Oggi
«Hai
capito quello che ho detto?»
La
domanda urlata di Alessandra
fece trasalire Caterina e persino Matteo, il ragazzo di Alessandra,
sobbalzò
sul posto, sollevando per un istante lo sguardo dallo schermo
dell’iPhone che
teneva stretto tra le mani.
«Eh?»
strizzando gli occhi per
leggere quantomeno il labiale dell’amica, Caterina si sporse
al di sopra del
piano bianco del tavolino che la separava dagli altri due ragazzi,
facendo
attenzione a non rovesciare i bicchieri da cocktail posati su di esso.
«Non
sento un tubo!»
Alessandra
sospirò e disse
qualcosa, ma il suono delle sue parole si perse nel frastuono che
riempiva il
locale. Che posto di merda,
pensò
Caterina, facendo scorrere lo sguardo all’interno della
grande sala gremita di
gente. Sebbene il Dream fosse un
locale alla moda che attirava frotte di clienti già da un
paio di anni, quella
era la prima volta che Caterina ci metteva piede e, se fosse stato per
lei,
sarebbe stata certamente anche l’ultima. Era più
tipa da pub irlandesi, lei,
con i loro confortanti angoli bui e consunti tavoli di legno spesso: le
luci
violette del Dream, che pulsavano
al
ritmo della musica che fuoriusciva dagli altoparlanti posizionati un
po’
ovunque, stavano iniziando a farle venire il mal di testa.
Alzandosi
in piedi ed ergendosi
in tutto il suo metro e cinquantacinque centimetri, Alessandra si
piegò in
avanti, riuscendo così a raggiungere l’orecchio
dell’amica. «Ho detto che ho
parlato con Mattia, il tipo che gestisce ‘sto posto: tra due
sabati potremo
suonare qui. Una figata, no?»
Davanti
ai brillanti occhi scuri
della giovane, carichi di aspettative, Caterina fece del proprio meglio
per
fare buon viso a cattivo gioco. Alessandra aveva sempre amato cantare
ed erano
quasi dieci anni che si esibiva come vocalist
di un piccolo gruppo che proponeva pezzi rock: in qualità di
sua migliore
amica, Caterina era presente a quasi tutte le loro serate. Sforzandosi
di
distendere in un sorriso le labbra pallide, la giovane annuì
debolmente. «Che
bello.»
Nell’udire
quella risposta
tiepida, Alessandra le lanciò un’occhiata
indagatrice, ma, prima che potesse
dire dell’altro, una giovane cameriera si fermò
accanto al loro tavolo. «Posso
portarli via?»
Caterina
fece appena in tempo a intravvedere
il suo viso perfettamente truccato e il suo seno abbondante, che la
camicetta
bianca, sapientemente sbottonata, faceva ben poco per mascherare, che
la mano
della ragazza calò sul mojito che la giovane aveva bevuto
solo per metà. «Aspetta
un po’!» sbottò con malagrazia,
lanciandosi in difesa del proprio bicchiere e
afferrandolo a due mani. «Ti sembra che abbia
finito?!»
La
cameriera ritrasse
immediatamente la propria mano e osservò con evidente sdegno
il viso della
ragazza, struccato e inondato di lentiggini, poi ritirò i
bicchieri vuoti di Alessandra
e Matteo e girò sui tacchi, non prima di aver lanciato un
ultimo sguardo carico
di antipatia in direzione di Caterina.
«Minchia,
Cate, datti una
calmata!» la rimbrottò Alessandra, incrociando le
braccia attorno al petto e
facendo tintinnare i braccialetti che le adornavano i polsi sottili.
«Quella
povera disgraziata stava solo facendo il proprio lavoro: si
può sapere perché
sei così nervosa?»
Caterina
affondò gli incisivi nel
labbro inferiore, irritata dall’osservazione
dell’amica. «Ho mal di testa»
borbottò, voltandosi per cercare la borsetta adagiata sulla
panca al suo
fianco. Sono sicura di avere una
tachipirina o qualcosa del genere, pensò, evitando
di incontrare per qualche
istante gli occhi di Alessandra. Appena le sue dita sfiorarono la pelle
scamosciata della borsa, però, questa scivolò via
dal sottile cuscino viola sul
quale era appoggiata e cadde a terra, riversando il proprio contenuto
sul
pavimento lucido.
«’fanculo!»
ringhiò la ragazza,
tuffandosi sotto il tavolo per recuperare i propri averi. Confusamente
avvertì
la voce di Matteo che le chiedeva se avesse bisogno di una mano, ma la
ignorò,
continuando a gettare all’interno della borsetta
ciò che ne era fuoriuscito
pochi istanti prima. Ci mancava solo
questa, pensò, esasperata, allungandosi per
raggiungere una penna che era
rotolata a un metro di distanza. Quando riuscì a riemergere
dal pertugio in cui
si era infilata, la giovane si alzò bruscamente in piedi.
«Vado un attimo in
bagno» annunciò seccamente.
Abituata
ai suoi sbalzi d’umore,
Alessandra si limitò a fare un vago cenno
d’assenso, mentre Matteo, che la
conosceva ancora poco, le rivolse un sorriso lievemente imbarazzato.
Volgendo
le spalle agli amici e passandosi una mano tra i lunghi capelli ramati,
Caterina ispirò profondamente, cercando di calmarsi e di
alleviare il dolore
sordo che le pulsava nella tempia destra. Il Dream
era stracolmo di gente che chiacchierava, rideva e si
accalcava tutt’attorno al lungo bancone del bar. A pochi
tavoli di distanza, un
gruppo piuttosto nutrito di giovani donne era impegnato a festeggiare
un addio
al nubilato: le damigelle,
palesemente alticce e con delle improbabili alucce di peluche fissate
alla
schiena, ballavano in maniera scompagnata, senza curarsi di invadere lo
spazio vitale
degli altri avventori.
Che tradizione demenziale,
pensò Caterina, orripilata. Irrompendo
senza scrupoli nel bel mezzo del trenino improvvisato, la ragazza
puntò decisa
verso l’insegna lampeggiante che indicava la toilette. Mentre
passava loro
accanto, alcune delle giovani smisero di danzare e la squadrarono da
capo a
piedi. Sentendo su di sé gli sguardi di quelle sconosciute,
Caterina avvertì le
proprie guance farsi improvvisamente più calde: lei odiava dare nell’occhio, essere
al centro dell’attenzione.
Ogniqualvolta sentiva di essere osservata, si trovava a desiderare di
essere
qualche decina di centimetri più bassa: superava
abbondantemente il metro e
ottanta di altezza, il che le dava l’impressione di essere
troppo alta, troppo
sgraziata, troppo vistosa.
Allungando
il passo per
allontanarsi dal gruppetto, la ragazza scartò bruscamente di
lato per schivare
un cameriere che si dirigeva verso uno dei tavoli reggendo su
un’unica mano un
vassoio con quattro o cinque calici di vino e, così facendo,
venne investita da
un altro uomo, che le si aggrappò alle spalle per evitare di
finire a terra.
«Scusa,
scusa» bofonchiò quello,
e Caterina storse il naso quando avvertì il forte sentore di
alcol nel suo
fiato. L’ubriacone anche no, grazie!
Pensò, sottraendosi alla sua presa e sputando un
“non fa niente” che con ogni
probabilità non raggiunse mai le orecchie
dell’uomo.
Quando
finalmente riuscì a
guadagnare la porta del bagno, la giovane vi si lasciò quasi
cadere contro,
aprendola di scatto e poi chiudendola altrettanto rapidamente dietro di
sé. Salva,
pensò, mentre un’ondata di
sollievo la percorreva da testa a piedi. Lo stanzino era
miracolosamente vuoto,
pulito e, soprattutto, silenzioso.
La
spessa porta di legno che separava l’antibagno dal resto del
locale tagliava
fuori il suono delle voci e il rombo della musica, facendo penetrare
solamente
un brusio ovattato troppo lieve per peggiorare l’emicrania di
Caterina.
Sospirando
e sentendo un poco di
tensione scivolarle via dalle spalle, la giovane raggiunse il ripiano
di
granito che ospitava i lavabi e vi si appoggiò di peso,
scrutando il proprio
riflesso nello specchio posto al di sopra di esso. Aveva
l’aria stanca. La sua
pelle, sempre pallida, appariva ora quasi traslucida, secca e tirata
sugli
zigomi sporgenti. Le lentiggini, troppo abbondanti e troppo vistose per
poter
essere definite sbarazzine, arrivavano a sfiorare le profonde occhiaie
scure
che le cerchiavano gli occhi, dandole un aspetto decisamente poco sano.
Sembro già vecchia,
pensò Caterina,
toccandosi con l’indice un angolo delle labbra sottili e
tirando la ruga
piccola, ma visibile, che da qualche anno si era formata nella pelle. Ho venticinque anni e sembro già vecchia.
Persino i suoi occhi, dal taglio un po’ triste e di un
indefinibile colore tra
il marrone e il verde, avevano un’aria un po’
retrò. Forse dovrei truccarmi un
po’, considerò Caterina, ripensando alla
cameriera che aveva cercato di sottrarle il mojito e al suo impeccabile
eyeliner scuro. Forse dovrei smetterla di
prendermela per ogni minima idiozia…
In
quel momento, la porta
dell’antibagno si aprì nuovamente e due ragazzine
che di certo non potevano
essere maggiorenni piombarono davanti a Caterina, ridacchiando
convulsamente e
indicando qualcosa sullo schermo dello smartphone di una delle due.
Accorgendosi di non essere sole, le due ammutolirono per un istante, ma
poi ripresero
a confabulare tra di loro. Quando quella più minuta si mise
a sghignazzare
stridulamente, Caterina si allontanò rapidamente dallo
specchio. Sì, dovrei decisamente
imparare a essere più
paziente, decretò la giovane. Però
facciamo che inizio ad applicarmici domani.
Scacciata
da quell’insperata oasi
di pace, la ragazza si ritrovò di nuovo nel cuore del Dream e immediatamente venne travolta
dalla valanga di rumore e
confusione alla quale aveva cercato di sottrarsi qualche minuto prima.
Da
quella posizione non riusciva a vedere il tavolo al quale erano seduti
Alessandra e Matteo, ma era assolutamente certa che i due, che stavano
insieme
da pochi mesi soltanto, non stessero soffrendo per la sua mancanza. Una boccata d’aria mi farà bene,
pensò
Caterina, adocchiando la porta d’ingresso del locale.
Appena
ebbe messo piede
all’esterno, si trovò avvolta da una nuvola di
fumo di sigaretta e represse un
sorriso esasperato. Naturalmente,
pensò. Sebbene avesse lei stessa fumato per un breve periodo
della sua
adolescenza, la ragazza si era ormai lasciata alle spalle quel capitolo
della
sua esistenza e non aveva alcuna intenzione di respirare le esalazioni
emesse
dagli altri fumatori. Molto meglio
godersi la meravigliosa solitudine notturna di un parcheggio brianzolo,
si
disse, allontanandosi lentamente dalla folla radunata davanti alle
porte a
vetro del Dream.
Quando
si fu allontanata di
qualche decina di metri, estrasse il cellulare dalla tasca posteriore
dei jeans
e si lasciò scivolare su un muretto di cemento armato. Sono solo le undici e venti,
notò, demoralizzata. L’Ale
non vorrà mai andare a casa prima di
mezzanotte… giuro che questa è l’ultima
volta che mi faccio trascinare in ‘sto
schifo di un posto. E chi se ne frega del suo concerto!
Trovando
ben poco allettante la
prospettiva di gettarsi nuovamente nella bolgia infernale
all’interno del
locale, Caterina diede un’occhiata al proprio profilo
Facebook e Instagram e
poi rabbrividì, mentre un refolo di aria fredda si infilava
nel retro della
maglietta leggera che indossava. Anche se la primavera era
già sbocciata da un
paio di settimane, di sera le
temperature erano tutt’altro che estive. Improvvisamente
Caterina si rammaricò
di avere lasciato il proprio golfino nella borsa che aveva abbandonato
al
tavolo con Alessandra e Matteo. Per
fortuna, però, ho in tasca le chiavi della macchina.
Era una ragazza
previdente, lei, e teneva sempre sul sedile posteriore della sua Clio
un
giubbino leggero. E questo è il
momento
di usarlo… se solo mi ricordassi dove diavolo abbiamo
parcheggiato.
Per
sua sfortuna, il senso
dell’orientamento non rientrava tra le sue doti e Caterina ci
mise qualche
minuto a ricostruire la strada che lei e gli amici avevano fatto per
raggiungere il locale. Il Dream si
trovava in quella che era un’ex aria industriale e per questo
era dotato di un
parcheggio immenso, senza grandi punti di riferimento che potessero
aiutare la
giovane a individuare rapidamente la propria auto.
Però, se non sbaglio, dovrebbe essere
laggiù… ora che ci penso,
l’abbiamo lasciata sul retro. Quel cartellone
dall’altra parte della strada mi
ricordo di averlo visto.
Era
meno vicina di quanto le
sarebbe piaciuto, ma voleva godere ancora di qualche minuto di
tranquillità
prima di raggiungere nuovamente gli amici. Dopo essersi stiracchiata
pigramente, Caterina si avviò verso il lato opposto del
parcheggio,
giocherellando distrattamente con il bordo liscio del sottile
portachiavi
metallico che aveva estratto dalla tasca.
Certo che potevano anche metterla, qualche luce in
più, osservò la
ragazza, notando che il parcheggio era più buio di quanto
non le fosse sembrato
in un primo momento. Se si escludeva il rombo delle macchine che
correvano
sulla superstrada poco distante e l’eco della musica che
proveniva dal locale,
il silenzio era quasi totale. Non c’erano voci, non
c’era il frusciare del
vento, non c’era nemmeno il canto dei grilli che aveva
accompagnato la maggior
parte delle notti della sua vita. C’era però
l’odore dell’asfalto caldo, acre,
penetrante, appena intaccato dal sentore dei gas di scarico e della
benzina.
Improvvisamente,
Caterina udì dei
passi alle proprie spalle.
«Aspetta!»
Ancor
prima di voltarsi, la
ragazza seppe che non si trattava di nessuno che conosceva. Irrigidendo
istintivamente i muscoli delle gambe e delle braccia e trovandosi a
stringere
le dita sulle chiavi dell’auto, la giovane ruotò
lentamente sui tacchi,
trovandosi così a fronteggiare la persona che la stava
seguendo.
Oh, cazzo. Anche se prima non
l’aveva visto bene, le bastò
un’occhiata per capire che l’uomo che le stava
davanti era lo stesso che
l’aveva travolta qualche decina di minuti prima
all’interno del locale, quando
aveva cercato di raggiungere il bagno. È
l’ubriacone. Quanto avrà bevuto? Se la
sarà presa per come l’ho trattato?
Cercando
di cogliere qualche
informazione in più sullo stato psicofisico
dell’individuo, Caterina fece
scorrere su di lui un’occhiata rapida, ma minuziosa. Era
giovane,
indiscutibilmente bello e con un fisico di tutto rispetto, a giudicare
da
quello che riusciva a intravvedere nella penombra, ma quelle
informazioni non
le parvero di alcuna rilevanza, considerate le circostanze. Dev’essere alto più o meno
quanto me,
considerò, invece. Ma scommetto
che è più
forte di me, e probabilmente pure più veloce.
Occhieggiando
alla propria sinistra,
la ragazza cercò di calcolare la distanza che la separava
dalle persone intente
a fumare davanti all’entrata del locale. Qualcuno
l’aveva vista? Qualcuno
l’avrebbe sentita, se avesse gridato?
«No,
no, cosa guardi?» le chiese
l’uomo, avvicinandosi a lei di qualche passo. «Ti
ho spaventata? Scusa, non
volevo! Non preoccuparti, non voglio farti del male.»
Immediatamente,
la giovane
indietreggiò, facendo attenzione a non finire intrappolata
tra due automobili.
Lo sconosciuto si muoveva in modo apparentemente sicuro, segno che,
forse, era
meno ubriaco di quello che aveva temuto. Allo stesso tempo,
però, le sembrava
che parlasse in modo leggermente impacciato, come se avesse la lingua
impastata. In ogni caso, è meglio
non
approfondire la faccenda.
«Che
cosa vuoi? Non ci
conosciamo, lasciami in pace» gli ordinò, facendo
del proprio meglio per
mantenere un tono di voce ragionevole, ma fermo.
L’uomo
si passò una mano tra i
capelli scuri, come se l’osservazione della giovane
l’avesse messo a disagio.
«Sì, lo so, però… prima ti
sono venuto addosso. Volevo scusarmi.»
Caterina
deglutì. «Scuse
accettate» disse, un po’ troppo in fretta.
«Adesso sparisci.»
Così
dicendo, la ragazza si
incamminò decisa verso l’ingresso del locale,
cercando di superare l’uomo sulla
sinistra. Quello, però, allungò rapidamente una
mano e la richiuse sul braccio
della giovane. «No, aspetta un attimo.
Voglio…»
Senza
lasciargli il tempo di
terminare la frase, Caterina ritrasse di scatto il proprio braccio.
«Lasciami
immediatamente!» sibilò, sentendo la paura
mescolarsi alla rabbia. Forse
avrebbe dovuto veramente urlare per attirare l’attenzione. O
forse avrebbe
dovuto prenderlo a calci, e al diavolo le conseguenze.
Per
tutta risposta, l’uomo
ridacchiò, apparentemente divertito. «Va bene, va
bene, non ti tocco» disse,
sollevando le mani come per dimostrare di essere innocuo. «Tu
però me lo dici,
il tuo nome?»
«No!»
sputò lei, trovando
oltraggioso il fatto che quel tizio osasse farle una richiesta del
genere.
«Ma…»
«Allontanati
immediatamente da
quella ragazza.»
Le
proteste del giovane vennero
interrotte da una voce profonda. Alzando lo sguardo oltre le spalle
dello
sconosciuto, Caterina vide Hasim, uno dei buttafuori del Dream,
avanzare a grandi passi verso di loro. L’uomo aveva
conosciuto Alessandra durante un’esibizione della ragazza e
da allora erano
diventati amici: era stato lui a darle il contatto del gestore del Dream, dicendole che c’era la
possibilità
di farsi conoscere da un nuovo pubblico. Caterina l’aveva
già incrociato un
paio di volte, in passato, e le era sembrato una persona per bene, ma
mai come
in quel momento era stata felice di vederselo comparire davanti.
L’uomo
che aveva cercato di
approcciarla si voltò di malavoglia verso di lui.
«Non sto facendo niente» gli
disse, con la voce che tradiva tutto il fastidio di essere stato
interrotto.
Senza
nemmeno ascoltarlo, Hasim
lo raggiunse e lo superò, frapponendo tra lui e Caterina
tutta la sua
ragguardevole stazza. «Ti ha dato fastidio?»
chiese, chinandosi leggermente per
incontrare gli occhi della giovane.
Caterina
esitò appena un istante,
poi si strinse nelle spalle. «Non più di
tanto» replicò. Per qualche ragione,
l’idea di confessare all’uomo la paura che
l’aveva assalita la metteva a
disagio. Si sentiva decisamente più tranquilla, ora che lui
era al suo fianco
e, a conti fatti, quell’idiota non aveva fatto nulla di
eccessivamente
minaccioso. Forse perché non ne
avuto il
tempo, si disse, soffocando però subito il
pensiero.
«Ne
sei sicura?» insistette
Hasim, gli occhi neri luminosi nel buio della notte.
Caterina
gli posò una mano sul
braccio e gli sorrise. «Assolutamente» lo
rassicurò. «Potresti riaccompagnarmi
dentro, però? L’Ale penserà che mi sono
persa…»
Caterina
non si voltò mai, mentre
il buttafuori la scortava verso l’ingresso del locale, ma era
assolutamente
certa che gli occhi dell’altro uomo la stessero ancora
seguendo.