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Autore: Red Owl    22/05/2019    0 recensioni
Agnese e Caterina non si incontreranno mai, perché le dividono quasi cent'anni di storia. Eppure hanno qualcosa che le accomuna: qualcosa celato nei boschi che circondano il paesino di San Giorgio della Valle, dove entrambe sono cresciute. C'è un segreto antico, nascosto tra i castagni e le vecchie mura di un paesino della montagna lombarda: Agnese ha scelto di dimenticarlo, Caterina, forse, non l'ha mai conosciuto. Verrà però un giorno in cui entrambe dovranno fare i conti con il passato, quando un nemico subdolo e ingannatore verrà a bussare alla loro porta, alla ricerca di qualcosa che soltanto loro possono dargli.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Negli Anni Novanta

Caterina si appoggia al tavolo con gli avambracci e osserva in religioso silenzio Margherita che versa nei vasetti di vetro la densa marmellata di sambuco. Quasi quasi trattiene anche il fiato. Non perché lo trovi uno spettacolo entusiasmante, ma perché la vecchietta ha la mano che trema e le serve tutta la concentrazione possibile per evitare che il fluido viscoso finisca sul tavolo, impiastricciandolo tutto.

Ha un caratteraccio, Margherita. La sua bocca non è mai veramente ferma, mastica e borbotta e ansima e, se Caterina e gli altri bambini non filano dritti, da quelle labbra escono anche delle sgridate con i fiocchi. La maggior parte dei ragazzini che d’estate affollano San Giorgio ha paura di lei, alcuni di loro la considerano addirittura una strega, ma Caterina sa che, sotto sotto, non è così cattiva come sembra. La conosce bene, lei, perché sono vicine di casa e spesso la mamma la spedisce lì quando, di pomeriggio, è troppo occupata per vigilare sulla figlia mentre questa svolge per la prima volta nella sua vita i compiti delle vacanze.

Era una maestra, una volta, Margherita: è stata la maestra anche della mamma. Caterina pensa che è per questo che è un po’ severa: anche se non lavora più da tantissimi anni, il mestiere dell’insegnante dev’esserle rimasto appiccicato addosso. La bambina se la immagina quasi: se la vede lì, davanti alla lavagna nera, mentre righe ordinate di ragazzini con il grembiule la fissano attenti. Probabilmente aveva già la sottana nera che indossa anche adesso. È quasi certa che avesse sempre a portata di mano una bacchetta per picchiare le mani degli alunni più indisciplinati (come lo zio Carlo, che saltava fuori dalla finestra e faceva disegni osceni sulla lavagna). Solo, non riesce proprio a immaginarsela giovane: probabilmente è sempre stata così, una donna vecchia, alta, massiccia, con penetranti occhi azzurri e capelli bianchissimi raccolti in un’esile crocchia spettinata.

«Va’ a prendere le etichette adesive.»

L’ordine di Margherita la fa trasalire e Caterina si accorge di essersi persa nei propri pensieri. Ubbidiente, raggiunge la credenza, si arrampica sullo sgabello e afferra la busta contenente i foglietti pretagliati che serviranno per etichettare i vasetti di marmellata. Mentre è in piedi sullo sgabello di legno, la bambina guarda per un istante fuori dalla finestra e respira qualche boccata di aria che sa di sole e di ortiche. È il profumo della libertà ed è in netto contrasto con l’odore che si respira all’interno della casa di Margherita. La mamma dice che c’è puzza di chiuso, lì dentro, e che la vecchietta dovrebbe chiedere a qualcuno di darle una mano con le faccende domestiche, ma la bimba non è del tutto d’accordo. Quella che sente lei non è davvero puzza, ma qualcosa che sa di vecchiaia, solitudine e di brutti pensieri: è un odore che, sulle prime, le fa sempre venire voglia di girare sui sandaletti di gomma e scappare via.

Tuttavia, anche questa volta fa un respiro profondo e poi balza a terra, facendo emettere alla suola dei sandali blu un lamento stridulo. «Vieni qui», le ingiunge Margherita, «e scrivi sopra ogni etichetta “sambuco”. Bello chiaro, mi raccomando, che poi non riesco a leggere.»

Caterina torna alla sua postazione accanto al tavolo e poi occhieggia in direzione del portapenne che vi è posato nel mezzo, a mo’ di centrotavola. «Posso usare la penna viola?» chiede, fremendo dalla voglia di allungare la mano e di afferrare quella particolare penna che la vecchietta le impedisce di usare per compilare il libro dei compiti delle vacanze.

«Usa poi quella che ti pare» borbotta Margherita. «L’importante è che scrivi bene.»

Annuendo solennemente, la bambina si sistema su una delle scomode sedie di paglia e impugna la penna, sforzandosi di tenere le dita così come vuole la donna che la osserva con occhio critico. Lentamente, inizia a vergare le lettere con la concentrazione che solo chi ha imparato a scrivere da meno di un anno può avere e, dopo dieci minuti, posa la penna sul tavolo, soddisfatta. «Ecco fatto!» proclama fiera, reclinando leggermente il capo per ammirare meglio il proprio lavoro. «Vanno bene, così?»

Margherita si porta alle spalle della bambina e poi legge, con un filo di voce: «Sanbuco». Per un istante osserva le palline che la piccola ha disegnato sul margine di ogni etichetta – rappresentazione, nelle sue intenzioni, dei frutti che hanno dato origine alla marmellata – e poi annuisce. «Vanno benissimo» la rassicura, con un mezzo sorriso smarrito.

Caterina incrocia le braccia davanti a sé e alza il visino lentigginoso verso quello di Margherita, segnato dalle rughe. «Adesso posso guardare i cartoni?»

Eccolo, uno dei vantaggi di passare qualche pomeriggio a casa della vecchietta: anche se è pignola quando si tratta di fare i compiti, le lascia una certa libertà su tutto il resto. La cosa più importante è che le permette di guardare quei cartoni animati giapponesi che a Caterina piacciono tanto e che la mamma definisce “stupidate”, facendola sentire terribilmente in colpa ogni volta che accende la vecchia televisione nascosta nell’armadio per seguire le avventure dei suoi eroi preferiti. Anche Margherita sbuffa e scrolla il capo davanti alle avventure di quegli strani eroi variopinti, ma almeno non commenta.

«Prima fai merenda, che è ancora presto, per i cartoni» la frena però la vecchietta. «Mettiti sul divano, che ti ho preparato il frullato.»

Caterina freme d’impazienza, ma fa comunque come le è stato chiesto: del resto, all’orologio non si comanda e lei ha iniziato a capire che il tempo passa più velocemente, quando ci si distrae un po’. Mentre aspetta che Margherita le porti il bicchiere con il frullato, la bambina osserva la foto sbiadita posta di fianco al televisore spento. Ogni volta che se la trova davanti, non può fare a meno di studiarla per qualche minuto. Non sa cosa l’affascini tanto della persona ritratta: forse è il fatto che non c’è più, oppure è perché ha lo stesso nome della mamma. Quella è “l’Altra Elena”, così definita per distinguerla dalla madre di Caterina, che si chiama anche lei Elena ed è anche lei bionda, esattamente come la ragazza ritratta.

È quasi una creatura mitologica, l’Altra Elena. La bambina sa poco di lei; le hanno solo detto che era una ragazza che Margherita conosceva quando era più giovane e che è morta in un incidente stradale. Anche la mamma la conosceva e Caterina ha notato che, quando parla di lei, fa sempre una faccia strana: una volta le ha raccontato che era una persona che aveva tanti problemi.

Quasi senza rendersene conto, la bambina si alza e raggiunge il mobile della televisione. Allunga la manina verso la foto racchiusa nella cornice di metallo lavorato e segue con la punta delle dita i tratti del viso della giovane, il naso diritto, le labbra curvate in un sorriso un po’ triste, i boccoli chiari che le ricadono sulla fronte. Quando sente i passi pesanti di Margherita giungere dalla cucina, si affretta a tornare verso il divano. Sa che la vecchietta non vuole che tocchi quella foto. Forse ha paura che la faccia cadere e rompa il vetro che la protegge.

«Ecco qui» annuncia la donna con la sua voce raspante. Caterina si siede più compostamente e la guarda avvicinarsi strascicando i piedi avvolti nelle pantofole morbide: il suo passo è incerto e tremulo, ma dal bicchiere che regge tra le mani non esce una sola goccia. La bambina si dice che è perché il frullato di pesca e banana che fa Margherita è talmente denso che è difficile che trabocchi: a volte pensa che le converrebbe mangiarlo con un cucchiaino, piuttosto che cercare di versarselo in bocca come farebbe con qualsiasi altra bevanda.

Nonostante quella non sia esattamente la sua merenda preferita, la piccola ringrazia e si porta alle labbra il fluido dolce e viscoso. Solitamente, una volta che le ha portato lo spuntino, Margherita inizia a occuparsi di qualche piccola faccenda domestica: sguscia i fagioli, passa la scopa sotto il tavolo, attacca qualche bottone. Oggi, però, fa una cosa del tutto diversa: oggi apre l’ultima anta del mobile che si trova accanto alla porta del bagno, quella in basso a sinistra. Quella che è sempre chiusa a chiave. Ancora prima di vedere quello che sta facendo, Caterina sa che la donna sta prendendo la Scatola dei Tesori.

«Che cosa fai?» chiede comunque, dimenticandosi di colpo dei cartoni animati che inizieranno di lì a poco.

Con un gemito di dolore, la donna raddrizza la schiena e si dirige verso il divano tenendo tra le mani una vecchia scatola di latta che in origine aveva contenuto dei cioccolatini “Quality Street”. Il tempo ne ha sbiadito i colori e in alcuni punti la ruggine ha intaccato il metallo, ma la bambina riconosce il caratteristico motivo bianco e fucsia. Prendendo posto accanto a Caterina, Margherita solleva con qualche difficoltà il coperchio metallico. «Oggi lucido l’argenteria» spiega, posando la scatola tra sé e la ragazzina. «Voglio recuperare un po’ di catenine e di anelli che ho lasciato qui dentro, prima che diventino più neri del carbone.»

Caterina annuisce, ma non è interessata ai vecchi gioielli, lei. No: ciò che la attira veramente sono tutti gli altri oggetti strani e misteriosi che si trovano all’interno di quella scatola.

Accorgendosi dell’attenzione quasi maniacale della bimba, Margherita sospira. «Lo sai che non devi toccare niente, vero? Con quelle manacce che ti ritrovi mi rompi di sicuro qualcosa!»

Caterina fa del proprio meglio per assumere un’espressione contrita. Glielo dice ogni volta, ma poi, immancabilmente, la lascia frugare quasi a proprio piacimento. Posando il frullato sul tavolino, la bambina punta un dito in direzione di una pallina gialla e rossa. Potrebbe sembrare una di quelle che si appendono all’albero di Natale, se non fosse che non ha nessun gancio che possa ancorarla ai rami dell’abete. È divisa in due metà perfette di plastica semitrasparente e al suo interno è possibile scorgere un minuscolo campanello dorato. «Che cos’è, quella?» chiede. La sua è una domanda superflua, perché quella pallina l’ha già vista diverse volte e Margherita le ha già spiegato la provenienza di quello e di altri oggetti che si trovano all’interno della scatola, ma non fa niente: non è la risposta a essere importante, quanto piuttosto il racconto stesso.

È come quando la zia Simona, sorella della mamma, la convince a mangiare la cena più velocemente recitandole alcune fiabe di sua invenzione. Caterina lo sa benissimo, che alla fine del racconto l’anatroccolo ritroverà la mamma e il gigante regalerà il suo tesoro all’orfanella che l’ha curato, ma il modo in cui la zia interpreta il racconto la diverte sempre.

Margherita alza gli occhi al cielo e poi afferra la pallina con le dita rese nodose dall’artrite. «Lo sai benissimo, che cos’è. È una storia che ti ho raccontato un sacco di volte.»

Caterina le rivolge un sorriso smagliante. «Me la racconti un’altra volta?» supplica, consapevole che, in realtà, alla vecchietta non dispiace raccontarle delle vicende che la fanno ripensare a quando era più giovane.

Scuotendo il capo, la donna solleva la pallina e la porta all’altezza degli occhi della bambina. «Questa», dice, «viene da un circo che girava da queste parti all’epoca in cui la tua mamma aveva circa la tua età. C’era un orso, in quel circo: era un animale strano, perché, di solito, gli orsi hanno il pelo marrone…»

«… a meno che non siano orsi bianchi!» la informa Caterina, che guarda spesso Super Quark ed è quindi informatissima su tutto ciò che riguarda il mondo animale.

Margherita le rivolge un’occhiata severa e la bimba si morde la lingua, sapendo che non avrebbe dovuto interromperla. «Beh, quello non era un orso bianco» sbotta la vecchietta. «Quello era un normale orso bruno, solo che il suo pelo era biondo come i capelli di un bambino. Era una delle attrazioni principali del circo e durante il suo numero faceva un giro di pista camminando sulle zampe posteriori e tenendo questa pallina in equilibrio sul naso.» Interrompendosi brevemente, la donna agita la mano facendo tintinnare il sonaglio all’interno della sferetta di plastica. «Tra gli spettatori girava la storia che questa cosa portasse fortuna. Era una storia messa in giro dalle persone del giro non so più per quale motivo: dicevano che tenesse alla larga gli spiriti maligni.»

«Ma funziona davvero?» chiede Caterina, affascinata da quella storia come la prima volta che l’aveva sentita.

Margherita si stringe nelle spalle. «E chi lo sa. Da quando me l’hanno regalata, non ho incontrato nemmeno uno spirito maligno, quindi può darsi che funzioni veramente.»

La bambina annuisce: la risposta le pare soddisfacente. Distogliendo l’attenzione dalla pallina rossa e gialla, allunga una mano e con la punta delle dita pesca la statuetta di un cavallino. È una bestiola tozza, dai lineamenti grossolani scolpiti frettolosamente nel legno chiaro. Un tempo doveva essere ricoperto da una pittura bianca, perché, a tratti, il colore affiora ancora sulla groppa insellata, sul ventre protetto dalle zampe, sulla gola. «Questo da dove viene?» chiede, sollevando il cavallino nella parodia di un salto esagerato e facendolo poi atterrare morbidamente sullo schienale del divano. Mentre attende la risposta di Margherita, fa oscillare la statuetta, mimando quello che immagina essere un galoppo.

La vecchietta fa come per toccare a sua volta il cavallino, ma poi raccoglie le mani in grembo. Caterina sbircia la sua faccia e, per un attimo, i suoi occhi le sembrano tristi. «Quello è il regalo che una mia amica mi ha portato tanto tempo fa» spiega. «Viene dalla Francia, da un posto che si chiama Saintes-Maries-de-la-Mer.»

Il nome non le è famigliare, anche se lei in Francia ci va tutti gli anni, in vacanza al mare con la mamma e con il papà. «Che posto è?» chiede. «Un posto da gente ricca?»  Non sa perché, ma le sembra il nome di un posto chic, uno di quei posti pieni di villoni e di macchine di lusso.

«Non lo so» risponde Margherita. «Non ci sono mai stata, ma non credo. È un posto pieno di paludi e di campi di lavanda. Lo sai che cos’è, vero, la lavanda?»

La bambina annuisce. «Certo, che lo so!» conferma con un certo orgoglio. «Ce l’abbiamo anche noi, nella casa in città. La mamma la tiene in giardino.»

Mentre chiacchierano, Margherita toglie sistematicamente gli oggetti dalla scatola di latta e li sistema in due pile accanto a sé: da una parte i gioielli che intende lucidare, dall’altra tutto il resto. Ben presto, il fondo metallico viene alla luce e, con esso, una coppia di oggetti che fanno brillare di interesse gli occhi della bambina. «Posso vedere le chiavi?» chiede Caterina, quasi trattenendo il fiato.

La vecchietta le rivolge uno sguardo severo. «Va bene, ma stai attenta a non farle cadere: non sono giocattoli, queste.»

Con estrema cura, Margherita consegna alla bimba una coppia di chiavi antiche. Non misurano più di cinque centimetri l’una, ma le mani di Caterina sono piccole e, per precauzione, la bambina se le appoggia immediatamente sulle gambe nude, lasciate scoperte dai pantaloncini sdruciti. Mentre ne percorre le curve con la punta dell’indice, pensa che le piacciono tanto, quelle due chiavi. Forse perché sono troppo strane per poter veramente aprire qualche serratura. Sono perfettamente identiche nella forma – sembrano la versione rimpicciolita di una di quelle chiavi pesanti che servono per aprire e chiudere le porte delle stalle – ma la prima è fatta di una pietra così nera che pare inghiottire ogni singolo bagliore o riflesso, mentre la seconda, di un arancione intenso, sembrerebbe quasi di plastica trasparente, se non fosse per le mille scintille iridescenti che risplendono al suo interno. Sono unite da un nastrino di velluto rosso un po’ spelacchiato, il nodo che lo chiude talmente stretto che, ormai, se qualcuno volesse dividere le due chiavi, sarebbe costretto a tagliare il legaccio.

«Ma lo sai, a che cosa servono?» chiede la bimba, dopo qualche minuto di contemplazione silenziosa.

Margherita ha finito di pescare i gioielli dalla scatola dei cioccolatini e adesso vi sta risistemando dentro tutto quello che ne ha estratto, la pallina e il cavallino e tutti gli altri oggetti che Caterina non ha fatto in tempo a esaminare da vicino. Osserva con occhio critico una catenina che il tempo ha annerito e annodato e poi sposta lo sguardo sulla bambina. «Ad aprire delle porte» risponde.

Caterina aggrotta la fronte. Quella risposta tanto scontata le sembra sbagliata: lo sa bene, che le chiavi servono in generale ad aprire le porte, ma quelle? Quelle sembrano più ciondoli o soprammobili. Sembrano tanto fragili e la bambina è quasi sicura che si spezzerebbero, se venissero veramente inserite in una serratura. «Quali porte?» insiste, allora.

Margherita le rivolge uno dei suoi rari sorrisi. «Non me lo ricordo», dice, «o forse non l’ho mai saputo. Però le chiavi le tengo lo stesso: se un giorno dovessi trovarmi davanti a una porta chiusa, potrei provare ad aprirla con una di queste. O magari potresti farlo tu quando, tra qualche anno, io sarò morta.»

«Non morirai tra qualche anno» la contraddice la bambina a mezza voce. Non riesce a metterci troppa convinzione, in quelle parole, perché Margherita è davvero vecchia e non potrà vivere in eterno.

«Eh, car Signur!» sospira la donna. «Da vecchi si muore, nini. Meglio da vecchi che da giovani.»

Caterina la guarda senza sapere cosa dire. Non le interessa parlare della morte: sente che è un argomento che non la riguarda, qualcosa di lontano e confuso. Parlarne la mette a disagio: Margherita se ne accorge e cambia rapidamente argomento. «Se fai la brava e fai bene i compiti, te ne lascio in eredità una.»

La bambina sgrana gli occhi. «Una delle chiavi?»

La vecchietta annuisce. «Sì. Quale preferiresti?»

La piccola esita. Vorrebbe dire che è indifferente, che le piacciono entrambe, ma poi pensa che quella arancione ha un colore più bello e che brilla come se avesse il fuoco dentro. Fa per rispondere che vuole quella, ma, mentre le osserva ancora una volta entrambe, il suo sguardo cade sulla chiave più a sinistra, quella nera. La pietra liscia è più scura della notte e altrettanto impenetrabile. La bambina fissa quel nero e vi si perde dentro: per un istante infinito, le pare di fissare un’acqua cupa e profonda, quieta e antica. La vede oscillare, arricciarsi in increspature infinitesimali, e vede l’ombra che vi striscia sotto, che si contrae e guizza, una forma che ha in sé mille forme diverse.

«Voglio questa» dice, e la sua mano si chiude con decisione sulla chiave nera. Non appena le sue dita sporche di inchiostro viola si sono serrate sulla pietra fredda, però, la mano ruvida di Margherita vi cala sopra e, con gentile fermezza, le schiude.

Vedendosi sottrarre il proprio bottino, la bambina le lancia uno sguardo tradito, ma la vecchietta le rivolge un sorriso che, questa volta, sa un po’ di presa in giro. «Ho detto che te la do quando sarò sottoterra e quando avrai imparato a fare i compiti senza sbirciare sulla pagina delle soluzioni.»

Caterina è tentata di farsi venire gli occhi lucidi di lacrime e di sporgere un po’ il labbro inferiore nell’imitazione di un pianto incipiente, ma poi si trattiene. Non è più una bambina piccola e, comunque, con Margherita quelle sceneggiate non funzionano. «Ok» si arrende, lasciandosi ricadere contro lo schienale del divano. La donna la guarda come se volesse dire ancora qualcosa, ma la bambina pensa che, se non può avere subito quella chiave che l’affascina tanto, allora tanto vale cambiare argomento. Decisa a chiudere la questione, afferra il telecomando e lo punta verso il televisore. «Allora adesso posso guardare i cartoni?»

Margherita sembra colta di sorpresa dal brusco cambio di rotta della conversazione, ma poi scrolla la testa e sospira. «Va bene, va bene, guardali: io vado a cercare l’Argentil.» Così dicendo, la vecchietta raccoglie la manciata di gioielli d’argento che si è depositata in grembo e, alzandosi dal divano con un gemito di fatica, si dirige un po’ barcollante verso il tavolo ancora ingombro di vasetti di marmellata.

Accoccolata sul divano, Caterina si perde nel suo cartone animato e, almeno per il momento, si dimentica di tutto il resto.   

   
 
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