Negli Anni Novanta
Caterina
si appoggia al tavolo
con gli avambracci e osserva in religioso silenzio Margherita che versa
nei
vasetti di vetro la densa marmellata di sambuco. Quasi quasi trattiene
anche il
fiato. Non perché lo trovi uno spettacolo entusiasmante, ma
perché la
vecchietta ha la mano che trema e le serve tutta la concentrazione
possibile
per evitare che il fluido viscoso finisca sul tavolo,
impiastricciandolo tutto.
Ha
un caratteraccio, Margherita.
La sua bocca non è mai veramente ferma, mastica e borbotta e
ansima e, se
Caterina e gli altri bambini non filano dritti, da quelle labbra escono
anche delle
sgridate con i fiocchi. La maggior parte dei ragazzini che
d’estate affollano
San Giorgio ha paura di lei, alcuni di loro la considerano addirittura
una strega, ma Caterina sa che,
sotto sotto,
non è così cattiva come sembra. La conosce bene,
lei, perché sono vicine di
casa e spesso la mamma la spedisce lì quando, di pomeriggio,
è troppo occupata
per vigilare sulla figlia mentre questa svolge per la prima volta nella
sua
vita i compiti delle vacanze.
Era
una maestra, una volta,
Margherita: è stata la maestra anche della mamma. Caterina
pensa che è per
questo che è un po’ severa: anche se non lavora
più da tantissimi anni, il
mestiere dell’insegnante dev’esserle rimasto
appiccicato addosso. La bambina se
la immagina quasi: se la vede lì, davanti alla lavagna nera,
mentre righe
ordinate di ragazzini con il grembiule la fissano attenti.
Probabilmente aveva
già la sottana nera che indossa anche adesso. È
quasi certa che avesse sempre a
portata di mano una bacchetta per picchiare le mani degli alunni
più
indisciplinati (come lo zio Carlo, che saltava fuori dalla finestra e
faceva
disegni osceni sulla lavagna).
Solo,
non riesce proprio a immaginarsela giovane: probabilmente è
sempre stata così,
una donna vecchia, alta, massiccia, con penetranti occhi azzurri e
capelli
bianchissimi raccolti in un’esile crocchia spettinata.
«Va’
a prendere le etichette
adesive.»
L’ordine
di Margherita la fa
trasalire e Caterina si accorge di essersi persa nei propri pensieri.
Ubbidiente, raggiunge la credenza, si arrampica sullo sgabello e
afferra la
busta contenente i foglietti pretagliati che serviranno per etichettare
i
vasetti di marmellata. Mentre è in piedi sullo sgabello di
legno, la bambina
guarda per un istante fuori dalla finestra e respira qualche boccata di
aria che
sa di sole e di ortiche. È il profumo della
libertà ed è in netto contrasto con
l’odore che si respira all’interno della casa di
Margherita. La mamma dice che
c’è puzza di chiuso, lì dentro, e che
la vecchietta dovrebbe chiedere a
qualcuno di darle una mano con le faccende domestiche, ma la bimba non
è del
tutto d’accordo. Quella che sente lei non è
davvero puzza, ma qualcosa che sa
di vecchiaia, solitudine e di brutti
pensieri: è un odore che, sulle prime, le fa sempre venire
voglia di girare sui
sandaletti di gomma e scappare via.
Tuttavia,
anche questa volta fa
un respiro profondo e poi balza a terra, facendo emettere alla suola
dei
sandali blu un lamento stridulo. «Vieni qui», le
ingiunge Margherita, «e scrivi
sopra ogni etichetta “sambuco”.
Bello
chiaro, mi raccomando, che poi non riesco a leggere.»
Caterina
torna alla sua
postazione accanto al tavolo e poi occhieggia in direzione del
portapenne che vi
è posato nel mezzo, a mo’ di centrotavola.
«Posso usare la penna viola?»
chiede, fremendo dalla voglia di allungare la mano e di afferrare
quella
particolare penna che la vecchietta le impedisce di usare per compilare
il
libro dei compiti delle vacanze.
«Usa
poi quella che ti pare»
borbotta Margherita. «L’importante è che
scrivi bene.»
Annuendo
solennemente, la bambina
si sistema su una delle scomode sedie di paglia e impugna la penna,
sforzandosi
di tenere le dita così come vuole la donna che la osserva
con occhio critico. Lentamente,
inizia a vergare le lettere con la concentrazione che solo chi ha
imparato a
scrivere da meno di un anno può avere e, dopo dieci minuti,
posa la penna sul
tavolo, soddisfatta. «Ecco fatto!» proclama fiera,
reclinando leggermente il
capo per ammirare meglio il proprio lavoro. «Vanno bene,
così?»
Margherita
si porta alle spalle
della bambina e poi legge, con un filo di voce: «Sanbuco». Per un istante
osserva le palline che la piccola ha
disegnato sul margine di ogni etichetta – rappresentazione,
nelle sue
intenzioni, dei frutti che hanno dato origine alla marmellata
– e poi annuisce.
«Vanno benissimo» la rassicura, con un mezzo
sorriso smarrito.
Caterina
incrocia le braccia
davanti a sé e alza il visino lentigginoso verso quello di
Margherita, segnato
dalle rughe. «Adesso posso guardare i cartoni?»
Eccolo,
uno dei vantaggi di passare
qualche pomeriggio a casa della vecchietta: anche se è
pignola quando si tratta
di fare i compiti, le lascia una certa libertà su tutto il
resto. La cosa più
importante è che le permette di guardare quei cartoni
animati giapponesi che a
Caterina piacciono tanto e che la mamma definisce
“stupidate”, facendola
sentire terribilmente in colpa ogni volta che accende la vecchia
televisione
nascosta nell’armadio per seguire le avventure dei suoi eroi
preferiti. Anche
Margherita sbuffa e scrolla il capo davanti alle avventure di quegli
strani
eroi variopinti, ma almeno non commenta.
«Prima
fai merenda, che è ancora
presto, per i cartoni» la frena però la
vecchietta. «Mettiti sul divano, che ti
ho preparato il frullato.»
Caterina
freme d’impazienza, ma
fa comunque come le è stato chiesto: del resto,
all’orologio non si comanda e
lei ha iniziato a capire che il tempo passa più velocemente,
quando ci si
distrae un po’. Mentre aspetta che Margherita le porti il
bicchiere con il
frullato, la bambina osserva la foto sbiadita posta di fianco al
televisore
spento. Ogni volta che se la trova davanti, non può fare a
meno di studiarla
per qualche minuto. Non sa cosa l’affascini tanto della
persona ritratta: forse
è il fatto che non c’è più,
oppure è perché ha lo stesso nome della mamma.
Quella è “l’Altra Elena”,
così definita per distinguerla dalla madre di
Caterina, che si chiama anche lei Elena ed è anche lei
bionda, esattamente come
la ragazza ritratta.
È
quasi una creatura mitologica, l’Altra
Elena. La bambina sa poco di lei; le hanno solo detto che era una
ragazza che
Margherita conosceva quando era più giovane e che
è morta in un incidente
stradale. Anche la mamma la conosceva e Caterina ha notato che, quando
parla di
lei, fa sempre una faccia strana: una volta le ha raccontato che era
una
persona che aveva tanti problemi.
Quasi
senza rendersene conto, la
bambina si alza e raggiunge il mobile della televisione. Allunga la
manina
verso la foto racchiusa nella cornice di metallo lavorato e segue con
la punta
delle dita i tratti del viso della giovane, il naso diritto, le labbra
curvate
in un sorriso un po’ triste, i boccoli chiari che le ricadono
sulla fronte.
Quando sente i passi pesanti di Margherita giungere dalla cucina, si
affretta a
tornare verso il divano. Sa che la vecchietta non vuole che tocchi
quella foto.
Forse ha paura che la faccia cadere e rompa il vetro che la protegge.
«Ecco
qui» annuncia la donna con
la sua voce raspante. Caterina si siede più compostamente e
la guarda
avvicinarsi strascicando i piedi avvolti nelle pantofole morbide: il
suo passo
è incerto e tremulo, ma dal bicchiere che regge tra le mani
non esce una sola
goccia. La bambina si dice che è perché il
frullato di pesca e banana che fa
Margherita è talmente denso che è difficile che
trabocchi: a volte pensa che le
converrebbe mangiarlo con un cucchiaino, piuttosto che cercare di
versarselo in
bocca come farebbe con qualsiasi altra bevanda.
Nonostante
quella non sia
esattamente la sua merenda preferita, la piccola ringrazia e si porta
alle
labbra il fluido dolce e viscoso. Solitamente, una volta che le ha
portato lo
spuntino, Margherita inizia a occuparsi di qualche piccola faccenda
domestica:
sguscia i fagioli, passa la scopa sotto il tavolo, attacca qualche
bottone.
Oggi, però, fa una cosa del tutto diversa: oggi apre
l’ultima anta del mobile
che si trova accanto alla porta del bagno, quella in basso a sinistra.
Quella
che è sempre chiusa a chiave. Ancora prima di vedere quello
che sta facendo,
Caterina sa che la donna sta prendendo la Scatola dei Tesori.
«Che
cosa fai?» chiede comunque,
dimenticandosi di colpo dei cartoni animati che inizieranno di
lì a poco.
Con
un gemito di dolore, la donna
raddrizza la schiena e si dirige verso il divano tenendo tra le mani
una
vecchia scatola di latta che in origine aveva contenuto dei
cioccolatini “Quality Street”.
Il tempo ne ha sbiadito
i colori e in alcuni punti la ruggine ha intaccato il metallo, ma la
bambina
riconosce il caratteristico motivo bianco e fucsia. Prendendo posto
accanto a
Caterina, Margherita solleva con qualche difficoltà il
coperchio metallico.
«Oggi lucido l’argenteria» spiega,
posando la scatola tra sé e la ragazzina.
«Voglio recuperare un po’ di catenine e di anelli
che ho lasciato qui dentro,
prima che diventino più neri del carbone.»
Caterina
annuisce, ma non è
interessata ai vecchi gioielli, lei. No: ciò che la attira
veramente sono tutti
gli altri oggetti strani e misteriosi che si trovano
all’interno di quella
scatola.
Accorgendosi
dell’attenzione
quasi maniacale della bimba, Margherita sospira. «Lo sai che
non devi toccare
niente, vero? Con quelle manacce che ti ritrovi mi rompi di sicuro
qualcosa!»
Caterina
fa del proprio meglio per
assumere un’espressione contrita. Glielo dice ogni volta, ma
poi,
immancabilmente, la lascia frugare quasi a proprio piacimento. Posando
il
frullato sul tavolino, la bambina punta un dito in direzione di una
pallina
gialla e rossa. Potrebbe sembrare una di quelle che si appendono
all’albero di
Natale, se non fosse che non ha nessun gancio che possa ancorarla ai
rami
dell’abete. È divisa in due metà
perfette di plastica semitrasparente e al suo
interno è possibile scorgere un minuscolo campanello dorato.
«Che cos’è,
quella?» chiede. La sua è una domanda superflua,
perché quella pallina l’ha già
vista diverse volte e Margherita le ha già spiegato la
provenienza di quello e
di altri oggetti che si trovano all’interno della scatola, ma
non fa niente:
non è la risposta a essere importante, quanto piuttosto il
racconto stesso.
È
come quando la zia Simona,
sorella della mamma, la convince a mangiare la cena più
velocemente recitandole
alcune fiabe di sua invenzione. Caterina lo sa benissimo, che alla fine
del racconto
l’anatroccolo ritroverà la mamma e il gigante
regalerà il suo tesoro
all’orfanella che l’ha curato, ma il modo in cui la
zia interpreta il racconto
la diverte sempre.
Margherita
alza gli occhi al
cielo e poi afferra la pallina con le dita rese nodose
dall’artrite. «Lo sai
benissimo, che cos’è. È una storia che
ti ho raccontato un sacco di volte.»
Caterina
le rivolge un sorriso
smagliante. «Me la racconti un’altra
volta?» supplica, consapevole che, in
realtà, alla vecchietta non dispiace raccontarle delle
vicende che la fanno
ripensare a quando era più giovane.
Scuotendo
il capo, la donna
solleva la pallina e la porta all’altezza degli occhi della
bambina. «Questa»,
dice, «viene da un circo che girava da queste parti
all’epoca in cui la tua mamma
aveva circa la tua età. C’era un orso, in quel
circo: era un animale strano,
perché, di solito, gli orsi hanno il pelo
marrone…»
«…
a meno che non siano orsi
bianchi!» la informa Caterina, che guarda spesso Super Quark ed
è quindi
informatissima su tutto ciò che riguarda il mondo animale.
Margherita
le rivolge un’occhiata
severa e la bimba si morde la lingua, sapendo che non avrebbe dovuto
interromperla. «Beh, quello non era un orso bianco»
sbotta la vecchietta.
«Quello era un normale orso bruno, solo che il suo pelo era
biondo come i
capelli di un bambino. Era una delle attrazioni principali del circo e
durante
il suo numero faceva un giro di pista camminando sulle zampe posteriori
e
tenendo questa pallina in equilibrio sul naso.»
Interrompendosi brevemente, la
donna agita la mano facendo tintinnare il sonaglio
all’interno della sferetta
di plastica. «Tra gli spettatori girava la storia che questa
cosa portasse
fortuna. Era una storia messa in giro dalle persone del giro non so
più per
quale motivo: dicevano che tenesse alla larga gli spiriti
maligni.»
«Ma
funziona davvero?» chiede
Caterina, affascinata da quella storia come la prima volta che
l’aveva sentita.
Margherita
si stringe nelle
spalle. «E chi lo sa. Da quando me l’hanno
regalata, non ho incontrato nemmeno
uno spirito maligno, quindi può darsi che funzioni
veramente.»
La
bambina annuisce: la risposta
le pare soddisfacente. Distogliendo l’attenzione dalla
pallina rossa e gialla,
allunga una mano e con la punta delle dita pesca la statuetta di un
cavallino. È
una bestiola tozza, dai lineamenti grossolani scolpiti frettolosamente
nel
legno chiaro. Un tempo doveva essere ricoperto da una pittura bianca,
perché, a
tratti, il colore affiora ancora sulla groppa insellata, sul ventre
protetto
dalle zampe, sulla gola. «Questo da dove viene?»
chiede, sollevando il
cavallino nella parodia di un salto esagerato e facendolo poi atterrare
morbidamente sullo schienale del divano. Mentre attende la risposta di
Margherita, fa oscillare la statuetta, mimando quello che immagina
essere un
galoppo.
La
vecchietta fa come per toccare
a sua volta il cavallino, ma poi raccoglie le mani in grembo. Caterina
sbircia
la sua faccia e, per un attimo, i suoi occhi le sembrano tristi.
«Quello è il
regalo che una mia amica mi ha portato tanto tempo fa»
spiega. «Viene dalla Francia,
da un posto che si chiama Saintes-Maries-de-la-Mer.»
Il
nome non le è famigliare,
anche se lei in Francia ci va tutti gli anni, in vacanza al mare con la
mamma e
con il papà. «Che posto è?»
chiede. «Un posto da gente ricca?»
Non sa perché, ma le sembra il nome di un posto
chic, uno di quei posti pieni di
villoni
e di macchine di lusso.
«Non
lo so» risponde Margherita.
«Non ci sono mai stata, ma non credo. È un posto
pieno di paludi e di campi di
lavanda. Lo sai che cos’è, vero, la
lavanda?»
La
bambina annuisce. «Certo, che
lo so!» conferma con un certo orgoglio. «Ce
l’abbiamo anche noi, nella casa in
città. La mamma la tiene in giardino.»
Mentre
chiacchierano, Margherita
toglie sistematicamente gli oggetti dalla scatola di latta e li sistema
in due
pile accanto a sé: da una parte i gioielli che intende
lucidare, dall’altra tutto
il resto. Ben presto, il fondo metallico viene alla luce e, con esso,
una
coppia di oggetti che fanno brillare di interesse gli occhi della
bambina. «Posso
vedere le chiavi?» chiede Caterina, quasi trattenendo il
fiato.
La
vecchietta le rivolge uno
sguardo severo. «Va bene, ma stai attenta a non farle cadere:
non sono
giocattoli, queste.»
Con
estrema cura, Margherita
consegna alla bimba una coppia di chiavi antiche. Non misurano
più di cinque
centimetri l’una, ma le mani di Caterina sono piccole e, per
precauzione, la bambina
se le appoggia immediatamente sulle gambe nude, lasciate scoperte dai
pantaloncini sdruciti. Mentre ne percorre le curve con la punta
dell’indice, pensa
che le piacciono tanto, quelle due chiavi. Forse perché sono
troppo strane per
poter veramente aprire qualche serratura. Sono perfettamente identiche
nella
forma – sembrano la versione rimpicciolita di una di quelle
chiavi pesanti che
servono per aprire e chiudere le porte delle stalle – ma la
prima è fatta di una
pietra così nera che pare inghiottire ogni singolo bagliore
o riflesso, mentre
la seconda, di un arancione intenso, sembrerebbe quasi di plastica
trasparente,
se non fosse per le mille scintille iridescenti che risplendono al suo
interno.
Sono unite da un nastrino di velluto rosso un po’
spelacchiato, il nodo che lo
chiude talmente stretto che, ormai, se qualcuno volesse dividere le due
chiavi,
sarebbe costretto a tagliare il legaccio.
«Ma
lo sai, a che cosa servono?»
chiede la bimba, dopo qualche minuto di contemplazione silenziosa.
Margherita
ha finito di pescare i
gioielli dalla scatola dei cioccolatini e adesso vi sta risistemando
dentro
tutto quello che ne ha estratto, la pallina e il cavallino e tutti gli
altri
oggetti che Caterina non ha fatto in tempo a esaminare da vicino.
Osserva con
occhio critico una catenina che il tempo ha annerito e annodato e poi
sposta lo
sguardo sulla bambina. «Ad aprire delle porte»
risponde.
Caterina
aggrotta la fronte. Quella
risposta tanto scontata le sembra sbagliata: lo sa bene, che le chiavi
servono
in generale ad aprire le porte, ma quelle? Quelle sembrano
più ciondoli o
soprammobili. Sembrano tanto fragili e la bambina è quasi
sicura che si
spezzerebbero, se venissero veramente inserite in una serratura.
«Quali porte?»
insiste, allora.
Margherita
le rivolge uno dei
suoi rari sorrisi. «Non me lo ricordo», dice,
«o forse non l’ho mai saputo. Però
le chiavi le tengo lo stesso: se un giorno dovessi trovarmi davanti a
una porta
chiusa, potrei provare ad aprirla con una di queste. O magari potresti
farlo tu
quando, tra qualche anno, io sarò morta.»
«Non
morirai tra qualche anno» la
contraddice la bambina a mezza voce. Non riesce a metterci troppa
convinzione,
in quelle parole, perché Margherita è davvero vecchia e non potrà vivere in
eterno.
«Eh,
car Signur!» sospira la
donna. «Da vecchi si muore, nini.
Meglio da vecchi che da giovani.»
Caterina
la guarda senza sapere
cosa dire. Non le interessa parlare della morte: sente che è
un argomento che
non la riguarda, qualcosa di lontano e confuso. Parlarne la mette a
disagio: Margherita
se ne accorge e cambia rapidamente argomento. «Se fai la
brava e fai bene i
compiti, te ne lascio in eredità una.»
La
bambina sgrana gli occhi. «Una
delle chiavi?»
La
vecchietta annuisce. «Sì. Quale
preferiresti?»
La
piccola esita. Vorrebbe dire
che è indifferente, che le piacciono entrambe, ma poi pensa
che quella
arancione ha un colore più bello e che brilla come se avesse
il fuoco dentro. Fa
per rispondere che vuole quella, ma, mentre le osserva ancora una volta
entrambe,
il suo sguardo cade sulla chiave più a sinistra, quella
nera. La pietra liscia è
più scura della notte e altrettanto impenetrabile. La
bambina fissa quel nero e
vi si perde dentro: per un istante infinito, le pare di fissare
un’acqua cupa e
profonda, quieta e antica. La vede oscillare, arricciarsi in
increspature
infinitesimali, e vede l’ombra che vi striscia sotto, che si
contrae e guizza,
una forma che ha in sé mille forme diverse.
«Voglio
questa» dice, e la sua
mano si chiude con decisione sulla chiave nera. Non appena le sue dita
sporche
di inchiostro viola si sono serrate sulla pietra fredda,
però, la mano ruvida
di Margherita vi cala sopra e, con gentile fermezza, le schiude.
Vedendosi
sottrarre il proprio
bottino, la bambina le lancia uno sguardo tradito, ma la vecchietta le
rivolge
un sorriso che, questa volta, sa un po’ di presa in giro.
«Ho detto che te la
do quando sarò sottoterra e quando avrai imparato a fare i
compiti senza
sbirciare sulla pagina delle soluzioni.»
Caterina
è tentata di farsi
venire gli occhi lucidi di lacrime e di sporgere un po’ il
labbro inferiore
nell’imitazione di un pianto incipiente, ma poi si trattiene.
Non è più una
bambina piccola e, comunque, con Margherita quelle sceneggiate non
funzionano.
«Ok» si arrende, lasciandosi ricadere contro lo
schienale del divano. La donna
la guarda come se volesse dire ancora qualcosa, ma la bambina pensa
che, se non
può avere subito quella chiave che l’affascina
tanto, allora tanto vale
cambiare argomento. Decisa a chiudere la questione, afferra il
telecomando e lo
punta verso il televisore. «Allora adesso posso guardare i
cartoni?»
Margherita
sembra colta di
sorpresa dal brusco cambio di rotta della conversazione, ma poi scrolla
la
testa e sospira. «Va bene, va bene, guardali: io vado a
cercare l’Argentil.» Così
dicendo, la vecchietta raccoglie la manciata di gioielli
d’argento che si è
depositata in grembo e, alzandosi dal divano con un gemito di fatica,
si dirige
un po’ barcollante verso il tavolo ancora ingombro di vasetti
di marmellata.
Accoccolata
sul divano, Caterina
si perde nel suo cartone animato e, almeno per il momento, si dimentica
di
tutto il resto.