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Autore: Dark Sider    03/05/2019    9 recensioni
Jonathan, sarcastico e disadattato insegnante di letteratura, noleggia un misterioso libro dalla biblioteca della scuola, al cui interno vi è un'inquietante lettera a lui indirizzata: una donna gli dichiara il suo folle amore e gli concede una settimana di tempo per trovarla, altrimenti si suiciderà. Jonathan inizia allora delle ricerche che lo porteranno a percorrere un agghiacciante sentiero. In tutti i sensi.
[Terza classificata al contest "Abbia inizio la caccia alle uova di Pasqua" indetto da MaryLondon sul forum di EFP]
Genere: Angst, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.

 

Inizialmente, spalancai la bocca e rimasi immobile, con la testa poggiata sul cuscino ed un’espressione atterrita in volto; dopodiché iniziai ad urlare: gridai così tanto che la gola mi fece male e sentii le corde vocali bruciare per lo sforzo. Solo allora mi costrinsi a tacere. Mentre m’imponevo di mantenere la calma, mi accorsi di averla già persa del tutto e da parecchio tempo.

Mi domandai se la mia visita al parco non fosse stata tutta un sogno, poiché era l’unica spiegazione razionale e plausibile che mi veniva in mente. Tuttavia, ero parecchio sicuro di essermi diretto davvero in quel luogo, quindi dovevo far fronte all’assurda realtà secondo la quale il libro era tornato da me in qualche modo.

In preda al panico e all’angoscia, feci la prima ed una cosa che mi venne in mente: chiamai Charlie. Non sapevo perché lo stessi facendo, non sapevo perché proprio lei: forse perché si ha sempre bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi nei momenti peggiori della vita, e lei era l’unico essere umano con cui avevo avuto un contatto al di fuori dell’ambito professionale, seppur minimo.

«Jonathan, sentivi la mia mancanza?» rise Charlotte, quando rispose alla mia chiamata.

Le mani mi tremavano talmente tanto che faticavo a tenere il telefono attaccato all’orecchio e, no, non sentivo assolutamente la sua mancanza. «Sto impazzendo» esalai.

Tutta la giovialità scomparve dalla voce della mia interlocutrice e, anche se non potevo vederla in faccia, ne potevo immaginare il viso tirato e preoccupato. «Cosa stai dicendo?!»

«Ieri ho lanciato quel maledettissimo libro nel lago del parco, per tentare di liberarmene, e stamattina, al mio risveglio, me lo sono ritrovato sul comodino. Capisci?»

«No, Jonathan, in realtà temo di non capire molto bene» rispose Charlotte, titubante, come se stesse ponderando l’eventualità di farmi un T.S.O. Non potevo biasimarla: quella faccenda sembrava assurda persino a me che la stavo vivendo, figurarsi a qualcuno che se la sentiva raccontare.

«Senti, lo so che ti sembra assurdo, ma questo libro mi sta perseguitando.»

«Se è uno scherzo, lo trovo di pessimo gusto.» Il tono di Charlotte, ora, era torvo e tirato e potevo percepire una nota di terrore aleggiare nelle sue parole. In quel momento, mi resi conto di quanto fossi stato sciocco a chiamarla e credere che avrebbe compreso. Che mi avrebbe creduto. Non mi credevo nemmeno io: quelle erano cose da film horror, non da vita reale.

Mi costrinsi ad una risata, che non sarebbe potuta uscirmi più tirata ed artefatta. «Mi hai scoperto: era uno scherzo» esclamai, cercando di risultare allegro e gioviale. «Ti consiglio di leggere quel libro, comunque: è molto bello» aggiunsi, per poi chiudere la chiamata. Dopo pochi istanti, il cellulare squillò e sul display comparve il nome di Charlotte. Ignorai la chiamata e fissai il libro: mi convinsi che l’unico modo per liberarmene era arrivare fino in fondo a quel mistero, che ora mi sembrava più macabro che mai.

Avrei anche potuto sforzarmi di ignorare la vicenda e cercare di tornare alla mia vita: dopotutto, si trattava solamente di un insieme di fogli di carta messi insieme. Che male avrebbero potuto farmi? Avrei dovuto imparare a convivere con la costante presenza di quel volume, ma non mi sembrava difficile da fare. Potevo riuscirci. Di nuovo, ero dinanzi ad un bivio.

La vita è una questione di scelte e di destino. Ci si può illudere di aver preso una decisione nel pieno del libero arbitrio, ed invece è il fato ad intervenire costantemente per guidarci: scegliamo sempre quello che ci porta ad essere dove dobbiamo essere, nel momento esatto in cui deve accadere. Tempo fa non ci credevo, ma questa vicenda mi ha insegnato molte cose, prima fra tutte che catene invisibili legano i nostri polsi, dimenandoci come burattini impazziti.

Quella mattina ancora non lo sapevo, perciò mi arrabattavo sulla scelta da fare, senza rendermi conto che in realtà avevo già deciso. Senza quasi accorgermene, mi ritrovai seduto dinanzi al mio portatile, a fare ricerche approfondite sulla leggenda della dama nera, su libri maledetti e su una commistione di entrambe le cose. Non trovai altro sul misterioso fantasma, se non ciò che avevo già letto il giorno precedente, e di tutti i miti su volumi maledetti, nessuno sembrava collegato ad esso o a qualcosa di simile.

Frustrato e senza speranza, ripresi il libro tra le mani e lo sfogliai, in cerca di qualcosa che m’era sfuggito e che potesse aiutarmi a fare chiarezza. Misi anche le pagine in controluce, per vedere se ci fosse qualche messaggio nascosto nella filigrana.

Alla fine, dovetti arrendermi all’evidenza che non avevo con me altro che una macabra storia, una lettera ancora più raccapricciante ed una leggenda. Giunsi alla conclusione che sarei impazzito prima di svelare l’arcano.

Al tramonto, tornai di nuovo al parco e ancora una volta non accadde nulla. Mi attardai fin quasi a mezzanotte, immobile vicino al lago, infreddolito dalla brezza notturna. Nessuno arrivò.

Continuai a tornare in quel luogo ogni giorno, ossessionato e sempre più convinto che qualcosa dovesse succedere. Charlie non mi aveva più chiamato: probabilmente era giunta alla conclusione che non le importasse nulla dei miei deliri.

Dovettero trascorrere cinque giorni, altri cinque miserabili giorni a crogiolarmi nella mia pazzia e nell’ansia di un qualcosa di definitivo che non si decideva ad accadere, prima che succedesse qualcosa. Nel settimo giorno esatto da quando avevo trovato il libro, mi diressi al parco come sempre. Era il tramonto ed una moltitudine di persone affollava i viottoli.

Con il libro sottobraccio, mi diressi al lago in un automatismo acquisito in quella lunga settimana e al quale non facevo nemmeno più caso. La superficie increspata dal lieve vento che spirava era cremisi, come se qualcuno avesse sostituito l’acqua col sangue: quando mi sporsi, il mio riflesso tremulo mi restituì uno sguardo stanco e folle e, per un assurdo istante, ebbi l’impressione che stesse invitandomi a buttarmi. Se lo farai, tutto questo finirà, pareva dirmi. Non vuoi che finisca? Ovviamente, non c’era nulla che desiderassi di più al mondo, in quel periodo della mia vita, ma avevo ancora abbastanza lucidità in corpo da staccarmi con impeto dal parapetto e non cedere a quelle allettanti assurdità.

Mi riscossi: m’accorsi di essere solo e che non avevo più il libro con me; in un primo momento ne fui sollevato, poi terrorizzato.

Il tramonto era svanito, lasciando posto alla notte, in un repentino passaggio che m’era chiaramente sfuggito. L’umidità era palpabile ed il silenzio, calato sul parco a cancellare persino il cinguettio degli uccelli, era sinistramente inquietante.

Una fitta nebbia salì d’improvviso ad avvolgere ogni cosa, rendendola indefinita. La massa scura del lago era solo uno sfocato miraggio in quel surreale biancore. Il mio corpo reagì con i segnali tipici della paura: battito accelerato, sudorazione e peli dritti sulle braccia; eppure io, emotivamente, non sentivo nulla. Non riuscivo a provare niente, se non una calma apatia che mi spingeva a rimanermene immobile, in attesa.

Un violento brivido fu l’ultimo segnale d’avvertimento che il mio istinto di sopravvivenza tentò di inviarmi, poi anche il mio corpo si rilassò, quasi si fosse arreso.

La repentina raffica di vento, che si levò a far frusciare le fronde degli alberi attorno a me, portò con sé un intenso e pungente profumo di violette, così inebriante da stordirmi. Mi guardai attorno, consapevole che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di sconvolgente, ma incapace di razionalizzare davvero quella realtà.

I lampioni del parco erano spariti, sostituiti dalle timide fiammelle di candele, che baluginavano a delineare i contorni dei sentieri, fendendo la nebbia e gettando oblunghe ombre sinistre sull’acciottolato.

Mi mossi verso quella che ritenni essere la strada maestra, in un trasognato tentativo di tornare alla mia macchina, senza volerlo davvero. Ad ogni passo, il profumo di violette si faceva più intenso, come se la fragranza volesse catturarmi in quel luogo ed impedirmi di lasciarlo.

Un improvviso fruscio alle mie spalle mi fece voltare di scatto: il cuore mi traboccò di costernata gioia nell’individuare una figura scura, che incedeva lentamente accanto al lago, persa nella nebbia; non stava avanzando verso di me, ma percorreva un cammino tutto suo, apparentemente ignara della mia presenza. Istintivamente, mi avvicinai con urgenza, spinto da un impetuoso desiderio.

Quando fui a pochi passi da lei, la figura s’arrestò di colpo e ruotò su se stessa con una lentezza esasperante, che fece ruggire d’impazienza la mia trepidazione. Dinanzi, mi ritrovai una donna che indossava un sontuoso abito nero che le ricadeva fino ai piedi, a disegnare morbidamente le forme di un corpo che s’intuiva essere assolutamente perfetto, anche se celato. Il volto era coperto da un pesante velo nero, che ne nascondeva le fattezze: il respiro lieve ne increspava il tessuto, come una tenda mossa da un leggero vento. Era la donna del mio sogno e, com’era accaduto quando l’avevo vista nel sonno, sapevo che era bellissima anche se non potevo guardarla in viso.

Non volli scappare e nemmeno per un istante provai una sensazione di pericolo: solo placida calma. Ero felice e finalmente appagato.

La dama nera prese a camminare verso di me, coprendo la poca distanza che ci separava; il suo viso arrivò quasi a sfiorare il mio ed il profumo di violette divenne talmente intenso che per un istante persi la cognizione di ciò che avevo attorno. Quando tornai in me, trovai la donna immobile, così vicina che avrei potuto baciarla allungando appena il collo, eppure non riuscivo a scorgere ancora nulla del suo viso, neppure a quella distanza così ravvicinata.

Completamente privo di resistenza davanti al fascino di quella misteriosa donna, non potei far altro che accettare la mano pallida che lei mi porse, stringendola con febbricitante aspettativa. La sentii fredda, talmente tanto che il gelo mi serpeggiò fin nelle ossa, facendomi rabbrividire.

La dama nera cominciò ad avanzare lentamente ed io mi lasciai condurre; percorremmo zone del parco che ero sicuro di non aver mai visto. Incedemmo nei meandri di quel luogo improvvisamente nuovo e sconosciuto, tra laghetti e ponti, tra fontane ed angoli nascosti, tra le piante e lungo i viali. Era tutto così idilliaco e perfetto, così paradisiaco da non poter essere reale, eppure un senso di tranquillità e beatitudine continuava a pervadermi.

«Finalmente vi ho trovata, mia signora» mormorai, come se l’avessi sempre cercata, come se avessi anelato a lei per tutta la vita. La donna continuò ad avanzare senza degnarmi di uno sguardo, ed io dovetti accontentarmi di fissare la sua schiena dritta e sensuale, pur ammantata di nero.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato in ciò che stava accadendo, qualcosa di pericoloso: forse una parte della mia mente ne era consapevole, ma al resto di me non importava.

Camminammo per un tempo indefinito, che non seppi quantificare: non ero stanco, né affamato o assetato, sebbene proseguimmo per quelle che inizialmente mi parvero ore, poi forse ere. La nebbia aleggiava ancora sorniona a coprire ogni cosa, eppure la donna si muoveva con sicurezza, come se conoscesse la strada senza bisogno di vederla.

D’improvviso, mi ritrovai dinanzi ad un cancello di ferro, alto circa tre metri. Al di là delle sbarre potei scorgere quello che sembrava un parco e, più in lontananza, il profilo di un’imponente villa dall’aspetto molto antico. Istintivamente, mi voltai con aria interrogativa a guardare la dama nera: nonostante fosse impossibile scorgere il suo sguardo dietro il velo, ne percepii comunque una profonda tristezza; ella non stava guardando me, ma dinanzi a sé, forse persa nella contemplazione della casa.

D’un tratto, dalla veste, la donna estrasse una grande chiave ricoperta di ruggine, con la quale aprì il cancello. Solo allora m’accorsi che mi aveva lasciato la mano: sarei potuto scappare, se solo avessi voluto. Ma non volli. L’inferriata si dischiuse con un cigolio penoso quando lei la spinse; dopodiché mi riprese la mano e mi condusse attraverso un lungo vialetto e, infine, davanti alla porta della villa.

Questa volta, non adoperò alcuna chiave per entrare, ma spinse semplicemente il pesante portone, come se non stesse facendo alcuna fatica per compiere il gesto, e quello s’aprì con silenziosa innaturalità.

Entrammo e ci ritrovammo in una grande sala, che non potei analizzare con attenzione poiché la dama nera prese a condurmi nel palazzo, interamente illuminato dalla luce di decine di candele che, con la loro fiamma tremula, mostravano pareti listate a lutto e saloni di marmo e stucco ricoperti da insegne funebri.

La donna mi portò in un ampio salone centrale; ancor prima d’entrare, potei avvertire la musica innaturale che proveniva dal suo interno: era una melodia dolce, quasi un valzer, eppure uno stridore sinistro tra le note ne rivelava la natura tutt’altro che umana. Quando entrammo, il mio sguardo si scontrò con una stanza similare alle altre, sempre illuminata da candele e sempre ornata con panneggi luttuosi. In un angolo un’orchestra, composta da allampanati ed impassibili uomini in eleganti frac d’altri tempi, suonava una melodia che sembrava andare avanti da sempre. Nessuno dei musicisti si voltò a guardarci quando entrammo, concentrati nel mantenere l’armonia di quella ballata, le candele a illuminare sinistramente la loro pelle pallida tirata su volti lunghi ed ossuti che li facevano somigliare a maschere orientali.

Se ebbi paura, non ne ho memoria. La dama nera, senza mai lasciare la mia mano, iniziò a muovere i primi passi di un ballo in cui presto mi lasciai trascinare e che si trasformò in fretta in una vorticosa ed allucinata danza. Sentivo di non avere più il controllo di me stesso o del mio corpo, come se mi trovassi in un profondo stato di trance; stavo ballando una danza di cui non conoscevo i passi come se non avessi fatto altro per tutta la vita. Non esistevano che la splendida donna che volteggiava con me e quella musica ultraterrena che avvolgeva i nostri corpi, sospingendoci in leggiadri volteggi.

Lei era così vicina al mio viso da poterne sentire il respiro leggero, regolare pur nella frenesia del ballo; il suo profumo di violette, che sembrava provenire dalla sua stessa essenza, mi avvolgeva completamente. Non riuscivo a staccare gli occhi da lei, e non potevo fare a meno di continuare a fissare il velo, che le celava il viso, sollevarsi di pochi centimetri senza mai scoprirlo.

Danzammo per un tempo ignoto: non provavo stanchezza, né titubanza; perdutamente innamorato, ero privo di qualunque desiderio che non fosse quello di stare al fianco di lei. Desiderai che quegl’istanti non finissero mai, che quella danza frenetica e passionale perdurasse per l’eternità, consumandomi tra le piroette ed i passi sicuri e sincroni che compivamo. Anelai fondermi con lei, donarle tutto me stesso, nutrirla con la mia anima ed il mio amore; dimentico di chi fossi prima di arrivare lì, non mi sentivo altro che uno strumento al servizio del suo compiacimento. Avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Davvero qualsiasi.

Quando la dama nera si fermò, la musica non cessò con la sua danza, ma continuò a perdurare, come se i musicisti non potessero - o non volessero - fermarsi. Lei mi riprese la mano con la sua, sempre fredda, e mi condusse fuori dal salone. Ben presto, ci lasciammo alle spalle la melodia che aveva accompagnato la nostra accalorata danza. Stanze e corridoi, che mi parevano tutti uguali, si susseguivano in uno schema monotono e senza fine; le ampie vetrate mi restituivano la vista di una notte eterna abbracciata da una nebbia sempre più fitta.

D’un tratto, lei si fermò dinanzi ad una porta, mi lasciò la mano e l’aprì. Mi condusse in una stanza da letto, scura per le poche candele che la illuminavano. La donna non disse nulla, ma s’avvicinò al baldacchino e si voltò verso di me. Il mio cuore accelerò i suoi battiti ed una subitanea eccitazione s’impadronì del mio corpo, che aveva compreso cosa stava per accadere ancor prima della mente abbacinata.

La dama si spogliò lentamente dinanzi a me. Lasciò cadere le vesti con una lentezza quasi esasperante, rivelando a poco a poco un corpo paradisiaco, molto più bello e sensuale di quello che avrei mai potuto immaginare. Rimase immobile, nuda e bellissima a fissarmi, in attesa. Indossava ancora il velo.

Come trasognato, mi avvicinai a lei, sentendomi fluttuare. Quasi non mi resi conto che avevo iniziato a spogliarmi anch’io e mi ritrovai unito a lei in un lungo amplesso senza nemmeno sapere come fosse accaduto. Fu meraviglioso: migliore di qualsiasi cosa mi fosse mai capitata nella vita, migliore persino della danza che aveva preceduto quel momento. Migliore di qualsiasi cosa terrena: vagamente constatai che quella donna non poteva appartenere a questa realtà, che dovesse venire da altrove; fu un pensiero fugace, annegato dal piacere e dalla foga del momento. Come in precedenza, persi la cognizione del tempo, beandomi del suo corpo che era freddo eppure accogliente, delle sue forme perfette e dei movimenti del suo bacino che accompagnavano i miei. Quando il mio piacere esplose dentro di lei, quasi fui colto dal pianto per la disperazione dovuta alla fine di quell’idilliaco momento.

Mi lasciai cadere accanto alla dama, vinto da una quieta spossatezza, il profumo di violette ad aleggiare tra le lenzuola sfatte e nere del letto, che esaltavano il suo corpo pallido, muovendomi dentro la primordiale voglia di possederla di nuovo. Ma, soprattutto, mi colse un irrefrenabile moto di curiosità nel voler vedere il suo volto, nel voler sollevare il velo e scoprire ciò che esso celava, sicuramente paradisiaco.

Di nuovo, avrei potuto andarmene e, di nuovo, non volli. Invece, la guardai, sdraiata sul letto e forse addormentata, e m’avvicinai al suo volto; accostai dita tremanti al velo e per un istante esitai. Sei sicuro di non volertene andare? mi domandai, titubante. Certo che sì, mi risposi subito dopo: il destino m’aveva fatto incontrare una donna di tale meraviglia, ed io avrei dovuto abbandonarla? Se era davvero lei la misteriosa autrice della lettera a me indirizzata, non potevo che essere felice d averla cercata e di essere riuscito a trovarla.

Afferrai con delicatezza il bordo del velo e lo sollevai.

Quello fu il momento in cui appresi che la vita ha una sua macabra ironia e che qualunque nostro tentativo di opporci al suo sadismo è inutile.

Quando vidi il teschio rinsecchito e dalle orbite vuote, che era il viso della dama nera, voltarsi lentamente nella mia direzione, mi resi razionalmente coto di essere in un pericoloso incubo; il mio istinto, tuttavia, pareva come impazzito e voleva tenermi inchiodato in quel luogo. Mi tirai a sedere sul letto e fu tutto ciò che fui in grado di fare: non scappai via, non gridai. Non feci assolutamente nulla.

La donna, che ora si rivelava nella sua scheletrica forma da morto, mi imitò: le sue splendide forme erano sparite, sostituite da ossa annerite dal tempo. Il teschio sembrava sorridermi, mentre filamenti stopposi di capelli gli aleggiavano intorno, come sospinti da una forza invisibile.

Poi lei parlò, e la sua voce risuonò dolce e calda, ma distante, come se provenisse da un altro luogo.

«Mio amato Gregor, ognuno di noi si trova dove è per via delle scelte che ha compiuto. Che fossimo in classe insieme non è stato un caso. Per scrivere questa lettera d’addio ho scelto un testo qualsiasi preso in biblioteca e tu, a cui piace leggere, hai selezionato proprio questo libro e poi hai deciso di venirmi a cercare. L’universo si è mosso affinché noi ci incontrassimo.» Mi accorsi che aveva il libro dalla consunta copertina rossa in grembo, stretto tra le mani ossute ed aperto alla pagina dell’epistola a me indirizzata. Le sue furono parole scandite con lentezza, come se dovessi comprenderle bene e non dimenticarle mai più: erano ferme e definitive, come una sentenza ineluttabile emessa da un giudice supremo.

Una scarica di puro terrore mi attraversò il corpo, donandomi un minimo di lucidità. «Io non mi chiamo Gregor» esalai, senza nemmeno sapere dove avessi trovato la forza per parlare.

Lei rise biecamente. «Sapevo che il mio amore era ricambiato, sapevo che non mi avresti lasciata morire in nome di un sentimento condiviso. Tu mi hai sempre amata, lo vedevo da come mi guardavi in classe, lo capivo da come mi parlavi. Non sei stato sordo alle mie richieste, ed il destino ha fatto in modo che noi ci rincontrassimo e ci congiungessimo qui, dove eternamente ed indissolubilmente rimarremo insieme.»

Avrei voluto ripeterle che non ero Gregor e che ciò che stava accadendo era un assurdo delirio. Avrei voluto davvero, ma tutto ciò che uscì dalla mia bocca fu: «Mia amata Josephine, non desidero altro che rimanere con te per l’eternità». Non sapevo dire come fossi consapevole della sua identità, ma ero certo che si trattasse davvero di lei e non avevo alcun dubbio a riguardo.

Lo scheletro annuì e colsi una sorta di compiacimento nel suo gesto. In un momento imprecisato di quella surreale conversazione, il libro rosso era scomparso, sostituito da un pugnale con la lama scarlatta e l’impugnatura d’argento finemente decorata. Compresi che la mia ora fosse giunta, ma non ne fui terrorizzato: non riuscivo a muovermi, riuscivo solamente a rimanermene lì, ad attendere la mia fine quasi con trepidazione. A desiderare di trascorrere l’eternità con la mia amata Josephine Collins, che aveva scritto un libro su di noi ed una lettera per me, che non ero più Jonathan, ma Gregor.

Fu il mio cellulare che squillava a riportarmi alla realtà, a riscuotermi. Mi alzai di scatto dal letto, improvvisamente lucido e consapevole, e mi avventai sui jeans, estraendo dalla tasca il telefono come se fosse la mia unica salvezza. Sto sognando, è tutto un sogno, continuavo a dirmi, sperando che ripeterlo avrebbe fatto scomparire quell’allucinazione.

Guardai il display: Charlie mi stava chiamando, chissà da dove, chissà da quale realtà. Josephine Collins stava per uccidermi e Charlotte Stevens mi stava salvando la vita.

La dama nera non fu felice della mia presa d’iniziativa e con un grido stridulo, che s’addiceva più ad una bestia che ad un essere umano, s’avventò su di me con una rapidità inaudita. Io mi mossi altrettanto celermente, correndo verso la porta e pregando di non trovarla chiusa a chiave: fortunatamente la serratura scattò quando abbassai la maniglia e potei uscire sul freddo corridoio.

Non mi voltai mai indietro a guardare quanto distante fosse il mostro immondo che mi stava inseguendo. Nudo e non sapendo bene dove andare, correvo con i piedi scalzi ad impattare dolorosamente sulla gelida pietra: mi dissi che era così che dovevano sentirsi gli uomini nella preistoria, quando fuggivano da bestie molto più possenti e feroci di loro. Cercai di percepire il suono della musica dell’orchestra, di modo che mi aiutasse ad orientarmi, ma tutto ciò che sentivo era lo squillo martellante del cellulare che ancora stringevo in mano.

«Gregor! Mio amato Gregor, dove stai andando?» mi gridava dietro la dama nera e la sua voce, unitamente all’odore di violette, trasformatosi ora in un rancido fetore di fiori marciti, era tutto ciò che riuscivo a percepire di lei.

Continuai a correre a perdifiato lungo corridoi e stanzoni che mi parevano sempre uguali, lugubri con le candele ad illuminare le loro funeree decorazioni. Avevo il fiatone e la milza mi pulsava dolorosamente, così come i muscoli delle gambe, sottoposti ad uno sforzo considerevole. Morirò qui, mi dissi, ed un velo di lacrime scese ad appannarmi la vista. È esattamente qui che morirò, e nessuno mi troverà mai.

«Vieni da me, mio amato: il nostro destino è stare insieme per sempre!» stridette Josephine Collins e mi parve di sentire la sua voce ancora più vicina. Il cellulare non smetteva di suonare e credetti che i suoi squilli penetranti mi avrebbero fatto impazzire.

Improvvisamente, come un miracolo, udii una musica lontana, come di un valzer ultraterreno, e ne seguii la scia con rinnovata speranza. Ben presto, mi ritrovai nella stanza in cui l’orchestra suonava la sua melodia eterna: nemmeno in quel caso i morti si voltarono a guardarmi, ma continuarono a seguire il direttore in una sincronia perfetta.

«Gregor, perché te ne stai andando? Perché vuoi abbandonarmi?»

Scacciai le lacrime che continuavano ad affollarsi e strinsi i denti. Non volevo morire, non in quel momento ed in quel luogo. Mi domandai perché il mio cellulare continuasse ancora a squillare e mi venne da chiedermi quanto tempo fosse effettivamente trascorso.

Quando giunsi in vista del pesante portone d’ingresso, mi parve quasi un miraggio. «GREGOR!» gridò disperatamente la dama nera, terribilmente vicina a me. Afferrai i pesanti battenti e tirai; in un primo momento nulla si mosse e fui certo che per me non ci fosse più nulla da fare, poi le ante si aprirono con un penoso stridio, che tuttavia non riuscì a superare quello rabbioso che lanciò Josephine Collins, così prossima a me che sentii lo sferzare della lama del pugnale mancarmi la schiena per pochi centimetri.

Mi catapultai fuori, nel freddo umido della notte e tra la nebbia fitta. Un silenzio innaturale mi circondava e mi sentii perduto, tuttavia continuai ad avanzare, sospinto dalla forza della disperazione.

Impattai contro qualcuno dove avrebbe dovuto esserci il cancello. Caddi all’indietro e gridai, mentre il cellulare smetteva di squillare.

«Jonathan!» mi urlò Charlotte, scuotendomi per le spalle. Quando mi resi conto che era lei la persona con cui ero andato a sbattere, smisi di gridare e rinsavii del tutto. Mi guardai attorno, con l’adrenalina ancora in corpo e la tachicardia: mi trovavo vicino al lago e la nebbia era scomparsa.

«Stai bene?» volle sapere Charlie, aiutandomi a rimettermi in piedi. Quella fu la prima volta in cui mi vide nudo: davvero una bizzarra circostanza. Non che sembrasse importarle più di tanto.

Sentivo le gambe malferme e non ero certo che sarei riuscito a non svenire. Mi costrinsi ad annuire, ma la verità era che non stavo affatto bene e non ero ancora riuscito a comprendere del tutto cosa mi fosse accaduto.

Fu Charlotte ad illuminarmi, alcune ore ed una doccia dopo, seduti sul divano del mio salotto, con Rufus a pulirsi il pelo ai miei piedi, come se per lui il mondo avesse girato sempre allo stesso modo. Probabilmente era anche vero.

«All’inizio ho pensato che stessi esagerando con quella storia del libro» mi spiegò Charlotte, con una tazza di tè bollente stretta in mano. «Poi mi hai fatto quella strana telefonata in cui mi dicevi che il libro ti perseguitava. La prima cosa che ho pensato è che fossi impazzito, ma ho deciso comunque di fare delle ricerche approfondite. Ho girato praticamente tutte le biblioteche disponibili. Alla fine, ho trovato un vecchio tomo che riportava alcune leggende poco conosciute, tra cui una che aveva molti punti in comune con la tua vicenda: agli inizi del Novecento, una giovane donna di nome Josephine Collins scrisse un manoscritto che raccontava la tormentosa storia del suo amore non corrisposto verso un uomo, che l’avrebbe portata prima alla pazzia, e poi al suicidio. Insieme al manoscritto, scrisse anche una lettera indirizzata all’uomo in questione, Gregor Smith, in cui gli concedeva una settimana di tempo per congiungersi a lei e coronare il loro amore; in caso contrario, si sarebbe suicidata. Gregor Smith non diede adito alla missiva contenuta nel libro che ricevette e bruciò tutto, considerandolo il delirio di una pazza. Josephine Collins si suicidò davvero una settimana dopo, maledicendo colui che aveva amato e tutti gli uomini. La leggenda narra che il manoscritto si sia riformato dalle sue stesse ceneri, per la forza della maledizione da lei lanciata, e che si faccia trovare da uomini che hanno una passione per la lettura, come Gregor Smith: costoro sono inspiegabilmente attratti dal libro e nella lettera in esso contenuta trovano sempre qualche particolare che li induce a credere che sia rivolta a loro. Josephine Collins li attira a sé per mezzo del tomo e poi li uccide, credendoli Gregor Smith, in cerca del coronamento dell’amore eterno.»

Rimasi a fissarla per un tempo indefinito, incapace di proferire parola. Mi sembrava tutto tremendamente assurdo, come se Charlie mi stesse raccontando la trama di un film dell’orrore. Peccato che non si trattasse di un film e che fosse accaduto davvero - a me, per giunta -, anche se faticavo ancora a crederlo.

«Come mi hai trovato?» riuscii a domandare, infine, attonito.

«La dama nera viene sempre avvistata in un parco, mentre passeggia al tramonto. Ti ho chiamato parecchie volte, oggi, ma non hai mai risposto, così ho pensato di venirti a cercare.»

«Davvero?!» Ero stupito, non avevo mai sentito il mio cellulare squillare. Probabilmente faceva parte del sortilegio.

Charlotte annuì. «Sono passata a casa tua, ma non c’eri: ho iniziato a preoccuparmi, così sono venuta al parco, pensando che ti avrei trovato lì, se anche tu avevi fatto ricerche sulla dama nera; infatti ho visto la tua macchina. Ti ho cercato ovunque, ma non sono riuscita a trovarti, perciò ti ho chiamato e dopo un po’ ti ho visto correre verso di me, nudo ed in preda al panico. Sei letteralmente comparso dal nulla e quello è stato il momento in cui ho smesso di crederti pazzo.»

Raccolsi le forze e raccontai a Charlotte ciò che mi era accaduto, per quanto mi apparisse assurdo. Più ne parlavo e più mi sembrava surreale, eppure sputare fuori quelle parole mi aiutò a metabolizzare l’avvenimento. Conclusi che ero stato davvero molto fortunato: se Charlotte non mi avesse chiamato, sarei certamente stato ucciso; poi mi dissi che probabilmente non era quello il mio destino di morte, perciò gli eventi s’erano congiunti affinché mi salvassi.

Non chiesi mai a Charlie cosa pensasse di quella storia, se anche a lei pareva tutto assurdo o se ci credesse davvero. Non lo chiesi mai nemmeno a me stesso. Non ne parlammo più.

Per un po’, andai da uno psicologo, sperando che mi aiutasse a disfarmi dell’angoscia e degli incubi che quella brutta esperienza mi aveva lasciato, ma l’unica cosa di cui riuscii a liberarmi furono un bel po’ di dollari, così lasciai perdere.

Un mese dopo il mio brutto incontro con la dama nera, chiesi a Charlotte di uscire. Ci sposammo l’anno successivo. Fare sesso con lei non è mai stato bello come con Josephine Collins, ma per lo meno Charlie non vuole uccidermi. E poi è una persona davvero piacevole. A breve nascerà il nostro primo figlio, ed io non potrei essere più felice.

Ho lasciato perdere con la lettura e mi sono dato ad hobby completamente diversi: ho provato con la pittura, ma non sono affatto portato. Ogni tanto vado a pesca, o a fare lunghe passeggiate. Ho regalato tutti i libri che avevo in casa e ho a che fare con un volume solo nelle mie ore di insegnamento, proprio perché non ne posso fare a meno. Non credo di voler mai più vedere un foglio con qualcosa scritto sopra in tutta la mia vita, a meno che non sia strettamente necessario.

Alla fine, sono riuscito a diventare l’uomo normale che Wilson tanto decantava: ho una moglie, una bella casa, faccio pasti veri ed ho sempre i vestiti puliti ed in ordine. Ho una persona accanto con cui litigare su quale film vedere la sera e da baciare la mattina quando mi sveglio. Tutto sommato, non mi dispiace come vita. La cosa divertente è che devo ringraziare Josephine Collins per questo: se non mi fossi imbattuto nella sua maledizione, certamente non avrei mai trovato il coraggio o la voglia di chiedere a Charlie di uscire.

In linea di massima, la mia esistenza scorre ordinaria e tranquilla. Va tutto bene, se non fosse che ogni tanto, di notte, faccio un sogno. Una donna vestita di nero passeggia in riva ad un lago, al tramonto: profuma di violette ed ha il volto celato da un velo. È bellissima mentre si avvicina e mi prende per mano, trascinandomi in una frenetica danza sensuale al ritmo di una musica di un altro mondo. Mentre balliamo, mi si accosta all’orecchio e mi sussurra: «Mio amato Jonty», e la carezza del suo alito sulla mia pelle è così reale e la sua stretta sulla mia vita così concreta che mi pare davvero di essere lì.

Potrei andarmene, se volessi. Solo che non voglio. E la musica ci trascina lontano, in un’eternità fatta di volteggi e sospiri.

 

  
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