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Autore: Red Owl    28/04/2019    1 recensioni
Agnese e Caterina non si incontreranno mai, perché le dividono quasi cent'anni di storia. Eppure hanno qualcosa che le accomuna: qualcosa celato nei boschi che circondano il paesino di San Giorgio della Valle, dove entrambe sono cresciute. C'è un segreto antico, nascosto tra i castagni e le vecchie mura di un paesino della montagna lombarda: Agnese ha scelto di dimenticarlo, Caterina, forse, non l'ha mai conosciuto. Verrà però un giorno in cui entrambe dovranno fare i conti con il passato, quando un nemico subdolo e ingannatore verrà a bussare alla loro porta, alla ricerca di qualcosa che soltanto loro possono dargli.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Oggi

«Hai capito quello che ho detto?»

La domanda urlata di Alessandra fece trasalire Caterina e persino Matteo, il ragazzo di Alessandra, sobbalzò sul posto, sollevando per un istante lo sguardo dallo schermo dell’iPhone che teneva stretto tra le mani.

«Eh?» strizzando gli occhi per leggere quantomeno il labiale dell’amica, Caterina si sporse al di sopra del piano bianco del tavolino che la separava dagli altri due ragazzi, facendo attenzione a non rovesciare i bicchieri da cocktail posati su di esso. «Non sento un tubo!»

Alessandra sospirò e disse qualcosa, ma il suono delle sue parole si perse nel frastuono che riempiva il locale. Che posto di merda, pensò Caterina, facendo scorrere lo sguardo all’interno della grande sala gremita di gente. Sebbene il Dream fosse un locale alla moda che attirava frotte di clienti già da un paio di anni, quella era la prima volta che Caterina ci metteva piede e, se fosse stato per lei, sarebbe stata certamente anche l’ultima. Era più tipa da pub irlandesi, lei, con i loro confortanti angoli bui e consunti tavoli di legno spesso: le luci violette del Dream, che pulsavano al ritmo della musica che fuoriusciva dagli altoparlanti posizionati un po’ ovunque, stavano iniziando a farle venire il mal di testa.

Alzandosi in piedi ed ergendosi in tutto il suo metro e cinquantacinque centimetri, Alessandra si piegò in avanti, riuscendo così a raggiungere l’orecchio dell’amica. «Ho detto che ho parlato con Mattia, il tipo che gestisce ‘sto posto: tra due sabati potremo suonare qui. Una figata, no?»

Davanti ai brillanti occhi scuri della giovane, carichi di aspettative, Caterina fece del proprio meglio per fare buon viso a cattivo gioco. Alessandra aveva sempre amato cantare ed erano quasi dieci anni che si esibiva come vocalist di un piccolo gruppo che proponeva pezzi rock: in qualità di sua migliore amica, Caterina era presente a quasi tutte le loro serate. Sforzandosi di distendere in un sorriso le labbra pallide, la giovane annuì debolmente. «Che bello.»

Nell’udire quella risposta tiepida, Alessandra le lanciò un’occhiata indagatrice, ma, prima che potesse dire dell’altro, una giovane cameriera si fermò accanto al loro tavolo. «Posso portarli via?»

Caterina fece appena in tempo a intravvedere il suo viso perfettamente truccato e il suo seno abbondante, che la camicetta bianca, sapientemente sbottonata, faceva ben poco per mascherare, che la mano della ragazza calò sul mojito che la giovane aveva bevuto solo per metà. «Aspetta un po’!» sbottò con malagrazia, lanciandosi in difesa del proprio bicchiere e afferrandolo a due mani. «Ti sembra che abbia finito?!»

La cameriera ritrasse immediatamente la propria mano e osservò con evidente sdegno il viso della ragazza, struccato e inondato di lentiggini, poi ritirò i bicchieri vuoti di Alessandra e Matteo e girò sui tacchi, non prima di aver lanciato un ultimo sguardo carico di antipatia in direzione di Caterina.

«Minchia, Cate, datti una calmata!» la rimbrottò Alessandra, incrociando le braccia attorno al petto e facendo tintinnare i braccialetti che le adornavano i polsi sottili. ­«Quella povera disgraziata stava solo facendo il proprio lavoro: si può sapere perché sei così nervosa?»

Caterina affondò gli incisivi nel labbro inferiore, irritata dall’osservazione dell’amica. «Ho mal di testa» borbottò, voltandosi per cercare la borsetta adagiata sulla panca al suo fianco. Sono sicura di avere una tachipirina o qualcosa del genere, pensò, evitando di incontrare per qualche istante gli occhi di Alessandra. Appena le sue dita sfiorarono la pelle scamosciata della borsa, però, questa scivolò via dal sottile cuscino viola sul quale era appoggiata e cadde a terra, riversando il proprio contenuto sul pavimento lucido.

«’fanculo!» ringhiò la ragazza, tuffandosi sotto il tavolo per recuperare i propri averi. Confusamente avvertì la voce di Matteo che le chiedeva se avesse bisogno di una mano, ma la ignorò, continuando a gettare all’interno della borsetta ciò che ne era fuoriuscito pochi istanti prima. Ci mancava solo questa, pensò, esasperata, allungandosi per raggiungere una penna che era rotolata a un metro di distanza. Quando riuscì a riemergere dal pertugio in cui si era infilata, la giovane si alzò bruscamente in piedi. «Vado un attimo in bagno» annunciò seccamente.

Abituata ai suoi sbalzi d’umore, Alessandra si limitò a fare un vago cenno d’assenso, mentre Matteo, che la conosceva ancora poco, le rivolse un sorriso lievemente imbarazzato. Volgendo le spalle agli amici e passandosi una mano tra i lunghi capelli ramati, Caterina ispirò profondamente, cercando di calmarsi e di alleviare il dolore sordo che le pulsava nella tempia destra. Il Dream era stracolmo di gente che chiacchierava, rideva e si accalcava tutt’attorno al lungo bancone del bar. A pochi tavoli di distanza, un gruppo piuttosto nutrito di giovani donne era impegnato a festeggiare un addio al nubilato: le damigelle, palesemente alticce e con delle improbabili alucce di peluche fissate alla schiena, ballavano in maniera scompagnata, senza curarsi di invadere lo spazio vitale degli altri avventori.

Che tradizione demenziale, pensò Caterina, orripilata. Irrompendo senza scrupoli nel bel mezzo del trenino improvvisato, la ragazza puntò decisa verso l’insegna lampeggiante che indicava la toilette. Mentre passava loro accanto, alcune delle giovani smisero di danzare e la squadrarono da capo a piedi. Sentendo su di sé gli sguardi di quelle sconosciute, Caterina avvertì le proprie guance farsi improvvisamente più calde: lei odiava dare nell’occhio, essere al centro dell’attenzione. Ogniqualvolta sentiva di essere osservata, si trovava a desiderare di essere qualche decina di centimetri più bassa: superava abbondantemente il metro e ottanta di altezza, il che le dava l’impressione di essere troppo alta, troppo sgraziata, troppo vistosa.

Allungando il passo per allontanarsi dal gruppetto, la ragazza scartò bruscamente di lato per schivare un cameriere che si dirigeva verso uno dei tavoli reggendo su un’unica mano un vassoio con quattro o cinque calici di vino e, così facendo, venne investita da un altro uomo, che le si aggrappò alle spalle per evitare di finire a terra.

«Scusa, scusa» bofonchiò quello, e Caterina storse il naso quando avvertì il forte sentore di alcol nel suo fiato. L’ubriacone anche no, grazie! Pensò, sottraendosi alla sua presa e sputando un “non fa niente” che con ogni probabilità non raggiunse mai le orecchie dell’uomo.

Quando finalmente riuscì a guadagnare la porta del bagno, la giovane vi si lasciò quasi cadere contro, aprendola di scatto e poi chiudendola altrettanto rapidamente dietro di sé. Salva, pensò, mentre un’ondata di sollievo la percorreva da testa a piedi. Lo stanzino era miracolosamente vuoto, pulito e, soprattutto, silenzioso. La spessa porta di legno che separava l’antibagno dal resto del locale tagliava fuori il suono delle voci e il rombo della musica, facendo penetrare solamente un brusio ovattato troppo lieve per peggiorare l’emicrania di Caterina.

Sospirando e sentendo un poco di tensione scivolarle via dalle spalle, la giovane raggiunse il ripiano di granito che ospitava i lavabi e vi si appoggiò di peso, scrutando il proprio riflesso nello specchio posto al di sopra di esso. Aveva l’aria stanca. La sua pelle, sempre pallida, appariva ora quasi traslucida, secca e tirata sugli zigomi sporgenti. Le lentiggini, troppo abbondanti e troppo vistose per poter essere definite sbarazzine, arrivavano a sfiorare le profonde occhiaie scure che le cerchiavano gli occhi, dandole un aspetto decisamente poco sano. Sembro già vecchia, pensò Caterina, toccandosi con l’indice un angolo delle labbra sottili e tirando la ruga piccola, ma visibile, che da qualche anno si era formata nella pelle. Ho venticinque anni e sembro già vecchia. Persino i suoi occhi, dal taglio un po’ triste e di un indefinibile colore tra il marrone e il verde, avevano un’aria un po’ retrò. Forse dovrei truccarmi un po’, considerò Caterina, ripensando alla cameriera che aveva cercato di sottrarle il mojito e al suo impeccabile eyeliner scuro. Forse dovrei smetterla di prendermela per ogni minima idiozia…

In quel momento, la porta dell’antibagno si aprì nuovamente e due ragazzine che di certo non potevano essere maggiorenni piombarono davanti a Caterina, ridacchiando convulsamente e indicando qualcosa sullo schermo dello smartphone di una delle due. Accorgendosi di non essere sole, le due ammutolirono per un istante, ma poi ripresero a confabulare tra di loro. Quando quella più minuta si mise a sghignazzare stridulamente, Caterina si allontanò rapidamente dallo specchio. Sì, dovrei decisamente imparare a essere più paziente, decretò la giovane. Però facciamo che inizio ad applicarmici domani.

Scacciata da quell’insperata oasi di pace, la ragazza si ritrovò di nuovo nel cuore del Dream e immediatamente venne travolta dalla valanga di rumore e confusione alla quale aveva cercato di sottrarsi qualche minuto prima. Da quella posizione non riusciva a vedere il tavolo al quale erano seduti Alessandra e Matteo, ma era assolutamente certa che i due, che stavano insieme da pochi mesi soltanto, non stessero soffrendo per la sua mancanza. Una boccata d’aria mi farà bene, pensò Caterina, adocchiando la porta d’ingresso del locale.

Appena ebbe messo piede all’esterno, si trovò avvolta da una nuvola di fumo di sigaretta e represse un sorriso esasperato. Naturalmente, pensò. Sebbene avesse lei stessa fumato per un breve periodo della sua adolescenza, la ragazza si era ormai lasciata alle spalle quel capitolo della sua esistenza e non aveva alcuna intenzione di respirare le esalazioni emesse dagli altri fumatori. Molto meglio godersi la meravigliosa solitudine notturna di un parcheggio brianzolo, si disse, allontanandosi lentamente dalla folla radunata davanti alle porte a vetro del Dream.

Quando si fu allontanata di qualche decina di metri, estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e si lasciò scivolare su un muretto di cemento armato. Sono solo le undici e venti, notò, demoralizzata. L’Ale non vorrà mai andare a casa prima di mezzanotte… giuro che questa è l’ultima volta che mi faccio trascinare in ‘sto schifo di un posto. E chi se ne frega del suo concerto!

Trovando ben poco allettante la prospettiva di gettarsi nuovamente nella bolgia infernale all’interno del locale, Caterina diede un’occhiata al proprio profilo Facebook e Instagram e poi rabbrividì, mentre un refolo di aria fredda si infilava nel retro della maglietta leggera che indossava. Anche se la primavera era già sbocciata da un paio di settimane, di sera le temperature erano tutt’altro che estive. Improvvisamente Caterina si rammaricò di avere lasciato il proprio golfino nella borsa che aveva abbandonato al tavolo con Alessandra e Matteo. Per fortuna, però, ho in tasca le chiavi della macchina. Era una ragazza previdente, lei, e teneva sempre sul sedile posteriore della sua Clio un giubbino leggero. E questo è il momento di usarlo… se solo mi ricordassi dove diavolo abbiamo parcheggiato.

Per sua sfortuna, il senso dell’orientamento non rientrava tra le sue doti e Caterina ci mise qualche minuto a ricostruire la strada che lei e gli amici avevano fatto per raggiungere il locale. Il Dream si trovava in quella che era un’ex aria industriale e per questo era dotato di un parcheggio immenso, senza grandi punti di riferimento che potessero aiutare la giovane a individuare rapidamente la propria auto.

Però, se non sbaglio, dovrebbe essere laggiù… ora che ci penso, l’abbiamo lasciata sul retro. Quel cartellone dall’altra parte della strada mi ricordo di averlo visto.

Era meno vicina di quanto le sarebbe piaciuto, ma voleva godere ancora di qualche minuto di tranquillità prima di raggiungere nuovamente gli amici. Dopo essersi stiracchiata pigramente, Caterina si avviò verso il lato opposto del parcheggio, giocherellando distrattamente con il bordo liscio del sottile portachiavi metallico che aveva estratto dalla tasca.

Certo che potevano anche metterla, qualche luce in più, osservò la ragazza, notando che il parcheggio era più buio di quanto non le fosse sembrato in un primo momento. Se si escludeva il rombo delle macchine che correvano sulla superstrada poco distante e l’eco della musica che proveniva dal locale, il silenzio era quasi totale. Non c’erano voci, non c’era il frusciare del vento, non c’era nemmeno il canto dei grilli che aveva accompagnato la maggior parte delle notti della sua vita. C’era però l’odore dell’asfalto caldo, acre, penetrante, appena intaccato dal sentore dei gas di scarico e della benzina.

Improvvisamente, Caterina udì dei passi alle proprie spalle.

«Aspetta!»

Ancor prima di voltarsi, la ragazza seppe che non si trattava di nessuno che conosceva. Irrigidendo istintivamente i muscoli delle gambe e delle braccia e trovandosi a stringere le dita sulle chiavi dell’auto, la giovane ruotò lentamente sui tacchi, trovandosi così a fronteggiare la persona che la stava seguendo.

Oh, cazzo. Anche se prima non l’aveva visto bene, le bastò un’occhiata per capire che l’uomo che le stava davanti era lo stesso che l’aveva travolta qualche decina di minuti prima all’interno del locale, quando aveva cercato di raggiungere il bagno. È l’ubriacone. Quanto avrà bevuto? Se la sarà presa per come l’ho trattato?

Cercando di cogliere qualche informazione in più sullo stato psicofisico dell’individuo, Caterina fece scorrere su di lui un’occhiata rapida, ma minuziosa. Era giovane, indiscutibilmente bello e con un fisico di tutto rispetto, a giudicare da quello che riusciva a intravvedere nella penombra, ma quelle informazioni non le parvero di alcuna rilevanza, considerate le circostanze. Dev’essere alto più o meno quanto me, considerò, invece. Ma scommetto che è più forte di me, e probabilmente pure più veloce.

Occhieggiando alla propria sinistra, la ragazza cercò di calcolare la distanza che la separava dalle persone intente a fumare davanti all’entrata del locale. Qualcuno l’aveva vista? Qualcuno l’avrebbe sentita, se avesse gridato?

«No, no, cosa guardi?» le chiese l’uomo, avvicinandosi a lei di qualche passo. «Ti ho spaventata? Scusa, non volevo! Non preoccuparti, non voglio farti del male.»

Immediatamente, la giovane indietreggiò, facendo attenzione a non finire intrappolata tra due automobili. Lo sconosciuto si muoveva in modo apparentemente sicuro, segno che, forse, era meno ubriaco di quello che aveva temuto. Allo stesso tempo, però, le sembrava che parlasse in modo leggermente impacciato, come se avesse la lingua impastata. In ogni caso, è meglio non approfondire la faccenda.

«Che cosa vuoi? Non ci conosciamo, lasciami in pace» gli ordinò, facendo del proprio meglio per mantenere un tono di voce ragionevole, ma fermo.

L’uomo si passò una mano tra i capelli scuri, come se l’osservazione della giovane l’avesse messo a disagio. «Sì, lo so, però… prima ti sono venuto addosso. Volevo scusarmi.»

Caterina deglutì. «Scuse accettate» disse, un po’ troppo in fretta. «Adesso sparisci.»

Così dicendo, la ragazza si incamminò decisa verso l’ingresso del locale, cercando di superare l’uomo sulla sinistra. Quello, però, allungò rapidamente una mano e la richiuse sul braccio della giovane. «No, aspetta un attimo. Voglio…»

Senza lasciargli il tempo di terminare la frase, Caterina ritrasse di scatto il proprio braccio. «Lasciami immediatamente!» sibilò, sentendo la paura mescolarsi alla rabbia. Forse avrebbe dovuto veramente urlare per attirare l’attenzione. O forse avrebbe dovuto prenderlo a calci, e al diavolo le conseguenze.

Per tutta risposta, l’uomo ridacchiò, apparentemente divertito. «Va bene, va bene, non ti tocco» disse, sollevando le mani come per dimostrare di essere innocuo. «Tu però me lo dici, il tuo nome?»

«No!» sputò lei, trovando oltraggioso il fatto che quel tizio osasse farle una richiesta del genere.

«Ma…»

«Allontanati immediatamente da quella ragazza.»

Le proteste del giovane vennero interrotte da una voce profonda. Alzando lo sguardo oltre le spalle dello sconosciuto, Caterina vide Hasim, uno dei buttafuori del Dream, avanzare a grandi passi verso di loro. L’uomo aveva conosciuto Alessandra durante un’esibizione della ragazza e da allora erano diventati amici: era stato lui a darle il contatto del gestore del Dream, dicendole che c’era la possibilità di farsi conoscere da un nuovo pubblico. Caterina l’aveva già incrociato un paio di volte, in passato, e le era sembrato una persona per bene, ma mai come in quel momento era stata felice di vederselo comparire davanti.

L’uomo che aveva cercato di approcciarla si voltò di malavoglia verso di lui. «Non sto facendo niente» gli disse, con la voce che tradiva tutto il fastidio di essere stato interrotto.

Senza nemmeno ascoltarlo, Hasim lo raggiunse e lo superò, frapponendo tra lui e Caterina tutta la sua ragguardevole stazza. «Ti ha dato fastidio?» chiese, chinandosi leggermente per incontrare gli occhi della giovane.

Caterina esitò appena un istante, poi si strinse nelle spalle. «Non più di tanto» replicò. Per qualche ragione, l’idea di confessare all’uomo la paura che l’aveva assalita la metteva a disagio. Si sentiva decisamente più tranquilla, ora che lui era al suo fianco e, a conti fatti, quell’idiota non aveva fatto nulla di eccessivamente minaccioso. Forse perché non ne avuto il tempo, si disse, soffocando però subito il pensiero.

«Ne sei sicura?» insistette Hasim, gli occhi neri luminosi nel buio della notte.

Caterina gli posò una mano sul braccio e gli sorrise. «Assolutamente» lo rassicurò. «Potresti riaccompagnarmi dentro, però? L’Ale penserà che mi sono persa…»

Caterina non si voltò mai, mentre il buttafuori la scortava verso l’ingresso del locale, ma era assolutamente certa che gli occhi dell’altro uomo la stessero ancora seguendo.

   
 
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