrava tra le usanze di quel dormitorio bussare prima di aprire?
«Muovi il culetto, andiamo al centro commerciale, ho bisogno di rinnovare il mio guardaroba per non cadere nel baratro della depressione.» Reclinai il viso fissando confusamente Sophia, a volte quando parlava sembrava nel pieno della sua personale tragedia greca, e noi eravamo gli spettatori ovviamente.
«E stavolta cosa, o dovrei dire chi, è la causa di questa depressione?» mi alzai di malavoglia raccattando il giubbotto dalla sedia vicino la scrivania.
«Josh, era un modo di dire. Noi donne abbiamo bisogno di scuse continue per giustificare lo shopping compulsivo.» Annuii presissimo da quella spiegazione accurata, ripromettendomi di usarla al momento opportuno. Dopo anni finalmente avrei saputo anch’io cosa dire durante le mie sedute intensive di compere. Poco prima di chiudere la porta un pensiero mi strappò una risatina: ma io non ero donna, la scusa non stava in piedi.
 
«Vi piace?» Il rumore del risucchio con la cannuccia prodotto da Nastya mi parve una risposta abbastanza eloquente di fronte a quel vestito pieno di strass che la rendeva simile ai lampadari presenti nella reggia di Versailles.
«E’ un po’, come dire.. appariscente.» Ponderai bene le mie parole beccandomi una gomitata dalla russa.
«Joshua vuole dire che fa cagare Sophia, toglilo.» Dovevo decisamente imparare l’arte della retorica da lei. Approfittando della loro distrazione mi allontanai verso il reparto maschile, non avevo molti soldi con me visto che mettevo tutto da parte e ogni mese mandavo dei bonifici a Shou e Joel. I primi due mi erano stati rimandati indietro, ma dopo urla e insistenze avevano iniziato a prenderli e io finalmente avevo iniziato a ripagare il mio debito. Le spese ospedaliere sostenute nei miei mesi di coma non potevo semplicemente lavarle via con un colpo di spugna, senza di loro non sarei mai riuscito a curarmi e fare la riabilitazione; il peso di quel debito, e di quella gratitudine, mi accompagnavano ogni giorno della mia vita. Afferrai una giacca di uno strano color borgogna ma ciò che vidi allo specchio mi portò a lasciar cadere la gruccia e il cellulare nell’altra mano: Tj mi fissava poco lontano, tra due stand, il cappellino calato sugli occhi verdi quasi a volerli nascondere. Sentii il mio stomaco rimescolarsi e contorcersi, mi voltai bruscamente e la sagoma era sparita. Non me l’ero immaginata, non ero diventato pazzo fino a quel punto; iniziai a camminare lungo i corridoio guardandomi attorno con nervosismo finché non arrivai in prossimità del magazzino, mi voltai e lui era lì. Non c’erano specchi traditori stavolta, non ero sotto l’effetto di qualche droga, non era una visione quella. Portò l’indice alla labbra facendomi cenno di tacere, probabilmente pensava avrei urlato richiamando l’attenzione di tutti.
«Sono qui solo per dimostrarti che posso trovarti ovunque tu sia.. Ho saputo di mia madre.» Sentire di nuovo la sua voce mi accapponò la pelle, era esattamente come la ricordavo solo priva all’interno di quella dolcezza che l’aveva contraddistinta durante la mia adolescenza. Mi sentivo paralizzato, continuavo semplicemente a fissarlo senza che potessi muovere nemmeno un piede, che fosse per raggiungerlo o per scappare. C’erano tante cose che volevo dirgli in merito a quella notte al capannone che solo noi due conoscevamo davvero, ma la lingua mi si era incollata al palato.
«JOSHUA.» A quel grido voltai di scatto la testa, Sophia avanzava verso di me e io avrei voluto urlarle di stare lontana, di fingere che non mi conoscesse, non volevo Tj la vedesse. Ma quando tornai a guardare dritto, lui era ormai sparito. «Dio mio ma sei pallidissimo, stai male?» Le mie gambe cedettero di colpo, la vidi sorreggermi con fatica trascinandomi verso una poltrona poco distante richiamando l’attenzione di qualcuno che io non vedevo. La mia vista era appannata, e io ero nel pieno di un attacco di panico violento.
«Sicuro di stare bene?» Mezzora dopo Nastya continuava a fissarmi preoccupata nonostante avessi rassicurato entrambe più volte sulle mie condizioni. Avevo bisogno di calma in quel momento, dovevo riflettere e capire se fossi impazzito del tutto o se Tj era stato lì davvero a pochi passi da me. Per quanto volessi fortemente la prima delle due ipotesi, io sapevo che non era così.. lui era tornato e il suo messaggio sembrava passato forte e chiaro. Ma se lo conoscevo bene non sarebbe rimasto lì, era troppo pericoloso girare per New Haven, sarebbe tornato a nascondersi ancora ma per quanto? Non c’era nessuno che potesse aiutarmi, adesso avevo la prova lampante: l’unico che poteva fermarlo ero io. Tj non si sarebbe fatto trovare da nessuno se non da me, era con me che aveva iniziato e con me avrebbe finito.
 
Non andai a lezione per due giorni restando chiuso nella mia camera a riflettere, non riuscivo nemmeno a dormire per la forte ansia, temevo che quando avessi chiuso gli occhi lui sarebbe apparso approfittando della mia debolezza. Iniziai a perdermi davvero dentro le mie paure, avevo bisogno di un appiglio, qualcosa a cui aggrapparmi per tornare a galla e respirare .. ma nulla sembrava fare al caso mio. Quando Kevin bussava io semplicemente ignoravo, quando Sophia mi cercava dicevo di essere malato e per questo impossibilitato ad andare a lavoro. Quando mi cercava Friedl non mi prendevo nemmeno la briga di rispondere, ero scisso tra il cullarmi in quel torpore negativo e il provare a uscire da quel vortice tragico nella quale ero piombato.
Quell’ancora cercata così disperatamente arrivò da me tre giorni dopo, fissavo attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica la moltitudine di studenti che mi passava davanti quasi senza vedermi, finché qualcuno non si sedette accanto a me. Quando mi voltai i suoi occhi blu mi fissavano come se non fossero mai andati via, come se quel suo ‘’ci vediamo’’ poco prima di entrare nella sua stanza fosse stato detto solo il giorno prima e non venti giorni fa.
«Dovresti avere la decenza di pulirti la bocca quando mangi il gelato.» Mi portai subito le dita alle labbra sfregandole con forza, ero sporco? Tossì voltando il viso, stava male?
«Quando sei tornato?» Stai male? Hai ignorato volutamente i miei messaggi? Mi hai pensato? Ti sono mancato? Non gli dissi nulla di tutto questo.
«Sono tornato ieri .. e si.» Lasciò la sedia alzandosi e tossendo ancora.
«’’Si’’ cosa?» Lo fissai confusamente.
«Qualsiasi cosa tu stessi pensando, la risposta è si.» Mi lasciò così a guardare le sue spalle allontanarsi ogni secondo di più, osservai il cielo e per la prima volta dopo giorni mi resi conto di essere ancora vivo e di riuscire a respirare come sempre.
 
Enoch era rientrato ormai da due giorni, e nonostante non si fosse fatto vedere per niente io sentivo comunque la sua presenza tra le mura di quel campus, era una sensazione difficile da spiegare a parole. Lui semplicemente c’era. Jane mi intercettò nel corridoio salutandomi con spensieratezza, le sorrisi avvicinandomi.
«Che ci fai qui?»
«Oh nulla, volevo vedere come stava Enoch, sono stata con lui qualche minuto ma ha detto che voleva riposare..» Misi per un secondo da parte la mia gelosia guardando la porta chiusa a pochi metri, mi tornò in mente il nostro incontro del giorno precedente. Aveva tossito tutto il tempo, che si fosse beccato un malanno? A giudicare dalle parole di Jane la risposta era si.
«Sono sicuro si rimetterà presto..» non so nemmeno io perché mi sentii in dovere di rassicurarla, a volte avrei voluto io per me stesso ciò che concedevo agli altri, ma puntualmente ne restavo deluso.
 
Bussai due volte alla sua camera, cercando di non farmi sentire da Friedl che dormiva in quella accanto, la porta si aprì pochi istanti dopo lasciando apparire Enoch abbastanza spossato intento a fissarmi. Sollevai una busta bianca di carta e il cartone della pizza sventolandoli sotto il suo naso. Il mio turno al ‘’quo vadis’’ era finito alle 22 precisi, mi sembrava inutile dirgli che non avevo perso tempo a correre da lui.
«Sono venuto solo per portarti alcune medicine e una pizza.. di sicuro non hai mangiato e non stai prendendo nulla.»
«Pensavi che senza bottino non ti avrei fatto entrare?» In effetti lo pensavo si, e la mia faccia rispose per me. Si fece da parte facendomi passare, ed ebbi modo per la prima volta di vedere la sua stanza.  La prima cosa che notai fu il caos della sua scrivania, tra il computer aperto, cartacce di caramelle, libri sparsi e appunti non sapevo con esattezza dove poggiare pizza e medicine. Sembrò leggermi nel pensiero iniziando a sgomberare quel casino, lasciando però perdere a metà probabilmente a causa della stanchezza e della tosse. Non indugiai oltre liberandomi le mani solo per poggiargliene una sulla fronte e constatare la sua temperatura, lo vidi irrigidirsi per pochi istanti e infine rilassarsi, fu lui a togliermela alla fine andando a stendersi sul letto.
«Non ho la febbre alta, stai tranquillo..» senza rispondergli rovistai nella busta dei medicinali estraendo alcune compresse, trascinai la sedia accanto al letto sedendomi e passandogli l’acqua.
«Prendile, e inizierai a stare meglio.» Stranamente mi obbedì senza fiatare voltandosi poi supino per fissarmi alla luce della lampada sul comodino.
«Com’era la tua famiglia adottiva?» La domanda mi spiazzò talmente tanto che probabilmente la mia espressione parlò per me, ma Enoch non era il tipo da fare marcia indietro nelle cose soprattutto se sembravano interessargli.
«Non erano delle brave persone, avevano idee religiose ristrette e soffocanti..» mi finsi presissimo a togliere qualcosa di immaginario dalla manica del mio maglione.
«Non è confortante sapere che non avevano il tuo stesso sangue?» Ci fissammo per qualche secondo in silenzio, avevo come l’impressione che volesse rassicurare se stesso più che me.
«Non molto.. quando pensi che qualcuno ti ama, e poi ti tradisce non importa molto quanto sangue condividi con loro.» Scrollai le spalle sporgendomi per afferrare il cartone della pizza ma la sua presa ferrea e improvvisa me lo impedì. Fissai le sue dita stringere la mia mano.
«Non ho fame, voglio solo riposare un po’..» non mollò la presa chiudendo gli occhi, mentre il suo respiro pochi secondi dopo diveniva regolare. Rimasi lì seduto stringendogli la mano, le dita libere accarezzarono i capelli corvini perennemente spettinati, pensavo che fosse ciò che desiderava: qualcuno al suo fianco in un momento di vulnerabilità. Niente pizza, medicine o discorsi, voleva stringersi a qualcuno e voleva che quel qualcuno lo stringesse senza porre domande. Sarebbe cambiato qualcosa se al posto mio ci fosse stato Friedl? O Jane? O William stesso? Non lo sapevo, e l’incertezza mi logorava. Nonostante quei pensieri insicuri non lasciai andare la sua mano fissandolo dormire per ore, abbandonando quella camera solo all’alba.
 
*
 
Gli occhi chiari faticavano sempre ad abituarsi alla luce del sole, ma quella volta non c’era nessuno spiraglio dispettoso semplicemente perché qualcuno aveva chiuso la tenda al posto suo, assicurandosi che non lo disturbasse durante il sonno. Fissò la sedia adesso vuota, non si era accorto d’essere rimasto solo, si era addormentato stringendogli la mano e quella consapevolezza era bastata affinché riposasse tranquillamente senza nessun pensiero strisciante lungo il cuore. Quella fu la prima volta in cui Enoch capì di non poter più sorreggere quella farsa, non sentiva il bisogno di tenersi vicino a quella persona per amicizia, ciò che provava era ben più profondo, andava sottopelle e lì si insinuava mettendo radici. Quando non lo vedeva impazziva per la mancanza, quando invece lo vedeva ma stava con altri si sentiva fuoriposto e infastidito. Quand’è che esattamente aveva perso il controllo della situazione? Quand’è che aveva permesso a quel sentimento di farsi strada dentro di lui? Un sentimento nato per un ragazzo poi. Era quella la cosa più paradossale, si sentiva attratto da qualcosa di totalmente diverso e per la prima volta nella sua vita sentiva di esserlo davvero, qualcosa che non aveva nemmeno lontanamente a che vedere con le ragazze conosciute in passato. La paura attanagliò le sue viscere e con essa il netto rifiuto per tutto. Aveva dei progetti ben precisi, non c’era spazio per cose simili nella sua esistenza, e questo poteva dire una sola cosa: darci un taglio netto. Eliminare semplicemente Joshua dalla sua vita, era facile no? Enoch viveva nella convinzione di non aver bisogno davvero di qualcuno, era sempre stato così e così sarebbe continuato. Stava solo chiudendo la porta in faccia a una follia. Una follia con le fossette e gli occhi più ingenui e indifesi che avesse mai visto.
 
*
 
Non avevo grandi doti della quale vantarmi, ma le poche che possedevo tendevo a tenermele strette, una di queste era il sesto senso più spiccato che qualcuno potesse mai desiderare. Intuii subito che qualcosa era ‘’cambiato’’, Enoch mi evitava o meglio non sembrava proprio vedermi. Quando mi incontrava nei corridoi mi salutava freddamente proseguendo per la sua strada, quando ci riunivamo in camera di qualcuno sedeva lontano da me preferibilmente vicino a Jane e William ignorandomi completamente. Non aveva più preso le mie difese, non aveva più riso per le mie battute, mi aveva semplicemente gettato via. La mia prima reazione fu un senso di panico che stringeva la mia gola, avevo sbagliato qualcosa? Lo avevo offeso in qualche modo? L’ultimo mio ricordo lo vedeva steso in quel letto con la febbre, era stato lì che avevo commesso un qualche errore? Eppure per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire, ero certo di non aver fatto nulla di male.
La seconda reazione fu un misto di rabbia, risentimento e rassegnazione; che potevo fare in fondo? Non potevo imporre la mia presenza a qualcuno che sembrava disgustarla come la peste. Forse si era reso conto di quello che provavo, ne era rimasto magari infastidito a causa delle sue preferenze decidendo di allontanarmi da lui. Fissai Kevin accanto a me, erano mesi che mi chiedeva di uscire e mesi che rifiutavo con scuse poco valide. A che pro? Forse era a lui che dovevo dare un’occasione, okay forse non era il migliore dei pretendenti, ma che avevo da perdere? Accettai quindi il suo ennesimo invito, e sorrisi divertito alla sua espressione soddisfatta, probabilmente era quella la scelta più giusta per me. Friedl mi si sedette accanto  e a giudicare dalla sua espressione non lo fece con il più roseo degli animi.
«Quella Jane è sicuramente ‘’qualcosa’’ di non trascurabile.» il tono inviperito faceva pensare tutto l’opposto ma sorvolai.
«Che succede?» In realtà non volevo saperlo davvero, ero sicuro si trattasse di Enoch e desideravo dissociarmene del tutto fin quando non mi fosse passata.
«Ero seduto accanto a loro, mi hai visto no?» Li indicò e io seguii la traiettoria del suo dito, sembravano parlottare in maniera veramente intima. «Bene, si stavano accordando per un’uscita e credimi non penso proprio sarà un’uscita amichevole.» la parola ‘’amichevole’’ venne calcata in maniera grottesca. Provai a elaborare i miei stati d’animo del momento ma non ci riuscii, avevo talmente tanto caos e dolore dentro che mettere ordine sembrava impossibile.
«Dovevi sapere che sarebbe successo.. Jane credo rispecchi il suo prototipo di ragazza.» Purtroppo. Detestavo essere così brutalmente sincero con me stesso, ma tra tutti era da sempre quella che reputavo più ‘’adatta’’ a lui.
«Joshua io me ne fotto altamente del suo prototipo, Enoch è mio da sempre.» Quando parlava in quel modo mi faceva venire i brividi su per il corpo.
«Friedl— » mi stoppai scuotendo il capo, contrariarlo era inutile, non c’era peggior sordo di chi non voleva sentire. Mi venne da ridere, mi consideravo migliore di lui? Io ero più sulla scia del ‘’masochismo’’ violento, il classico imbecille che si butta nella bocca del leone consapevole che ne uscirà a pezzi. Magari era meglio Friedl, sempre sicuro di se oltre ogni logica e razionalità. Ma almeno lui aveva combattuto a carte scoperte per ciò che voleva, io invece mi ero semplicemente nascosto, ero entrato nella sua quotidianità ma non nel suo cuore.
«Il pensiero della morte non mi spaventa.» La sua voce mi attirò come una falena col fuoco, aveva risposto a una domanda che non avevo sentito ma l’argomento calamitò comunque il mio interesse.
«Come fai a non esserne terrorizzato?» William lo interruppe incredulo e affascinato forse.
«Perché dovrei? La vita è un inferno per alcuni, tediosa per altri, la morte è una specie di liberazione. Hai chiuso il tuo capitolo, puoi riposarti.» Scrollò le spalle con indolenza e io mi sentii a disagio, perché nessuno lo interrompeva? Perché nessuno gli urlava in faccia che la vita era preziosa? Avevo lottato per sedici anni pur di sopravvivere, ero fuggito per vivere la vita che pensavo di meritare dopo anni di segregazione e soprusi.
«La vita non può andare sprecata, qualsiasi sia l’ostacolo si affronta e si combatte.» La mia voce fece calare il silenzio.
«E se non ci fosse nulla per cui combattere? Se semplicemente si fosse annoiati da tutto e non si temesse il ‘’dopo’’?» Per la prima volta dopo giorni mi stava fissando, era già qualcosa.
«La noia è una condizione dell’animo umano, ma non è perpetua. Hai un’intera vita per cambiarne la tua percezione, solo volendolo— » lo vidi scrollare le spalle con un sorrisino.
«Non credo di avere così tanto tempo per farlo.» Mi raggelai guardandomi intorno, ma ero l’unico a sentire cosa diceva? Le espressioni altrui erano divertite, come se Enoch stesse scherzando e giocando con loro proprio in quel momento, ma io sentivo che non era così. I nostri sguardi si soppesarono legandosi, che cosa aveva passato nella sua vita per chiamare ‘’noia’’ la disperazione della sua condizione?
«Vado a dormire, domani ho lezione presto.» Mi alzai bruscamente provocando il malcontento di Kevin che mi si era addormentato sulla spalla, mi aveva preso per il suo cuscino?
Mentre percorrevo il corridoio buio sentii la sua presenza alle mie spalle, mi bastò voltare appena il viso per vederlo camminare a pochi metri da me. Le mani in tasca e l’espressione neutra; mi seguì ogni singola sera senza rivolgermi la parola né nulla, come se mi scortasse fino alla camera per non farmi sentire la paura. Chi era quindi Enoch? La persona che mi ignorava e mi aveva gettato via? O quella che si preoccupava pur senza farlo vedere? Iniziai a soffrire e non capire più come uscire da quel giogo tossico nella quale mi ero nuovamente cacciato.
 

 
  
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