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Autore: _Lightning_    03/06/2019    5 recensioni
Nataša si ritrova a indugiare a lungo davanti alla porta di Tony. [...]
Potrebbe bussare, ma si guadagnerebbe solo una risposta aspra, o più probabilmente un silenzio sterile. Così si limita a trafficare per pochi secondi con la serratura, aprendola con uno scatto metallico e scivolando dentro in un sol gesto, chiudendo poi la porta dietro di sé.

[Post-Infinity War // Hurt/Comfort // Tony&Nat // PoV Nataša]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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2. Della Mente
 
 
 
“Would someone care to classify
Our broken hearts and twisted minds?”


 
Il minuto richiesto si moltiplica, ma Nataša aspetta e continua a pulirgli la ferita, ascoltando il suo respiro che ogni tanto inciampa nelle fitte. Non l’ha mai visto così esausto, neanche dopo New York, e i suoi occhi non sono mai stati così scuri e distanti, oscurati da un vuoto che avverte lei stessa. Le arpiona il petto e le stringe la gola, allargando i propri contorni seghettati nel tentativo di inghiottirla, ma ha imparato molto tempo fa come arginarlo.
 
Si concentra sui propri gesti meccanici cercando di sgombrare la mente, come quando prima di una missione smonta, pulisce e rimonta tutte le sue armi in un automatismo acquisito negli anni che le permette di fare ordine nei propri pensieri.
 
Finisce di applicare con delicatezza l’antibiotico sulla piaga, e, nel momento in cui inizia ad avvolgere la garza attorno al suo busto, Tony si riscuote dalla propria impasse. Alza un poco il capo per guardarla, le sopracciglia aggrottate con durezza a incupirgli il volto, e butta fuori d’un fiato la stringa di parole che ha trattenuto finora:
 
«In Siberia ho scoperto che Barnes ha ucciso i miei genitori.»
 
Nataša si blocca, la garza ancora stretta tra le dita e gli occhi sgranati. Tony conficca le pupille dilatate nelle sue, scrutandola come a stabilire se lo sapesse o meno. Quella frase si pianta dentro di lei, la trapassa, va a riaprire ferite mai del tutto curate e spalanca le porte della Stanza Rossa; al contempo, la sua mente incastra finalmente al posto giusto quel tassello mancante che ha continuato a sfuggirle per giorni – per due anni.
 
Nella frazione di secondo che impiega ad afferrare tutto ciò, il suo istinto ha la meglio e sterza appena in tempo, raddrizzando la sbandata emotiva prima che emerga del tutto. Realizza di non dover mascherare il proprio stupore, e che allo stesso tempo non può lasciarne trasparire la reale entità – deve fingere, ma non del tutto – deve rimanere lucida, ma esternare una dosata punta di confusione. Ricorda il suo addestramento: mente libera, emozioni soppresse, sotto controllo. Le sente vibrare nella nuca come cani incatenati, premendo per espandersi nella sua testa e azzannarla con le loro fauci gelide.
 
«E Steve lo sapeva,» si limita a commentare, studiatamente a bassa voce.
 
Solo Clint riuscirebbe a percepirne l’increspatura, e solo James riuscirebbe a ricondurla all’emozione che l’ha causata. Anche Tony è percettivo, più di quanto lasci trasparire, ma la macchia d’inchiostro che si allarga nei suoi occhi scuri è frutto di una sfiducia innata, non di sospetti fondati.
 
«Sì,» replica solo, lapidario. «Tu no, a quanto pare,» continua poi, lentamente, misurando quelle parole come se temesse che siano troppo aguzze per non ferirlo mentre le pronuncia.
 
Nonostante ciò, Nataša percepisce un picco di vivo sollievo nel modo in cui lo dice, pur sempre intriso di un sospetto non del tutto dissipato. Si sente torcere le viscere, come se qualcuno vi avesse riversato della soda caustica. Scuote in silenzio il capo, temendo che qualunque osservazione di troppo possa metterla a nudo più di quanto già non sia. Il freddo siberiano è infido, morde feroce ogni millimetro di pelle scoperta lasciando bruciature e geloni dietro di sé: lo conosce troppo bene per esporsi.
 
Lo fa rimettere seduto e termina di fasciargli la ferita in silenzio, cercando di non accelerare i movimenti rendendoli indelicati in risposta all’agitazione che si sta facendo strada dentro di lei. Sta tremando e quasi le sfugge la garza dalle mani, o forse è il suo cuore che trema di fronte all’ennesimo deragliamento che mette in subbuglio la sua vita. È un tremito di rabbia, di frustrazione, d’incredulità per tutto ciò che continua a ferirli – lei e Tony e Steve – per il gelo della Russia che non ha mai abbandonato né lei, né James, e che alla fine è riuscito a riportare a casa il fuggiasco, proprio nelle sue viscere più profonde e congelate.
 
Ripensa a quegli occhi amati altrettanto freddi, velati di ghiaccio, e al brillio che li ha illuminati per una frazione di secondo nell’incontrare di nuovo i suoi[1]. Quella scintilla di riconoscimento che forse ha immaginato, forse no – a cui forse vuole credere, ma sarebbe meglio di no.
 
Tony sembra ancora aspettare una sua reazione, e Nataša sa che la sua non è quella che si aspettava. Riesce quasi a vedere e sentire lo sfrigolio agitato delle sue sinapsi attraverso il suo cranio, mentre è intento ad arrovellarsi sulle più disparate ipotesi e congetture.
 
«No,» risponde infine lei mentre assicura la garza, nel tono più neutrale che le riesce.
 
Agisce come in sogno, con le mani appesantite dalla menzogna e la mente che guizza da un pensiero all’altro senza logica apparente – ma dentro di sé sa quale connessione ci sia tra l’odore di disinfettante e il dolore sordo che si risveglia nel suo basso ventre[2], e sa perché la macchiolina rossa che le ha sporcato la maglietta le sembri un abisso vermiglio e indelebile, e sa perché sente una fitta improvvisa alla testa che sembra attraversarla da una tempia all’altra con uno spillo rovente[3].
 
Si accorge di essersi bloccata troppo a lungo con le dita contratte sulla benda solo quando sente su di sé lo sguardo indagatore di Tony, che a questo punto è decisamente sul chi vive e rompe il proprio anomalo mutismo:
 
«Devi dirmi qualcosa, Romanov?» la incita, alzando le sopracciglia in quel modo saputo che sottolinea quanto sia retorica la sua domanda.
 
Lei non risponde e si alza invece rapida. Recupera alla cieca una maglietta dalla cassettiera addossata al muro e lo aiuta a infilarsela, approfittando della momentanea docilità di Tony probabilmente dettata dalla febbre, che sfortunatamente per lei non ha però inibito la sua perspicacia.
 
«Non lo sapevo,» ripete, e nonostante sia una mezza verità[4] sente quel sottile filo riparatorio tendersi tra loro, pronto a spezzarsi.
 
«Vorrei fidarmi, ma temo che finirei per rimanere deluso,» ribatte atono lui, rivolgendole uno sguardo che non ha neanche la forza di essere accusatorio.
 
Uno sguardo stanco, di chi farebbe meglio a lasciar andare tutto e si ritrova invece ad aggrapparsi ad ogni frammento sparso nel tentativo di ripararlo, guidato dall’istinto di chi vorrebbe aggiustare il mondo e se lo vede sfaldare sempre più tra le mani.
 
«Io vorrei dirti la verità, ma credo che proprio per questo non ti fideresti mai più di me,» sentenzia schiettamente lei, guardandolo fisso.
 
Le loro iridi, verdi e nocciola, si incontrano di sfuggita sembrando egualmente nere nella luce fioca.
 
«Di te già non mi fido,» sbuffa con ignaro buonsenso lui, ma Nataša blocca il suo sguardo su di sé, impedendogli di girare la testa con due dita puntate sul suo mento.
 
«Non puoi rimanere da solo. Non vuoi. E neanch’io,» aggiunge, anticipando la sua replica e lasciandosi sfuggire quell’ultima parte.
 
Tony non cerca di forzare la sua presa e la guarda negli occhi, in una tacita conferma delle sue parole. Si acciglia ancora, increspando la fronte in pieghe ormai abituali, e storce un angolo delle labbra verso il basso senza evitare il suo sguardo.
 
«Vorrei fidarmi,» dice all’improvviso, di getto.
 
Sfugge il suo tocco, puntando lo sguardo a terra.
 
«Io vorrei dirti la verità,» replica lei, pacata. «Pensi che sia un compromesso accettabile?»
 
Lui sorride appena, amaramente divertito: ha accettato di certo compromessi peggiori. Annuisce in un invito a continuare, e Nataša sente quasi lo schiocco del martelletto di un giudice in sottofondo, a segnare definitivamente quella che potrebbe essere una condanna, così come un’assoluzione, a seconda di come giocherà le proprie carte false.
 
È stata addestrata a irretire e circuire l’obbiettivo, a filare le parole una ad una per formare una tela inestricabile da usare a proprio vantaggio, ma qualcosa dentro di lei si oppone a farlo adesso con così tanta leggerezza. Tony non è un obbiettivo. E dopo quel poco che le ha rivelato, e tutti i sottintesi che ha tenuto per sé, sa che vorrebbe solo sentirsi dire le cose come stanno – e sa però che questo non le è possibile, non del tutto, non adesso. Forse un giorno, quando la verità non sarà più così affilata e non avrà più un manico per essere brandita. Per ora, deve maneggiarla con cautela per non recidere quel fragile intreccio riparatore che è riuscita a tessere.
 
«Conoscevo Barnes,» pronuncia quindi con fermezza, senza frenarsi.
 
Tony rialza di scatto la testa, sussultando per quel movimento brusco, e un coacervo di emozioni si dibatte sul suo volto. La rabbia è quella preponderante: si affaccia prepotente nel pallore improvviso che gli stinge gli zigomi, nella linea rigida della mandibola, nel fiotto venefico che gli invade gli occhi rendendoli ostili ed estranei per un istante. Ma non trabocca, e si limita a tremolare sotto la superficie in gorghi inquieti, come un mostro marino pronto ad emergere. Si morde le labbra, respirando più volte a fondo dal naso, per poi annuire rigidamente in un gesto meccanico, con un fremito che ancora lo scuote.
 
«Ok. Ok,» ripete, quasi balbettando, passandosi le mani sul volto, tra i capelli, prendendosi infine con forza la radice del naso tra pollice e indice fino a sbiancarsi la pelle. «Come?» stenta a proferire, lottando palesemente per mantenere un volume accettabile.
 
«Mi ha addestrata in Russia,» replica lei, laconica. «Tutto qui,» conclude, cercando di innalzare una barriera di sicurezza.
 
«Non è “tutto qui”,» la accusa lui, perdendo per un istante le redini del proprio autocontrollo.
 
«No, ma è tutto ciò che voglio dirti,» lo rimbecca lei, senza scomporsi. «Ho promesso di dirti la verità, non di dirla tutta
 
Tony la fissa risentito, i pugni contratti fino allo spasmo.
 
«Tu lo sapevi?» chiede di nuovo.
 
C’è una vena di disperazione in quella domanda, nonostante la facciata di fredda durezza che sta cercando di sfoggiare.
 
«Sapevi chi era, quello che aveva fatto?» la incalza ancora, e per la prima volta Nataša esita e forma a vuoto le parole, perché non può mentire, e allo stesso tempo deve farlo.
 
«Tony… non è così semplice,» comincia, con l’intenzione di seguire le tappe prefissate del discorso e allontanare entrambi dalla Siberia, ma nel dirlo sente la propria voce perdere consistenza.
 
Si immobilizza e lui la imita, bloccato nel principio di un’accusa pungente che non trova però sbocco. Nataša cerca di respirare appena e di scacciare la patina liquida che sente di nuovo sugli occhi, consapevole dello sguardo di Tony su di sé, consapevole di aver perso il controllo. Lui respira a fondo, si copre il volto con le mani per qualche istante e quando le ritira ha anche lui gli occhi lucidi, esausti.
 
«Cerca di essere convincente,» dice soltanto, con voce fioca, fissando la luminescenza del reattore nell’angolo come se potesse scacciare tutte le ombre che strisciano più dense attorno a loro.
 

 
 
“We all learn to make mistakes
And run from them, from them
With no direction
We’ll run from them, from them
With no conviction”
 
 
 
È semplice scegliere da dove partire. Ovvero dalla fine, o quasi.
 
Della Stanza Rossa e delle operazioni; del suo registro insanguinato e del Progetto Vedova Nera non vuole parlare. In realtà non vorrebbe parlare neanche di James, perché rievocarne la memoria le dà l’impressione di rivedere il pulviscolo cinereo che si disperde al sole, privandola di quella sagoma amata.
 
«Non sapevo neanche chi fosse James,» esordisce, serrando le mani tra loro per evitare di scivolare in tic nervosi che ha imparato a reprimere decenni fa. «In Russia, quando hanno scoperto… quando hanno scoperto il nostro piano di fuga, ci hanno resettato la memoria,» spiega nel modo più neutrale e conciso che le riesce, saltando le implicazioni e i dettagli e percependo il turbamento di Tony anche senza guardarlo. «Ho dimenticato chi fosse lui, e viceversa… finché non l’ho incontrato di nuovo.»
 
Nataša deglutisce, e costringe i suoi pensieri a procedere in fila indiana su binari diritti, impedendo loro di accapigliarsi confusi in un nugolo ronzante. Focalizza il bersaglio e tiene salda la mira.
 
«Ci siamo scontrati a Odessa, mentre ero in missione per conto dello SHIELD… mi ha quasi uccisa,» a riprova di quel fatto scopre per un istante il fianco sinistro, sul quale spicca una vecchia ferita ironicamente speculare a quella di Tony. «Non mi ha riconosciuta, evidentemente il controllo mentale era ancora troppo forte… io invece ho avuto un flash, dei ricordi che non sapevo neanche fossero miei,» arriccia le labbra, cedendo all’impulso di torcersi le dita, e tace per qualche istante.
 
Avverte in modo vivido la tentazione di esporsi del tutto, di dire, per una volta in vita sua, la verità pura e cristallina; di parlare del bunker a Camp Lehigh e dei segreti insanguinati che custodiva l’essenza di Zola; di ripetere l’eco dolorosa che continua a propagarsi dal 16 dicembre del ’91.
 
Ma anche se Tony è un amico e non un obbiettivo, la squadra e la sua unità lo sono. E anche se dopo molti anni ha imparato ad essere egoista, e che non sempre ciò è un male, non lo è abbastanza per arrogarsi il diritto di essere sincera.
 
«Quando hai ricordato tutto?» la incalza Tony, quando il silenzio si protrae troppo a lungo.
 
«Ho avuto un… presentimento durante l’incidente Insight[5], e un sospetto fondato a Lipsia. E lui non mi ha riconosciuto, era… non era lui,» conclude in fretta, con la propria facciata che cede per un istante rischiando di destabilizzarla del tutto. «Ho messo insieme i pezzi solo dopo, e quando l’ho fatto James era già in criogenia,» alza le spalle infine, con un rimpianto affatto fasullo che le brucia la gola.
 
Tony rimugina su quelle informazioni in un silenzio cupo, con le spalle incurvate e i muscoli in tensione.
 
«Se avessi saputo che quello dei miei non era stato un incidente…»
 
«Non lo sapevo.»
 
«Ma se l’avessi saputo…»
 
«Te l’avrei detto,» completa lei, senza esitare e con un dolore al cuore. «È stato il Soldato d’Inverno a compiere quegli omicidi, non James,» aggiunge poi, d’istinto.
 
Stavolta un’oscillazione sottile scuote le sue corde vocali di fronte allo sguardo interdetto di Tony, perché ha mentito per una vita intera e le bugie le rotolano sulla lingua con molta più scioltezza delle verità.
 
«Sei difficile da decifrare, di solito,» commenta lui, socchiudendo appena gli occhi a renderli più acuti; Nataša manca un battito, sentendosi colta in flagrante.
 
La fissa ancora per lunghi istanti, come se volesse leggerle attraverso, e per un istante Nataša teme che riesca a farlo, a dispetto di tutti gli anni in cui ha imparato a schermarsi dagli occhi altrui e a rendere impenetrabili i propri.
 
«Ma ci tieni, a lui. Lo ami,» dichiara poi Tony, senza sforzarsi di farla suonare come una domanda.
 
Nataša nota l’uso del presente, nonostante James non ci sia più. Sa che è volontario, perché anche Pepper non c’è più[6]. Non risponde, cosciente che quella di Tony è un’affermazione che non può coprire tutti i decenni che lei e James hanno passato a cercarsi, perdersi e ritrovarsi seguendo una promessa adesso diventata cenere.
 
«Pensavo di sapere cosa vuol dire essere annientati,» dice invece, rifugiandosi in quel concetto terribile, ma concreto e familiare. «Lo so adesso,» conclude con una piccola smorfia, senza guardarlo.
 
Vede le sue labbra fremere appena, nel principio di una frase, e lo anticipa:
 
«Non dirlo,» sbotta, seccamente. «Saresti ipocrita. Non ti dispiace davvero e non te ne faccio una colpa,» lo anticipa, rifiutando un’empatia che non si merita a prescindere.
 
«Mi dispiace per te,» continua comunque lui, ampliando l’intento iniziale, per poi bloccarsi come se fosse confuso dalle sue stesse parole. «E comunque la parte dell’ipocrita mi riesce molto bene,» scrolla le spalle, in un tentativo d’indifferenza che non gli riesce. «Quindi è per questo che l’hai lasciato fuggire, a Lipsia,» deduce poi, sviando il discorso.
 
«Anche.»
 
«Anche?» Tony serra la bocca, formando pieghe dure ai suoi angoli.
 
«A quel punto non eravamo più lucidi, e lo sai. Soprattutto voi due,» calca lei, senza battere ciglio, manovrando la discussione nella rotta che aveva prestabilito all’inizio.
 
Tony non trova di che ribattere, o forse, conoscendo la sua risposta pronta, compie un rapido bilancio di quanto poco vantaggioso sarebbe farlo. Nataša ne approfitta, sfruttando la sua incertezza.
 
«Li ho lasciati andare perché mi sentivo in colpa verso Steve, perché noi stavamo gestendo le cose nel modo sbagliato, perché Ross non avrebbe rispettato i patti e…» tentenna per un istante.
 
«E perché non volevi che Barnes fosse catturato,» completa Tony, senza difficoltà.
 
«È stato manipolato e imprigionato per tutta la vita: non volevo che finisse alla RAFT.»
 
«Neanch’io volevo che qualcuno finisse alla RAFT.»
 
«Ma sapevi che era una possibilità.»
 
Tony non lo nega, ma poggia i palmi sul materasso e inclina appena la testa all’indietro, come se stesse riflettendo su quel fatto.
 
«Lipsia è stata un errore. Uno dei tanti,» afferma infine, con cautela, come se si stesse addentrando in un campo minato.
 
Nataša annuisce appena, intravedendo una falla.
 
«Abbiamo tutti perso il controllo,» concorda ad alta voce, muovendosi agile sul filo delle proprie frasi. «Steve ha coinvolto Lang, io ho attaccato Clint, tu…» si interrompe, realizzando in ritardo che quello sarebbe un colpo troppo basso.
 
«… io ho reclutato il ragazzino,» conclude lui annuendo, stringendo la stoffa del lenzuolo tra i pugni. «Non c’è giorno in cui non mi penta di averlo trascinato , credimi,» aggiunge di getto, deglutendo come a ricacciare indietro troppe parole che stanno tentando di uscire.
 
Nataša coglie la doppia valenza di quell’affermazione, pentendosi di aver portato volutamente il discorso fin lì. Gli poggia una mano leggera sulla schiena, trovandola contratta e tremante, oltre che troppo calda.
 
«Vuoi parlarne?» gli chiede, deviando a suo rischio e pericolo dagli schemi e suscitando il suo sguardo confuso e ritroso. «Di Peter,» specifica poi, con più dolcezza.
 
Lui strizza gli occhi con uno spasmo, per poi sollevarli su di lei con un movimento esausto, e sembra che tutte le sue energie siano concentrate nel trattenere le lacrime. Una di esse straborda comunque, rigandogli a tradimento la guancia. Tony finge che non esista, e Nataša finge di non vederla.
 
«Ho detto: o la Siberia, o Titano. Hai già fatto la tua scelta.»

Esita, inghiottendo un groppo rumoroso, e lei gli permette di asciugarsi il volto senza essere visto, preservando così quella scintilla di testardo orgoglio che ancora lo anima, lo stesso che continua a tenere in piedi lei.
 
«L’ho perso, ed è stata colpa mia,» mormora poi, appena udibile. «Non c’è altro da dire.»
 
Nataša si limita ad abbassare lo sguardo nell'udire l’eco delle proprie parole[7].

In fin dei conti, il resto può immaginarlo.



 


Note:

[1] Qui ho lasciato margine d’interpretazione: può essere riferito sia alla missione a Odessa durante la quale è stata ferita dal Soldato d’Inverno, sia allo scontro a Lipsia, quando Nataša dice esplicitamente “potresti almeno riconoscermi”, riferendosi potenzialmente sia alla suddetta missione che ai loro trascorsi in Russia.
[2] Ricordo che la “cerimonia” di passaggio nella Stanza Rossa consiste nella sterilizzazione delle agenti, come mostrato e confermato in Age of Ultron dalla stessa Nataša e dalla sua visione.
[3] Sempre secondo il canon (e ringrazio nuovamente T612 per avermi messa a conoscenza di queste informazioni <3) Nataša ha subito dei drastici reset mentali tramite elettroshock, proprio come James.
[4] In questo contesto, non sapeva che fosse quella la causa dello scontro tra Steve e Tony: finora, pur avendo avuto qualche sospetto fondato espresso in Comunicazioni interrotte, ha sempre pensato che le cause principali della scissione fossero la divergenza d’opinioni sugli Accordi e la volontà di Steve di proteggere Bucky ad ogni costo.
[5] In Captain America: Winter Soldier sia Steve che Nataša scoprono tramite Zola che alcuni incidenti e assassinii nel corso della storia sono stati orchestrati dall’HYDRA, incluso quello degli Stark. Ora, anche dando per buono che all’epoca ignorasse ancora chi fosse il Soldato d’Inverno, Nat sa che la morte dei genitori di Tony non è stata accidentale, tanto più che alla fine del film consegna a Rogers il dossier del Soldato d’Inverno dove è riportata la sua intera attività di sicario. La storia è da leggersi in questa luce che pone Nat in una zona decisamente grigia, come d’altra parte ritengo doveroso per un personaggio come il suo, che non ha mai negato la propria ambiguità.
[6] Questo fatto è coerente con la long: quando iniziai a scriverla non era ancora chiaro chi fosse sopravvissuto o meno allo schiocco e ho sbagliato delle previsioni, appunto Pepper che è sopravvissuta e Shuri, citata in precedenza, che è invece scomparsa.
[7] Riferimento a Comunicazioni Interrotte.

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
dice il detto: perché fare due capitoli quando puoi farne tre? Come volevasi dimostrare, mi sono lasciata prendere la mano ed è venuta vuori una micro-long... spero non me ne vogliate :')
Ho scritto già abbastanza nelle note al testo, per cui mi limito a dire che titoli e testo della canzone hanno subìto delle lievi modifiche, e a ringraziare T612 e _Atlas_ che hanno commentato lo scorso capitolo e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste.
Grazie, e ogni commento è gradito <3

Alla prossima, sperando di aggiornare con più prontezza,

-Light-



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