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Autore: Dark Sider    16/05/2019    9 recensioni
Ethan, scontento della sua vita perfetta, ed Aiden, felice della sua vita imperfetta. Due personalità opposte, apparentemente con nulla in comune, ma che riusciranno a trovare un terreno di condivisione in cui far sbocciare il loro amore. Ed Ethan, scontroso misantropo pieno di negatività, imparerà a sue spese che l’amore, quello vero, può fare tanto bene quanto male, e che può andare oltre qualsiasi ostacolo o barriera.
[Seconda classificata al contest "With or without you - Con o senza di te -" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP e giudicato da missredlights]
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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2.

 

 

Jason, che era andato a cercare Ethan dopo averlo visto uscire precipitosamente e non tornare, insistette per accompagnarlo in ospedale, giudicandolo assolutamente non in grado di mettersi alla guida e facendo probabilmente la prima azione saggia di tutta la sua vita.

Ethan non si oppose né protestò: dopo aver spiegato brevemente all’amico cos’era accaduto, quasi mosso da una forza esterna che parlava a posto suo, s’era chiuso in un rassegnato silenzio e se ne stava immobile e rigido, incapace di comprendere cosa gli stesse succedendo intorno, avvertendo solamente una sorda sofferenza all’altezza del petto, una pugnalata intensa e continua, che gli rendeva difficile persino respirare. Avrebbe voluto gridare, oppure piangere, ma non ci riusciva, come se fosse cristallizzato nel suo stesso dolore e non fosse in grado di fare nulla.

Non si rese conto di cosa accadde dal tragitto dall’università all’ospedale, né come effettivamente ci arrivò. La sua mente era come bloccata, incapace di pensare.

Giunto a destinazione, si limitò a scendere dalla macchina di Jason senza nemmeno ringraziarlo o chiudere lo sportello; raggiunse trasognato l’enorme struttura in muratura bianca che si stagliava dinanzi ai suoi occhi e seguì le indicazioni che lo zio di Aiden gli aveva fornito per raggiungerlo. Lo trovò seduto su una scomoda sedia di plastica blu, in un corridoio impregnato dell’odore di disinfettante e prodotti antisettici, dove alcune volte passavano infermieri e medici, altre persone dalle espressioni tirate e stanche.

«Cos’è successo?» domandò Ethan, avvicinandosi all’uomo che si teneva la testa tra le mani, come per paura che si staccasse e rotolasse via. Lo chiese senza inflessioni, con la voce atona e spenta, piena di stanchezza.

«Non è stata colpa di Aiden. Non è stata colpa sua, ma dell’altro: non gli ha dato la precedenza, capisci? Non ha nemmeno rallentato e gli è finito addosso» rispose Aaron, senza nemmeno guardarlo.

Al dolore, si aggiunse rabbia cieca: chiunque fosse l’altro in questione, Ethan voleva trovarlo e riempirlo di pugni fino a rompergli ogni osso che aveva in corpo, fino a farlo scomparire. Prese a camminare lungo il corridoio, con il respiro accelerato e i pugni serrati, in preda ad una profonda collera.

Continuò a camminare per molto tempo, finché non sentì le dita delle mani dolergli per la contrazione a cui erano costrette e le tempie pulsargli. Solo allora si riavvicinò allo zio di Aiden, che pareva cristallizzato in quella posa da disperato, immobile come morto; rimase a fissarlo per alcuni minuti e vide la sua figura appannarsi e sfocarsi a causa del velo di lacrime che era salito ad annebbiargli gli occhi stanchi.

«Li hai recuperati, fonendoscopio e sfigmomanometro? Lui ci tiene tanto: li hai presi dalla sua macchina?» mormorò Ethan, con la voce che iniziava a tremare e incrinarsi.

«Cosa?» chiese Aaron, sollevando finalmente la testa a fissare perplesso il proprio interlocutore, poi la comprensione giunse ad illuminarlo. «Ethan, la sua macchina era completamente distrutta: hanno dovuto estrarlo i vigili del fuoco. Non c’era nulla da recuperare, lì. Il suo cellulare, con cui ti ho chiamato, non si è rotto solo perché lo aveva in tasca.»

«Lui ci tiene tanto» ripeté Ethan, sentendo di essere sull’orlo delle lacrime, ma non riuscendo a piangere. S’immaginò Aiden che diceva: «Nessun problema», con quel suo sorriso di chi della vita ha visto solo il lato migliore, e lo stomaco ebbe una contrazione talmente dolorosa da minacciare di farlo vomitare.

«Ethan, siediti» gli intimò Aaron, forse perché l’aveva visto sbiancare.

«Ci rimarrà malissimo, quando saprà che li ha persi. Lui dirà: “Nessun problema”, ma non sarà vero. Non sarà vero proprio per niente.»

«Glieli ricomprerò, va bene? Glieli ricomprerò, ma adesso smettila!» gridò Aaron, mentre calde lacrime prendevano a rotolargli lungo il viso contratto dal dolore. «Per amor del cielo, siediti e smettila» esalò, riassumendo poi quella sua posizione da disperato, con la testa tra le mani ed il corpo scosso da singhiozzi silenziosi.

In quell’istante, Ethan comprese che forse non avrebbe mai più rivisto Aiden vivo e quella terribile prospettiva gli strappò via dall’anima qualsiasi capacità di provare emozioni, lasciandogli un denso vuoto. Si lasciò cadere sulla sedia accanto ad Aaron e non parlò più; avvertiva sempre quell’impellente esigenza di urlare e piangere, senza però riuscirci. Rimase a fissare la parete dinanzi a sé, nonostante quel bianco intenso gli facesse dolere la testa; rimase così, immobile, anche se le ore si susseguivano e lui sentiva il suo cellulare vibrare in continuazione: probabilmente sua madre lo stava chiamando per sapere che fine avesse fatto. Una parte di lui pensò che avrebbe dovuto rispondere, o avvertire qualcuno, ad un certo punto, ma un’altra parte, quella disperata e perduta, voleva solamente rimanere su quella sedia fino alla morte.

Fu Aaron a riscuoterlo, posandogli una mano sulla spalla. «Credo che qui ne avranno ancora per molto. È meglio che tu vada a casa e riposi» suggerì: aveva smesso di piangere da molto tempo e aveva riacquistato quella compostezza acquisita con anni di lavoro. «Ti avviserò quando ci saranno novità.»

Ethan scosse debolmente la testa ed artigliò i bordi della sedia, come a voler sottolineare che non aveva alcuna intenzione di muoversi da lì. Aaron abbandonò il suo blando tentativo di convincerlo ad andarsene e tornò a fissare il pavimento. In quel momento, a nessuno dei due interessava davvero qualcosa che non fossero le sorti di Aiden.

Il cellulare di Ethan vibrò di nuovo e lui lo afferrò più per esasperazione che per altro. Vide che Jason lo stava chiamando e rispose: in fondo glielo doveva.

«Tua madre mi ha chiamato per sapere dove fossi finito, era preoccupata. Sta venendo lì. Scusami, ma non sapevo davvero cosa inventarmi, quindi le ho detto la verità» borbottò Jason.

«Va bene» si limitò a rispondere Ethan. Non aveva mai detto ai suoi genitori di avere una relazione con Aiden. Non aveva mai detto loro nemmeno di essere gay. Il fatto che fossero venuti a sapere tutto avrebbe dovuto innervosirlo, ma scoprì che in realtà non gliene importava proprio nulla.

«Novità?» domandò Jason, titubante.

«No.» Ethan chiuse la chiamata, ed attese l’arrivo di sua madre.

La vide giungere qualche minuto dopo, incedendo lungo il corridoio in un miscuglio di preoccupazione, confusione e rabbia. Non gl’importò neppure di quello. Probabilmente s’era preparata un pomposo discorso da genitore modello che deve insegnare al figlio come stare al mondo, glielo lesse negli occhi colmi di animosità, ma tutto si spense nell’attimo in cui anche lei incrociò il suo sguardo.

«Ethan, andiamo a casa» fece sua madre, titubante, lasciando saettare lo sguardo dal figlio ad Aaron, che ancora fissava il pavimento. «Andiamo a casa» ripeté, addolcendo il tono. «È inutile rimanere qui. Vieni a riposarti e domani tornerai.»

Ethan apprezzò vagamente la diplomazia di sua madre; la sentì tirarlo in piedi di peso e si rese conto di non volersene andare, ma di non aver nemmeno voglia di rimanere e rischiare di vedere un medico uscire dalla sala operatoria per annunciare che, gli dispiaceva davvero tanto, ma Aiden non ce l’aveva fatta.

Si voltò a guardare Aaron e lui annuì, per poi fargli capire a gesti che l’avrebbe chiamato non appena avesse saputo qualcosa.

«Mi dispiace per l’accaduto» borbottò la donna, rivolta allo zio di Aiden, non sapendo bene cos’altro dire, poi cinse amorevolmente le spalle del figlio con un braccio e lo condusse fuori dall’ospedale.

Per tutto il viaggio di ritorno, nessuno dei due parlò; Ethan vedeva sua madre lanciargli, di tanto in tanto, occhiate cariche di disagio e apprensione. Più volte lei parve sul punto di dire qualcosa, ma poi vi rinunciava sempre.

«Domani ti accompagno a riprendere la tua macchina. Oggi non mi pare proprio il caso» si risolse a dire infine lei, quando furono in vista della loro casa: una frase come un’altra per riempire il vuoto di un silenzio prolungato. «È da tanto che ti frequenti con questa persona?» domandò poi, così precipitosamente da mangiarsi le parole.

«Si chiama Aiden e non ci frequentiamo. Noi stiamo insieme» ringhiò Ethan: ora che era lontano dall’ospedale, si sentiva ancora più irrequieto e rabbioso. Forse sua madre intuì il suo stato d’animo, perché non disse più nulla. 

Ethan si diresse immediatamente in camera sua. Non volle mangiare né parlare con nessuno. Lanciando continue occhiate apprensive al cellulare, camminava per la stanza per scaricare la tensione, oppure si distendeva sul letto nel tentativo di dormire, senza riuscirci. Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva Aiden ricoperto di sangue che gli diceva: «Nessun problema», ed il fobico terrore di perderlo gli stringeva il cuore in una morsa dolorosa.

Ad un certo punto della notte, mentre le lancette dell’orologio scorrevano pigramente dalle due alle tre, si domandò quali potessero essere i danni riportati da una persona la cui estrazione dall’abitacolo dell’auto aveva richiesto l’intervento dei vigili del fuoco, ed inorridendo s’accorse di non riuscire a pensare ad altro che alla morte.

Non poteva immaginare una vita senza Aiden, senza la sua risata priva di ombre, senza la sua anima luminosa ad irradiare la sua esistenza fatta altrimenti di oscurità. Una vita senza di lui che gli raccontava degli interventi a cui assisteva, dell’ultimo libro che stava leggendo. Una vita senza di lui che era primavera, la rinascita di tutto ciò che di bello c’era al mondo.

Prese a pugni il cuscino e di nuovo si sentì sull’orlo delle lacrime e della disperazione, senza riuscire a rompere gli argini. Non poté fare altro che abbandonarsi all’impotenza e all’attesa, mentre la sofferenza gli dilaniava lentamente l’anima, divorandone i brandelli.

Aaron chiamò alle sette di mattina, sorprendendo Ethan ancora sveglio, con gli occhi arrossati puntati al soffitto e la mano destra a tormentare la sinistra. Il ragazzo si avventò sul cellulare al primo squillo, afferrandolo con mani tremanti e rispondendo con voce stentorea.

Aaron informò Ethan che l’operazione, secondo i medici, era andata bene e che Aiden si trovava in rianimazione, in coma farmacologico.

Fu una notizia bella e dolorosa  allo stesso tempo, che donò ad Ethan un momentaneo sollievo subito soffocato da una nuova ondata di disperata preoccupazione alle parole rianimazione e coma farmacologico. Si rese conto di non sapere ancora le esatte condizioni di Aiden, né il motivo per cui fosse stato operato o perché si trovasse in terapia intensiva. Decise che preferiva constatare di persona come stavano le cose.

«Posso vederlo?» si limitò a chiedere, chinando la testa.

«Solo in determinati orari e per poco tempo, ma sì.»

Ethan sospirò. Poco tempo era sufficiente. Sarebbe stato sufficiente anche un solo secondo.

 

Ethan si presentò in rianimazione al primo determinato orario disponibile. S’irritò per tutte le procedure alle quali fu costretto a sottoporsi: lavarsi le mani ed indossare camice, cuffia chirurgica e mascherina, come se dovesse eseguire un’operazione. Sentiva di star perdendo tempo, ma fece tutto il necessario per il bene di Aiden.

Quando lo vide, il suo cuore saltò un battito: sentì a malapena l’infermiera che gli diceva qualcosa relativo a traumi cranici, arti amputati e la necessità di non trattenersi troppo. L’immagine di Aiden, disteso sul letto come addormentato, attaccato ad innumerevoli fili e macchinari, catturò completamente la sua attenzione; quella era una scena che gli era capitato di vedere solamente nei film, e gli era difficile metabolizzare che ciò che stava vedendo era la persona che amava e non il fotogramma di una pellicola.

Si avvicinò lentamente, senza riuscire a staccare gli occhi da Aiden nonostante ciò che vedesse lo raccapricciasse e lo facesse star male. Lo sguardo guizzava senza posa dalla testa fasciata, alla macchina che monitorava i parametri, al braccio destro che non c’era più. Quell’ultima visione gli strappò un singulto strozzato e gli occhi s’inumidirono. La cosa peggiore, tuttavia, non era il moncherino con cui terminava la spalla; la cosa peggiore erano la sonda e il drenaggio - era abbastanza sicuro che si trattasse di un drenaggio, Aiden gliene aveva parlato, una volta - che uscivano da qualche parte della sua testa. Sì, quella fu la cosa peggiore, senza alcun dubbio.

«Ciao» mormorò Ethan, accostandosi al letto con il desiderio di toccare Aiden, di assicurarsi che fosse vivo, ma con il terrore di farlo. Rimase a guardarlo per un po’, lo contemplò mentre dormiva di quel suo profondo sonno indotto, e si rese conto di quanto gli mancasse. Aiden non era davvero lì: quello era solamente il suo corpo, ma lui si trovava altrove, in un posto che Ethan non poteva raggiungere, e la sua assenza era pesante come piombo.

Aiden non c’era e gli mancava come l’aria, il cuore o qualcosa di similmente essenziale per la vita.

«Lo sai che io non sono mai stato bravo a fare conversazione. Di solito sei tu quello che inizia a parlare» cominciò Ethan. «Da quando è successo questo casino mi sembra tutto così surreale. Continuo a ripetermi che tu non puoi essere davvero qui, che sei dalla parte sbagliata della stanza, e non riesco a pensare a nient’altro.»

S’interruppe e percepì una lacrima rotolargli pigramente lungo la guancia. Una sola, dolorosa lacrima.

«Il fonendoscopio e lo sfigmomanometro sono andati persi, però non devi preoccuparti, perché tuo zio ha detto che te li ricomprerà quando uscirai di qui. Perché tu uscirai di qui, non è vero?»

Un’altra lacrima seguì la prima. E poi un’altra e un’altra ancora.

«Non so dove sei, Aiden. Non so davvero dove sei finito, né come raggiungerti, e questo mi fa incazzare. Mi fa tornare la persona che ero quando mi hai conosciuto. Ti ricordi quando sei venuto a parlarmi quella sera? Ti rispondevo a grugniti e ringhi, come una specie di bestia. Ecco, è esattamente così che mi sento in questo momento: sono di malumore, triste e nervoso. E sai perché? Perché tu sei sparito, te ne sei andato chissà dove e mi hai lasciato qui. Mi manchi così tanto che non riesco quasi a respirare, quindi devi tornare indietro, perché senza di te fa tutto schifo. Io faccio schifo.»

Le ultime parole uscirono frammentate e singhiozzate, travolte dalle lacrime che avevano iniziato a scendere copiose, alimentate dalla sofferenza che, infine, era traboccata all’esterno, come un bicchiere troppo colmo che, silenziosamente, lascia fuoriuscire il suo contenuto.

Un’infermiera, forse la stessa che l’aveva condotto lì, venne ad informarlo che il suo tempo era scaduto. Ethan si asciugò gli occhi e, prima di andarsene, sussurrò ad Aiden: «Cerca di rimetterti presto, oppure dovrai passare il resto della tua vita a farti perdonare per avermi fatto piangere.» Sorrise lievemente, ma il suo non era un sorriso senza ombre dentro, e gli riempì l’anima di amara tristezza.  

 

Aiden non si rimise presto. Lo tennero sedato per ancora tre settimane, prima di decidere che le sue condizioni fossero sufficientemente buone da poterlo svegliare.

In tutto quel tempo, la vita di Ethan trascorse in una densa sospensione fatta di sofferenza e apprensione. Usciva di casa solamente per andare a far visita ad Aiden: per il resto, se ne rimaneva chiuso in camera per la maggior parte del tempo, rifiutando di parlare più del necessario con chiunque. I suoi genitori, forse mossi da preoccupazione, forse da comprensione, o da entrambe, iniziarono a informarsi giornalmente sulle condizioni di Aiden e cercavano di rassicurare Ethan con parole che per lui erano vuote e prive di significato. Anche Jason aveva cercato di fare il possibile per riportarlo ad una parvenza di normalità, ma si era scontrato solamente con un muro di apatia e tristezza impossibile da valicare.

Ethan ebbe anche modo di apprendere le reali condizioni di Aiden, anche se non aveva mai voluto chiederle esplicitamente, come se questo potesse proteggerlo dalla realtà: oltre all’evidente amputazione del braccio destro e a svariate ecchimosi e contusioni, il grave trauma cranico subito era sicuramente l’aspetto più preoccupante di tutto il quadro clinico.

Ethan si chiese spesso come sarebbe stato Aiden una volta sveglio, se si sarebbe mai ripreso del tutto, o se non sarebbe più stato lo stesso; al terrore di perderlo si sostituì gradualmente la paura di non essere in grado di gestire tutto ciò che sarebbe seguito.

Aiden gli mancava terribilmente, la sua vita senza di lui era un vuoto nulla fatto di negatività e tristezza, un lungo inverno pieno di gelo e morte; voleva solamente che si svegliasse e stesse bene. Tuttavia, temeva di trovarsi davanti uno sconosciuto, qualcuno che non era più la persona che amava.

Per questo, quando Aaron lo informò che Aiden si era svegliato, una settimana dopo la decisione dei medici di sospendere il coma farmacologico, Ethan si precipitò in ospedale con trepidante gioia ed impazienza, ma anche con un groppo in gola dettato dall’inconsapevolezza, dall’ignoranza su ciò che si sarebbe ritrovato davanti.

Aiden era stato traferito in reparto, la maggior parte dei tubi e dei fili che lo aiutavano a rimanere in vita era scomparsa, così come la sonda e il drenaggio. Ethan si sentì sollevato nel vederlo più vicino a qualcuno in via di guarigione, piuttosto che a un moribondo, e sorrise, avvicinandosi al letto.

«Ciao» mormorò, esattamente come quattro settimane prima, settimane che avevano avuto la consistenza degli anni e il sapore della tragedia.

Aiden ruotò gli occhi verso di lui: erano vitrei e lucidi, appannati dall’intorpidimento dovuto alla morfina e al mese di sonno indotto; per un attimo, quello sguardo affaticato rimase vacuo, come incapace di mettere a fuoco la realtà che stava cercando di vedere, poi si fissò su Ethan, e un lieve barlume di consapevolezza, sottile e distante, s’accese.

Fu allora che Ethan avvertì il macigno che aveva gravato sulla sua anima sollevarsi e scomparire, donandogli una sensazione di leggerezza che non provava da molto tempo. Fu come aver ricominciato a respirare davvero solo in quel momento. Per un attimo, ebbe l’istintivo impeto di abbracciarlo e stringerlo a sé, di baciarlo fino ad intorpidirsi le labbra, ma poi si trattenne, limitandosi a posargli una carezza lieve sulla guancia pallida e scarna.

«Vedrai che adesso andrà tutto bene» disse, continuando a far scorrere le dita sul viso di Aiden: probabilmente lo stava dicendo più a se stesso che all’altro.

«Quando ti sarai rimesso, i miei genitori vogliono conoscerti» proseguì, fissando lo sguardo sull’azzurro di quegli occhi che lo guardavano confusi e quasi inconsapevoli. «Hanno detto che vogliono complimentarsi con te per il coraggio nel sopportarmi.»

Aiden non disse nulla: i medici avevano avvertito che non ne sarebbe ancora stato in grado, eppure Ethan non poté comunque fare a meno di provare un profondo malessere. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter sentire di nuovo la sua voce. Vedere la sua totale mancanza di reazioni, inoltre, lo lasciava spaesato ed impaurito: solo allora si rese realmente conto di quanto essenziale quella persona fosse per la sua esistenza. Probabilmente, inconsciamente, l’aveva sempre saputo, sin dal primo istante in cui s’era girato a guardarlo; sin da quella sera al pub aveva compreso che loro due erano sempre stati destinati ad incontrarsi, per completarsi nell’incastro perfetto che solo due opposti riescono a creare. L’aveva capito subito e sempre l’aveva saputo, ma solo in quel momento l’aveva davvero realizzato.

«Ne usciremo» asserì Ethan, esibendo quello che, con grande sforzo, cercò di far somigliare ad un sorriso; dopodiché, quasi con reverenziale terrore, posò un lieve bacio sulle labbra secche e screpolate di Aiden: questo non ebbe alcuna reazione, ma in quel momento fu un dettaglio di scarsa rilevanza. «Faremo tornare la primavera nel nostro inverno.»

 

Dagli esami emerse che Aiden aveva riportato danni piuttosto seri e, probabilmente, permanenti: era previsto un miglioramento, col tempo e la riabilitazione, ma non la guarigione completa; per tutta la vita, avrebbe avuto problemi di memoria e alcune difficoltà nel parlare. Per contro, le capacità motorie non parevano intaccate.

Ethan impiegò molto per metabolizzare la notizia e numerose domande su ciò che sarebbe accaduto di lì in avanti iniziarono ad affollare la sua mente, ma nemmeno per un istante pensò di abbandonare la persona che amava. Vedere l’altro migliorare di giorno in giorno contribuì a risollevargli l’umore e a fargli riprendere quella quotidianità che fino a quel momento aveva sospeso in un limbo.

Ad Aiden occorse parecchio tempo per ricominciare a parlare: inizialmente, Ethan non riusciva a capire cosa gli dicesse, perché le parole erano un miscuglio confuso e stentato di versi incomprensibili. Col tempo, quel farfugliare indistinto iniziò a prendere la consistenza di frasi di senso più o meno compiuto: più i giorni passavano, più Ethan si rendeva conto di avere sempre meno difficoltà a comunicare con Aiden e di riuscire a comprendere cosa questo volesse dirgli senza troppo sforzo, nonostante avesse la tendenza a strascicare alcune parole in un biascichio indistinto e spesso dovesse soffermarsi a pensare al concetto da esprimere o al vocabolo da pronunciare.

Quando Aiden iniziò a rendersi conto delle sue condizioni,  cominciò a divenire irascibile e di malumore. Ethan non ricordava di aver mai visto Aiden arrabbiato, mai nemmeno una volta, ma poteva comprendere per quale motivo ora lo fosse. Anche lui si sarebbe innervosito al pensiero che la sua vita fosse stata mandata in frantumi da uno stronzo che non gli aveva dato la precedenza. Non poteva negare di sentirsi ferito ogni qualvolta Aiden aveva degli ingiustificati scatti d’ira e gli dava contro, ma continuava a ripetersi che i problemi di gestione dell’umore facevano parte delle conseguenze del trauma cranico e che sarebbero passati.

Una settimana prima delle dimissioni di Aiden, Ethan trovò quest’ultimo più incupito del solito, quando entrò nella sua stanza d’ospedale, ormai così familiare, con un libro in mano.

Lo salutò con un bacio, ignorando la sua espressione imbronciata. «Ti ho portato questo, così puoi esercitarti a leggere, come ha detto la logopedista» gli spiegò, posando il libro sul comodino. Aiden grugnì in risposta, lo sguardo basso e corrucciato.

«Come ti senti?» domandò Ethan, stoico.

«Mi fa male tutto» borbottò Aiden: probabilmente, non era proprio così, ma preferiva condensare i concetti in frasi brevi, per evitare di incespicare nelle sue stesse parole o pensieri.

«Vuoi che chiami qualcuno?»

Aiden scosse rabbiosamente la testa.

«D’accordo. Allora dimmi almeno perché sei così arrabbiato.»

Aiden rimase in silenzio per alcuni minuti: forse stava cercando di ricordare cosa dire, oppure si stava sforzando di mettere insieme le parole per formare il concetto che voleva esprimere. «Io e te stiamo insieme, giusto?» domandò, poi: a volte ancora gli capitava di dimenticarsene. Ethan annuì. «Allora dovremmo lasciarci» asserì o, per lo meno, fu quello che Ethan interpretò, perché l’ultima parola uscì come un groviglio strascicato di vocali.

«Lasciarci?» domandò comunque, per chiedere conferma, perché non gli pareva possibile d’aver capito bene.

«Lasciarci» ripeté Aiden, lentamente ed annuendo, continuando a non guardare in faccia il proprio interlocutore.

«Ma cosa stai dicendo?!» balbettò Ethan, mentre un denso panico iniziava a calare su di lui come la ghigliottina sul collo di un condannato a morte.

Aiden si voltò finalmente a guardarlo, gli occhi azzurri accesi di uno strano miscuglio di sofferenza e fermezza. «Tu sei giovane» cominciò a dire, imponendosi di parlare lentamente nonostante il fervore che lo animava. «Tu non sai cosa significa tutto questo» aggiunse, indicandosi con l’unica mano che ancora possedeva. Fece poi una pausa, per riordinare le idee, ed Ethan rimase in silenzio, in attesa: aveva iniziato a tremare per la tensione e gli costò un’enorme fatica rimanere fermo, senza dire o fare nulla.

«La mia vita è rovinata: avrei voluto diventare un medico, e questo non potrà accadere. Ci sono molte altre cose che avrei voluto fare, e che invece non potrò realizzare. Una di queste è renderti felice. Non puoi essere felice se stai con un… uno…» Aiden s’interruppe, in cerca di quella parola così difficile che proprio non riusciva a ricordare; batté un pugno sul letto per la frustrazione. «Non voglio rovinare anche la tua vita» concluse, infine, rassegnato.

Ethan sbarrò gli occhi, basito; una parte di lui, un residuo di Ethan Numero Uno, sapeva che Aiden aveva ragione: se fosse rimasto accanto a lui, non avrebbe mai avuto una vita normale. Mai più. Eppure, la persona che era diventato, la persona che Aiden l’aveva fatto diventare, sapeva che non avrebbe mai potuto dire: «Va bene, ognuno per la sua strada», andarsene da quella stanza e riprendere la sua esistenza come se nulla fosse accaduto. Nemmeno in quel caso avrebbe avuto una vita normale. Né tantomeno felice.

Guardò Aiden, coi suoi occhi azzurri ed i capelli color rame che stavano cominciando a ricrescere; guardò quel corpo gracile ed indebolito, senza più un braccio; guardò quella persona a cui capitava di scordare delle cose, più o meno importanti, ma che gli ripeteva sempre: «Non mi sono mai dimenticato che sei Ethan e che ti amo»; guardò quel ragazzo che, quasi un anno prima, si era seduto accanto a lui, in un pub, senza lasciarsi intimorire dalla sua scontrosità e dagli ostacoli che gli aveva posto davanti.

Se Aiden non l’avesse capito subito, che loro erano fatti per stare insieme, se non avesse insistito con tanta caparbietà, la sua vita sarebbe rimasta fredda e buia, priva di senso, senza la forza di risplendere, di spaccare la sua scorza di rabbia e solitudine e rifiorire, come un germoglio che spunta d’improvviso dove un istante prima non v’era che arida desolazione.

«Hai ragione» cominciò a dire Ethan, fattosi improvvisamente calmo. «Io non so cosa significa tutto questo: sei tu l’esperto di medicina, io posso solo citarti a memoria la Costituzione americana, e nemmeno tutta. Hai ragione anche sul fatto che sono giovane: ho appena vent’anni e della vita devo capire ancora molto. Però una cosa la so bene: so cosa significa quando dico che ti amo, e per questo il mio posto è esattamente dove mi trovo in questo istante.»

Aiden lo fissò in silenzio, con uno sguardo che non sapeva bene che espressione assumere.

«Mi hai insegnato due cose molto importanti» proseguì Ethan. «La prima è che a volte dieci minuti sono più che sufficienti. Credo che a me ne siano bastati molti meno, anche se non lo avevo capito: mi è stato sufficiente l’istante in cui ti ho visto per la prima volta per intuire che eri tu la persona che volevo accanto per tutta la mia vita. La seconda è che bisogna sempre trovare la forza di rinascere, come fa la natura a primavera; adesso ti sembra tutto terribile, come un tunnel senza via d’uscita, ma non è così: troveremo il modo di convivere con quello che ti è successo, ed allora sarà tutto automatico e semplice. Non ho passato questo periodo qui solo per andarmene perché ogni tanto ti dimentichi qualcosa o perché dici “osso” al posto di “posso”. Sei ancora la persona che amo, e questo è tutto ciò che riesco a vedere, perciò smettila di dire stronzate che mi fanno incazzare e di piangerti addosso. Io resto qui, con te. Fine della storia.»

Aiden boccheggiò: era chiaramente contrariato, ma non riusciva a dire nulla. Scosse la testa, come a voler sottolineare che Ethan non sapesse ciò che stava dicendo, ed invece Ethan lo sapeva fin troppo bene. Si chinò su Aiden e lo baciò quasi rabbiosamente, poi si sedette accanto a lui e gli schiaffò in grembo il libro che gli aveva portato.

«Adesso leggi, imbecille» ringhiò, assumendo un cipiglio severo. Aiden lo fissò per un istante, poi scoppiò a ridere di quella sua risata senza ombre dentro, che per molto tempo era scomparsa. Rise ed illuminò la stanza con la sua gioia radiosa e la sua personalità splendente.

«Stare con te è come avere la primavera dentro» gli sussurrò Ethan, dando voce ad un pensiero che aveva formulato molto tempo prima, una sera in cui la persona che amava gli aveva insegnato molte cose.

«Come avere la primavera dentro» ripeté Aiden, con un sorriso che esprimeva tutto il sollievo che provava nell’aver avuto conferma che Ethan aveva deciso di rimanere al suo fianco nonostante le difficoltà. Lo strinse a sé e lo baciò e fu come rinascere.

Come avere la primavera dentro.

  
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