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Autore: Ryo13    04/04/2019    3 recensioni
Verso la fine della Seconda Guerra mondiale una giovane donna fugge dal lager di Dachau. Viene soccorsa da un medico tedesco da sempre innamorato di lei che la nasconde in casa propria.
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "Sliding Doors" al contest "Coincidenze perdute, appuntamenti mancati, scelte difficili: Sliding Doors Contest" indetto da missredlights e Shilyss sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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3. Voci di un popolo

Febbraio, 1944

Doveva avere la febbre alta, era per questo che non capiva cosa fosse successo.

L’ultima cosa che ricordava era di avere sfruttato il buco nella recinzione, quello all’angolo sud del cortile, per scivolarci attraverso, tentando la fuga.

Non aveva fatto che pochi passi che era stato dato l’allarme. I tuoni degli spari li sentiva ancora rimbombare dentro il petto, vibrando come se fosse stata davvero colpita, anche se non era successo. Non aveva provato neanche vera paura, tanto era stata terrorizzata in quei mesi che una leggera variazione di energia non poteva essere percepita troppo acutamente dalla sua mente ormai sconvolta.

Correndo a perdifiato si era stancata rapidamente, affamata e brutalizzata com’era: aveva pensato di accasciarsi e lasciarsi morire. La morte sarebbe stata la benvenuta a quel punto. Riusciva ancora ad apprezzare la grazia di una fine placida, concessa al di fuori di quelle terribili mura, lontana dai lamenti che più che a voce, risuonavano ormai nella sua testa, come il pianto dei bambini, strappati alle loro madri; come il pianto delle vedove senza più sposo; come il pianto dei padri senza più famiglia.

Era meglio morire fuori, adagiata sulla fredda neve che l’avrebbe resa insensibile, sperava, pure al dolore dell’anima, là dove aleggiavano i terribili vuoti dei suoi familiari scomparsi. L’ultimo, il più recente, quello dell’amata madre.

L’aveva vista spegnersi pallida e magra, sporca e rattrappita nella veste grigia del carcere dove le avevano trascinate con la forza: le aveva tenuto stretto un polso nell’ultima notte, e aveva contato con paranoia ogni pulsazione dell’arteria man mano che si indeboliva; quel polso che aveva stretto quando, ancora forte, la teneva sulle ginocchia cantandole all’orecchio una ninna nanna; che aveva ammirato nella sua sottile eleganza mentre mesceva il vino a tavola, o cuciva una veste per lei al negozio.

Lacrime amare erano scivolate sulla pelle secca e tirata, piena di lividi, come ora cadevano calde sulle sue mani, annebbiandole la vista. 

Era priva di forze.

Ancora sanguinava dall’ultima violenza subita: sperava che l’emorragia se la portasse via al più presto, verso quel mondo dove poteva incontrare nuovamente i suoi cari.

«Adonai...», sussurrò Hannah, le labbra spaccate dal gelo. «Adonai...»

Era il grido viscerale della creatura al suo Signore, il grido di angoscia del figlio al padre, perché lo salvasse.

Hannah continuava a ripetere il nome del suo Dio, non importava che negli ultimi anni avesse messo in dubbio la sua esistenza.

Adesso che la sua vita era agli sgoccioli e che tutto stava per finire, nel suo cuore si accese un barlume di pace… le pareva quasi di sentire la voce di padre Abram e quella dei suo figli e delle figlie di Israele chiamarla come una sorella. Man mano che perdeva la sensibilità degli arti la serenità tornava a invaderla, allontanando tutto l’orrore.

Per un istante non ci furono più lamenti, grida di sofferenza, odore di morte; rimase il ricordo lontano dei primi anni di vita dove nelle giornate piene di luce aleggiava il suono dell’armonia e Hannah era in pace col Cosmo, in pace con se stessa. Tornarono vive nel cuore le voci dei fratelli, gli odori della casa, specie quello dolce del pane; le risate in famiglia, i mormorii nella notte, prima di addormentarsi; il richiamo del cuculo notturno; ed era cullata dalla voce pulita e vibrante del padre che recitava: «Shemà Israel...».

“Ascolta...”

Adesso Hannah ascoltava quei suoni del passato che divenivano presente, mentre il tempo si annullava e lei entrava nell’infinito.



 

Eppure durò troppo poco.

Ricordò una faccia, pensò che le era familiare: uno dei medici del lager.

“No, no…” pensò, piangendo. Lui certamente l’avrebbe portata a morire nella sua cella.

Ma non l’aveva fatto.

Si era svegliata nel buio, debole e tremante tentando di parlare, ma non era riuscita a farlo: la sua voce era morta prima del suo corpo; era andata via seguendo quelle del suo popolo e l’aveva lasciata. 

Spezzata ma viva, non poteva fare altro che ascoltare. 

Nel buio della sua nuova cella, non più lamenti e lacrime, solo la voce del dottore che l’aveva curata e nascosta; che l’aveva sepolta e la nutriva e che si nutriva come un affamato del suo corpo…  un corpo che lei non sentiva più.

“Che se lo prenda”, pensava, “come l’hanno preso altri prima di lui”. 

Hannah non viveva ormai che per il tempo in cui anche il suo guscio vuoto avrebbe finalmente potuto seguire le voci. 

 


 

 

 
   
 
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