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Autore: Mir7    31/03/2019    0 recensioni
Le cose qui stanno così da un bel po', ma qui nessuno sembra svegliarsi- mi spiegò. -Dopotutto che c'è di male ad amare? Che male c'è se in un mondo governato dall'odio, l'amore sopravvive? E poi, se prima o poi dovessimo rischiare la vita, non sarebbe meglio buttarsi e provare ad amare prima che sia troppo tardi piuttosto che rimpiangerlo per sempre?- guardava il cielo mentre esprimeva questi pensieri, più a sé stesso che a me.
Questa storia è il terzo titolo della serie Deitas, il seguito di "La mia nuova vita parte due"
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Mostri, Nico di Angelo, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Deitas'
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[Havery]

 

-È stata una cosa grandiosa!- esclamò entusiasta mia madre abbracciandomi.

-Sapevi che sarebbe stato questo il risultato?- mi domandò Alessandra fissando il lago.

-Beh...non proprio però...- cominciai ma non sapevo cosa dire.

Non volevo deluderli ma non mi ero immaginata effettivamente cosa sarebbe successo; era come se fosse scattato qualcosa dentro di me che mi avesse suggerito le mosse giuste. Conoscevo talmente poco i miei poteri che non ero ancora capace di utilizzarli al meglio.

-In realtà...- la voce di Elijah alle mie spalle sembrava volermi venire in aiuto.

-Quando ho progettato la falce mi auguravo che sarebbe riuscita a fare una cosa del genere- ammise il ragazzo posandomi una mano sulla spalla.

-Volevo che avessi un’arma che fosse solo tua, che solo tu saresti riuscita a sfruttare in tutto il suo potenziale- continuò togliendo subito la mano.

-Sicuramente i nostri ragazzi non sono niente male, non pensate?- esclamò sorridente Ryan con i ricci leggermente bagnati.

-Hanno dato prova delle loro capacità, ognuno a modo loro- dichiarò mio padre rinfoderando la spada.

-Ma si poteva tranquillamente evitare visto che ora dovremo andare a fare rifornimento, prima di ripartire verso l’Istituto- ci informò svogliata mia madre.

Ci rimettemmo in viaggio tra le fitte chiome degli alberi verde acceso, segno che l’estate si stava avvicinando. I nostri genitori non ci dissero dove fossimo precisamente diretti o cosa avessero in mente con “rifornimento”, li lasciammo guidarci mantenendo il passo dietro di loro. Non ci furono molte chiacchiere, ma ogni tanto potevo sentire mia madre parlare con Alessandra di cose di cui non avevo mai sentito parlare: chissà cosa fossero i Bts.

Le loro parole mi passavano da un orecchio all’altro senza sentirle veramente, come se fossero disconnesse tra di loro; non gli prestavo veramente attenzione perché stavo osservando il paesaggio intorno a me, chiedendomi dove ci avrebbero portato. Che fosse un altro punto di riferimento per i deitas fuggiaschi come l’Istituto, oppure un semplice drive-in in cui comprare sandwich a volontà? Provando ad immaginare dove i miei genitori avessero fatto rifornimento per tutti quegli anni, crebbe in me una strana sensazione di ansia ed esaltazione insieme.

Ero emozionata di saperlo ma anche spaventata dalla loro reale condizione, quella che non mi avevano voluto far vivere. Era grazie a loro se avevo vissuto sedici anni con un tetto sopra la testa, nonostante l’abbia capito solo ultimamente. Scossi la testa cercando di non incolparmi per aver avuto quei pensieri negativi sulla mia vita, senza sapere niente sulla mia provenienza divina. Cambiai visuale e mi concentrai sul rumore che proveniva dalla mia destra.

Elijah aveva iniziato a calciare un sassolino da qualche minuto, ma ero troppo sommersa nei miei pensieri per accorgermene prima. Sembrava curioso anche lui di sapere dove saremmo finiti e faceva rotolare il sassolino come se fosse un tic nervoso. Strinsi istintivamente il tubetto, che tenevo nella mano destra, e senza accorgermene mi ritrovai sorridere al pensiero che avesse creato l’arma solo ed esclusivamente per me, ragionando su ogni caratteristica che avrebbe dovuto avere per adattarsi alla perfezione a me.

Ritornai a guardare verso gli alberi cambiando di nuovo argomento di riflessione; dovevo trovarne uno che non mi facesse impazzire. Iniziai a credere che i nostri genitori avrebbero potuto tranquillamente nascondere cibo o altro fra i rami, perché nessuno li avrebbe notati, ma loro stavano puntando dritto di fronte a noi. I miei genitori sguainarono la spada e si fecero strada fra dei cespugli che ci dividevano dal nostro obbiettivo. Ciò che si presentò davanti ai nostri occhi fu del tutto inaspettato, tanto che Ryan, notando il dubbio sul mio volto e quello di Elijah, ci rassicurò.

-Tranquilli, i mostri non capitano qui da mesi ormai- dichiarò voltandosi verso di noi.

Una casa bianca a due piani, ricoperta d’edera ed erbacce varie, si ergeva circondata dai fitti alberi del bosco da cui provenivamo. Appariva come se volesse sovrastare sull’intero esercito di arbusti, però al tempo stesso dava l’impressione di aver paura del mondo esterno, come se fosse un luogo quiete che voleva rifugiarsi e vivere la sua vita in pace; a quanto pare non ce l’aveva fatta. Il tratto più evidente della casa era l’abbandono, era chiaro che non ci vivesse più nessuno da anni. Più avanzavamo verso l’ingresso, più mi veniva spontaneo alzare la testa continuando a fissare la faccia dell’edificio come se mi lasciassi sovrastare.

-Attenti a dove mettete i piedi, c’è un po’ di disordine- ci avvertì Alessandra.

Ero pronta a tutto, ma un posto abbandonato non doveva essere per forza un caos totale no? C’era la possibilità che gli ex-proprietari avessero lasciato tutto come era prima che l’abitassero e i nostri genitori si fossero insediati poco dopo per utilizzare la casa come magazzino.

-Solo un po’ di disordine?- esclamai non appena fui entrata nel piccolo ingresso.

Mi misi davanti alle scale di legno, che portavano al piano superiore e si presentavano di fronte alla porta principale, e in quei pochi passi calpestai pezzi di carta e vetro. Intorno a me le pareti azzurre erano segnate dal tempo e da impetuosi segni di artigli.

-Noi abbiamo una visione molto aperta di disordine- commentò mia madre guardandosi intorno tranquilla, per poi fare un cenno a mio padre prima di entrare nella stanza alla nostra destra con lui.

-Fate come se foste a casa vostra!- esordì Ryan scuotendo un po’ Elijah e me per darci energia.

-Io vado a vedere se sono rimasti dei medicinali di sopra- lo avvertì sua moglie.

Lui le fece l’occhiolino prima di separarsi e seguì i miei genitori nell’altra stanza ignota. La scossa di Ryan mi era servita poco, ero ancora sbigottita dalla situazione generale. Sembravano così a loro agio in un ambiente così in rovina, forse ci erano passati infinite volte per rifornirsi.

Questo voleva dire che erano sempre stati nei nostri dintorni? Nonostante questo mi sembrava del tutto innaturale l’atteggiamento rilassato e sereno degli adulti. “Fate come se foste a casa vostra”, come può uno sentirsi a casa in un posto così desolato e massacrato da ogni incombenza naturale? Il braccio di Elijah intorno alle mie spalle mi fece tornare alla realtà, come se fossi stata inghiottita in un buco senza fine e lui fosse l’unico in grado di ritirarmi su.

-Facciamoci un giro!- esclamò il riccio sorridendomi entusiasta.

Sembrava più rilassato senza mio padre intorno, ma al tempo stesso qualcosa non mi convinceva. Sul suo viso potevo riconoscere un velo di tristezza, forse anche lui era stato investito dalla strana aurea che la casa emanava. Nella stanza alla nostra sinistra si trovava il salotto, o almeno quello che ne rimaneva. La carta da parati era sempre dei colori chiari e sereni dell’ingresso, al suo stato originario avrebbe sicuramente infuso una certa tranquillità, ma adesso era tutto distrutto. Alle pareti erano appesi diplomi e foto, però i vetri rotti ne impedivano la corretta interpretazione. Riuscii solo a leggere qualche lettera distorta “O f r d” oppure “A ts”. Vari fogli sparsi alla rinfusa per la stanza, come se chi viveva qui avesse fretta di andarsene, mi davano malinconia e iniziavo a chiedermi cosa avesse potuto spingere i proprietari ad abbandonare la loro casa. Le cornici sistemate sopra il camino erano vuote e ricoperte di polvere, così non potei immaginarmi i volti delle persone che vivevano qui; però sentivo che avessero vissuto momenti allegri e ricchi di emozioni.

-Proviamo di sopra- disse Elijah pacato.

Doveva aver notato il mio sguardo perso per il salotto alla ricerca di risposte, così mi prese per mano e mi condusse al piano successivo dove poco prima era salita Alessandra. Vi erano cinque stanze in tutto e il corridoio risultava ampio grazie ai colori pastello, nonostante i segni di artigli evidenti rendessero tutto più inquietante. La prima porta era aperta e da lì proveniva la voce della figlia di Poseidone che canticchiava, o se non altro ci provava. Le due stanze seguenti erano contrassegnate, una di rosa e una di azzurro, entrambe graffiate, mentre le rimanenti si chiudevano a stento. Una casa così grande doveva essere stata usata da una famiglia, magari avevano dei bambini che si rincorrevano per i corridoi e giocavano in giardino. Chissà quante memorie e ricordi saranno bloccati in questo luogo che mi agita così tanto.

-In quale preferisci andare?- mi domandò Elijah mettendoci di fronte alle due porte contrassegnate dai due colori.

Mi strinse forte la mano, come se anche lui avesse bisogno di sostegno; non ero l’unica a sentire l’anima della casa cadermi addosso. Gli indicai con la mano libera la porta con una striscia di vernice rosa sopra. Elijah provò a spingere il pomello con cautela, cercando di non danneggiare più del dovuto. La stanza non era rosa, a differenza di come la porta poteva illudere, anzi era di molti colori come se i padroni di casa fossero indecisi o stessero litigando sui colori da utilizzare per la camera di...di chi sarà stata questa camera? Una bambina forse? Era quello che indicava il rosa sulla porta?

Mi avvicinai al lettino bianco per neonati dall’altra parte della stanza per cercare indizi. Le copertine erano color crema e il materiale d’imbottitura usciva da tutte le parti, era a pezzi come gran parte dei mobili della casa. Accarezzai delicatamente la culla mentre alzavo lo sguardo sul muro di fronte a me, che Elijah stava fissando da quando eravamo entrati. Due scritte in nero molto eleganti, seguite da due farfalle altrettanto fini, risaltavano sul muro bianco latte come un’insegna al neon ai miei occhi: Havery Lilith.

La mano, che tenevo sulla culla, si bloccò così come la mia mente, che sembrava non voler recepire quello che il mio sguardo aveva visto. All’improvviso delle lacrime scesero lungo le mie guance e mi ripulii velocemente lasciando la mano di Elijah. Ecco perché i genitori conoscevano così bene quel luogo e la utilizzavano come rifugio saltuario: sarebbe stata la mia casa se non fosse per i mostri. Mi fu difficile riconoscere in quelle stanze il nido natale che mi ero sempre immaginata, che avevo sempre cercato nella mente.

Tornai a guardarmi intorno con gli occhi lucidi e riuscii a vedere più di quanto fossi stata capace in precedenza. Ovunque erano sparsi pezzi di pupazzi dai colori tenui e qualche indumento alla rinfusa, che forse i miei genitori non erano riusciti a prendere nella fuga. La fuga...ora si spiegava il caos totale in cui riversava l’intera casa e i graffi dei mostri che avevano distrutto i mobili e i ricordi.

-Hai bisogno di tempo? Vuoi rimanere qui mentre io proseguo?- mi chiese con tono dolce Elijah.

Mi guardai un’ultima volta intorno, cercando di fissare ogni minimo dettaglio nella mia mente per non dimenticarli mai, e scossi la testa decisa. Se fossi rimasta un altro po’ sarei caduta in un oblio di nostalgia inutile; i miei genitori erano finalmente con me, una casa o quello che poteva essere la nostra vita senza i mostri non erano importanti.

Proseguimmo l’esplorazione nell’altra camera e notammo che assomigliava molto alla precedente come contenuti: un lettino da neonati, un fasciatoio, un cassettone con qualche libricino sopra, tutto in legno chiaro. La differenza principale era che l’intera stanza era tappezzata da delfini azzurri, da adesivi decorativi qua e là sulle pareti a pupazzi pieni di polvere. Istintivamente Elijah strinse il ciondolo a forma di delfino fra le mani nel momento in cui si mise a contare gli animaletti incollati ai muri.

Nel frattempo mi diressi verso il cassettone ad osservare i libri per bambini colorati di mille colori, ma la cosa che mi colpii di più fu un quadretto fatto a maglia appoggiato malamente sul mobile. La stoffa era bianca latte, mentre la scritta blu un po’ decentrata riportava il nome di Elijah.

-Sembra che fossimo destinati a stare insieme sin dalla nascita- commentai ad alta voce senza accorgermene.

Al suono della mia voce, il riccio si avvicinò a me per vedere cosa avevo trovato. Mi voltai ad osservarlo ed era scosso come me qualche minuto prima. Mi persi a guardare i dettagli del suo viso, più stanco di quanto fosse all’Istituto ma mi ispirava sempre pace e armonia, anche in momenti confusi come quelli; mi ricordai della frase che avevo detto a sproposito poco prima, quella che l’aveva istigato a venire nella mia direzione e il mio cervello scattò sbadatamente rendendo imbarazzante il mio commento precedente.

-Non...non intendevo quello...- esclamai impacciata.

Tornai al discorso, che in realtà era meglio evitare, segno che la mia testa era del tutto ko. Arrossii distogliendo lo sguardo dal cassonetto, potendo sentire gli occhi di Elijah su di me.

-Ho un quadretto simile in camera mia, però la scritta è arancione- rivelò lui sorvolando sul mio commento.

-Oh sì, quello lì blu era solo una prova- dichiarò Alessandra comparendo sulla porta con delle medicine in mano. -Michela mi ha insegnato il poco che sapeva sul lavorare a maglia perché volevo realizzare qualcosa di carino per mio figlio. Ovviamente la prova è blu perché è il colore che possedeva di più- ci spiegò lei sorridendoci.

Rimanemmo attoniti da quella rivelazione spontanea per noi molto importante. Per la figlia di Poseidone sembrava una cosa di poco conto e rimase confusa dal nostro silenzio.

-Forza, torniamo giù dagli altri!- disse facendoci un cenno con la testa per spronarci a seguirla.

Poco più tardi, quando riprendemmo il viaggio, i nostri genitori ci raccontarono che prima del cataclisma vivevano insieme in quella casetta perfetta per loro. Ci abitarono comodamente in quattro e credettero che l’arrivo di due bambini non sarebbe certo stato un problema. Iniziarono a progettare le camere ideali per noi, non appena seppero il nostro sesso, ma non andò come immaginato.

I mostri presero il potere dal nulla, nessun semidio se ne accorse, e gli Dei abbandonarono gli Stati Uniti considerandoli arretrati; i mostri non erano una questione che li riguardava. Così lasciarono i semidei rimasti nel caos e chi aveva provato a metter su famiglia dovette rivedere i suoi piani. Alessandra e Ryan se ne andarono poco dopo la nascita di Elijah sotto ordine di mia madre, la quale non voleva che rischiassero la vita se avessero aspettato la mia nascita; in questo modo poterono portare Elijah all’Istituto, mentre i miei genitori si ritrovarono a fuggire nel momento stesso in cui i mostri stavano arrivando a casa nostra, che fortunatamente trovarono vuota.

 

[Alice]

 

Mi infilai sotto le coperte dal lato del muro, ripensando alla proposta di Wolfie; se la mia famiglia poteva sopravvivere come lui mi aveva promesso, allora non vedevo nessuna ragione per cui non avrei dovuto accettare. Cercai di addormentarmi, cancellando quei pensieri dalla testa, prima che Henrick tornasse in camera: non sarei riuscita a sopportare altre notti in cui lui mi stuzzicava e il mio cuore si struggeva per lui.

Dormi, dormi, continuavo a ripetermi mentalmente come una formula magica, ma il cuore aveva deciso di iniziare a battermi forte per l'agitazione nonostante fossi sola in stanza. Dovevo sbrigarmi ad assopirmi. Il suono dell'apertura della porta avrebbe significato un'altra sera come le altre, con la tachicardia a mille. Perché doveva farmi questo effetto? Mi piaceva averlo al mio fianco, addormentarmi abbracciata a lui, ma al tempo stesso mi terrorizzava perché poteva succedere di tutto e sicuramente non sarei stata preparata.

Spesso mi ritrovavo a pensare che se fossi stata rifiutata da lui sarebbe stato molto meglio. Non avrei dovuto provare tutto ciò, non mi sarei dovuta fare dei problemi mentali per cose del genere. Ero molto brava a complicarmi la vita, l'avevo sempre pensato. Mi raggomitolai su me stessa e strinsi le coperte tra le mani, l'ansia non mi permetteva di dormire. Sentii il rumore della maniglia della porta e d'istinto mi irrigidii. Alice, calmati. Se mi fossi pietrificata, sarebbe stato ovvio che fossi sveglia. Finsi di essere sprofondata nel sonno e mollai la presa sulle coperte. Mantenni le palpebre leggere sopra gli occhi e regolai il respiro in modo che sembrasse dormiente anch'esso.

Captai che Henrick stesse aprendo l'armadio vicino al letto, probabilmente per togliersi la maglietta come faceva ogni sera prima di mettersi a letto. Inconsciamente il corpo si gelò, potevo avvertire il suo sguardo su di me; forse stava valutando se fossi sveglia o meno. Non poteva mandare in frantumi la mia messa in scena solo con uno sguardo. Le coperte si mossero e percepii il calore di Henrick sulla mia pelle. Da quanto aveva cominciato a fare così caldo lì dentro? Sembrava di essere una formica sotto una lente d'ingrandimento oppure...

-So che non stai dormendo- disse lui interrompendo la linea dei miei pensieri.

Non mi mossi sperando di riuscire a portare avanti la recita, ma Wolfie era più che intenzionato a non permettermelo. Iniziò ad accarezzarmi la schiena con la punta del naso, per poi passare alle braccia e al collo, come se mi stesse odorando. Mi vennero i brividi e sul perimetro del mio corpo si formò la pelle d'oca; non era una sensazione sgradevole, anzi era piacevole sentire il contrasto tra il freddo che si creava al momento del contatto e il caldo avvolgente delle coperte e di Henrick. Quando arrivò al collo mi lasciò lentamente qualche piccolo bacio; non voleva che avessi vita facile.

-Sai di cioccolata fondente...e a me piace tanto la cioccolata fondente- mi sussurrò all'orecchio con voce suadente, mentre passava delicatamente le mani sulle gambe che tenevo ancora strette al petto.

Era certo che io mi stessi fondendo in quel momento. Odiavo essere così poco vestita, ma cosa potevo farci? Gli unici abiti disponibili erano quelli di sua madre che mi andavano un po' larghi e l'estate si stava avvicinando, quindi mi erano stati rifilati solo vesti leggere. Nonostante avessi addosso solo una canottiera e dei pantaloncini, come pigiama, la sensazione di caldo insostenibile non mi abbandonava. Henrick provava in tutti i modi a farmi rinunciare alla mia messa in scena e sapeva i punti esatti in cui colpire. Mise una mano sulla mia schiena spostandola subito dopo sotto la canottiera per farsi strada in luoghi che erano proibiti. Aprii gli occhi di scatto e gli bloccai la mano.

-Finalmente ti sei decisa- mormorò prendendomi per un fianco e girandomi verso di lui.

Se avesse spento la luce della stanza almeno mi avrebbe risparmiato la vista del suo sguardo; più lo guardavo, più diventava ipnotico. Non potevo perdermi così nei suoi occhi. Restai con le braccia strette sul petto, come un segnale “divieto l'accesso”, mentre Wolfie strinse la presa sul mio fianco e mi avvicinò a sé. Il panico prese il possesso del mio corpo: non eravamo mai stati così vicini, così a stretto contatto, su un letto poi. Io non ero fatta per cose del genere, la mia mente iniziò a fare i suoi viaggi mentali che nemmeno la sua proprietaria sarebbe riuscita a fermare. Era proprio quello su cui riflettevo prima: l'ansia di non sapere cosa succederà nell'immediato futuro e non sapere come affrontarlo.

Mi sarebbe tanto piaciuto leggergli la mente, ma lui era imprevedibile. Da un lato ero troppo innocente per pensare che mi sarei ritrovata in un certo tipo di situazioni, mentre dall'altro potevo tranquillamente arrivare a capire cosa volesse da me un ragazzo di diciassette anni; la mia mente era divisa in due. La parte di Afrodite che era in me mi consigliava di lasciarmi andare, ma sembrava quasi impossibile. Perché io dovevo essere così razionale anche quando erano in ballo i sentimenti? Mi sarei presa a pugni da sola. Henrick mi sorrideva malizioso e ciò mi fece temere il peggio. Ma sarebbe stato davvero il peggio?

Riprese ad accarezzarmi la schiena, stavolta direttamente sotto la canottiera, con la mano sinistra mentre con l'altra mi strinse le mani che tenevo legate sul petto. Se non fosse stato per le mie gambe tra di noi, quello sarebbe stato un abbraccio in piena regola. Guardai le nostre mani unite e, mentre tornavo sui suoi occhi, il mio sguardo esitò sul suo petto nudo e scolpito come marmo; c'avevo fatto l'abitudine, visto che dormiva sempre senza maglietta, ma ogni volta non potevo far a meno di indugiare sui suoi addominali perfetti. Henrick sembrò leggermi il pensiero perché in un attimo la sua mano sinistra passò dalla schiena alla mia gamba destra, la alzò lievemente e la posizionò sopra il suo fianco in modo da poter avere i nostri corpi a contatto sul serio.

La prima cosa che percepii fu quella, anche se volevo distrarmi e non pensarci e Henrick trovò la maniera perfetta per farlo. Liberò le mie mani e le portò dietro la sua testa, mentre la sua mano destra tornò sul mio fianco e con l'altra mi prese il viso. Nel momento in cui le nostre labbra s'incontrarono il mio cuore uscì dal petto. Senza più il cuore su cui poter contare e il cervello che si era completamente fuso la mia morte era vicina, lo sentivo. Spontaneamente mi avvinghiai di più al suo corpo, come se fosse l'unica fonte di sostentamento.

Dopo poco cominciò a mancarmi l'ossigeno, così mi allontanai appena e sentii un'onda di calore invadermi il viso. Era successo davvero? Sembrava di essere in una dimensione a parte, a tal punto che non mi pareva vero di aver baciato Wolfie.

 

  
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