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Autore: Imperfectworld01    05/06/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto finito


Non era stato lui. Dylan non c'entrava niente. Lucy non c'entrava niente. Mi ero sbagliata su entrambi.

Con Lucy era stato facile scusarmi e ricevere il suo perdono... ma con Dylan? Forse avevo rovinato tutto per sempre con lui. Non mi avrebbe mai perdonata. In fondo le mie non erano state proprio accuse da niente.

Ma la mia priorità al momento era, se non altro, farglielo sapere. Che gli credevo. Che mi fidavo di lui. E che non avrei mai più dubitato della sua parola né delle sue azioni.

Sfortunatamente, la campana che segnava l'inizio delle lezioni suonò dopo aver consultato il registro delle firme, così dovetti dirigermi subito in classe, rimandando le mie scuse con Dylan al prossimo cambio d'ora, che attesi con la stessa impazienza di un bambino che aspetta la mezzanotte la sera di Natale per poter aprire finalmente i regali.

Quando quel momento finalmente arrivò, uscii di fretta dalla classe e mi misi a cercarlo per ogni angolo dei corridoi. Avevo solo cinque minuti prima dell'inizio della lezione, e non avevo alcuna intenzione di rimandare ancora la nostra conversazione. Sospirai di sollievo quando lo vidi intento a parlare con alcuni dei suoi compagni di squadra, vicino agli armadietti.

Mi feci coraggio e giunsi alle sue spalle. I suoi amici si ammutolirono. Fra di loro riconobbi Gary, il quale sembrò fare un cenno nella mia direzione a Dylan, il quale subito dopo si voltò. Non appena incastrai i miei occhi nei suoi, sentii il respiro mancarmi. Il suo invece accelerò, come testimoniato dal suo petto che prese ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più frequentemente. Mi rivolse un'occhiata gelida, come l'ultima volta che ci eravamo parlati.

Poi si voltò verso i suoi amici, che annuirono comprensivi e ci lasciarono soli. Tornò a guardarmi, incrociando le spalle al petto. «Che cosa vuoi questa volta?» domandò.

A quel punto avrei dovuto iniziare a riempirlo di scuse, magari anche implorare il suo perdono, invece le parole mi morirono in gola. Quel suo sguardo, freddo e distaccato da una parte, impaziente e accusatorio dall'altra, mi metteva a dir poco sotto pressione.

Così sperai che i fatti riuscissero a esprimere ciò che io non riuscivo a dire a parole. Mi sollevai sulle punte e mi avvicinai a lui, poggiando le mie mani sulle sue guance. Si irrigidì all'istante e afferrò i miei polsi con le mani, con l'intenzione di allontanarli dal mio viso e riportarmelo lungo i fianchi. Tuttavia, aspettò a farlo. Il suo sguardo si addolcì un poco, e anche la presa sui miei polsi si fece via via sempre più leggera.

Allora cercai di diminuire la distanza che ci separava avvicinando lentamente il mio viso al suo. Dylan deglutì, spostando lo sguardo sulle mie labbra, sempre più vicine alle sue. Poi scosse la testa. «Oh, fanculo.»

Senza neanche darmi il tempo di rispondere, unì le sue labbra alle mie baciandomi con impeto e passione. Gli avvolsi subito le braccia attorno al collo, mentre lui affondò le mani fra i miei capelli. Avrei voluto far continuare quel momento all'infinito, tuttavia fummo interrotti poco dopo dal suono della campanella. Il lato positivo era che la prossima lezione ce l'avevamo insieme, così non avremmo dovuto separarci. Quindi, tenendoci per mano, ci dirigemmo in classe.

Una volta seduti, Dyl lasciò la presa sulla mia mano e mi diede un bacio sulla guancia. «Tu mi farai impazzire» disse sottovoce, rimanendo vicino al mio viso. «Non capisco più niente quando mi sei vicino» aggiunse.

«Scusami.»

«No, Meg, il mio era un complimento» disse, accennando un sorriso.

«Non mi riferivo a quello. Mi riferivo a ieri. Sono stata davvero una stronza.»

«In realtà, mi ha stupito più il tuo comportamento di oggi rispetto a quello di ieri. Com'è che hai cambiato totalmente idea nell'arco di ventiquattrore?» domandò.

«Be', potrei spiegartelo, oppure potrei direttamente mostrartelo» risposi.

•••

«Ce l'hai la tua chiavetta?» chiesi, mentre nel frattempo ci segnavamo nel registro delle firme, al cambio d'ora.

Annuì e me la passò. A quel punto, entrammo nell'aula dei computer. Ce n'erano almeno una ventina, così impiegai parecchio tempo ad avviare Power Point in ognuno di loro. Dylan nel frattempo mi fissava con le braccia incrociate e un'espressione a dir poco disorientata dipinta in volto. «Cosa stai cercando di fare?» chiese.

«Sh» lo zittii, prima di trovare, dopo aver girovagato fra i vari computer, il file che corrispondeva a quello sulla chiavetta. Fra i file recenti memorizzati all'interno del software, infatti, era presente quello del volantino con la mia faccia, prova che era stato creato a scuola. «Vieni qui» dissi a Dylan, il quale, sebbene fosse ancora piuttosto turbato, obbedì senza dire nulla e giunse al mio fianco. A quel punto cliccai su "File" e poi su "Informazioni", dove era presente anche la voce "Proprietà", in cui erano inseriti tutti i dati tecnici del file, inclusa la data della sua creazione. «Lo vedi? È stato creato il 2 ottobre, il giorno dopo che si è saputo della morte di Emily» spiegai.

Poi inserii la pen drive nell'apposito foro e aprii lo stesso file. Dopodiché, andai ancora una volta a visualizzare la data di creazione del file, per mostrargli che le date di creazione dei due file combaciavano. «Questo maledetto volantino è stato creato qui a scuola, in questo computer. Eppure il tuo nome non appare su quel registro all'entrata. Quindi ora so, per certo, che non sei stato tu.»

Il suo volto dava ancora qualche segno di confusione. Poi, tutto a un tratto, si rattristò, prima di assumere, infine, un'espressione più dura e fredda. «Wow, devo dire che ti sei data un granché da fare per trovare le prove che cercavi» disse con tono sprezzante.

«E con questo cosa vorresti dire?» domandai, non cogliendo dove volesse andare a parare.

Roteò gli occhi, visibilmente innervosito. «Sai, ho ancora impresso bene in mente il modo in cui mi guardavi ieri. Non eri solo arrabbiata o offesa, eri anche disgustata, mi guardavi quasi come se avessi appena tirato un calcio a un cucciolo di cane. Praticamente mi avevi già condannato a morte. Poi poco fa sei venuta qui, da me... ed era tutto finito.»

Lo fissai con un'espressione interrogativa in volto, senza comprendere il senso del suo discorso.

«Pensavo che fosse perché ci avevi riflettuto e avevi deciso di fidarti di me, non perché avevi trovato il modo di provare per certo la mia innocenza» continuò.

«Che differenza fa?»

Allargò le narici e chiuse le mani a pugno. «Che differenza fa? Se non avessi fatto le tue approfondite ricerche e non avessi scoperto ciò che hai scoperto, avresti continuato a ritenermi colpevole di tutto, ecco che cazzo di differenza fa!» esclamò.

«Ok, quindi vuoi dirmi che tu, al mio posto, non mi avresti accusata come ho fatto io?» chiesi. Era assurdo. Come avrei potuto credergli se le uniche prove che avevo, fino al giorno prima, erano tutte contro di lui?

«No, porca puttana, non avrei mai dubitato di te! Sei la mia ragazza e di te mi fido ciecamente, perché è così che funziona in una relazione: dovremmo fidarci l'uno dell'altra, a prescindere da qualsiasi cosa.»

Mi morsi il labbro inferiore, prima di incrociare le braccia al petto. «Lo sai che non... lo sai che non posso! Come posso, dopo tutto quello che è successo, continuare a fidarmi ciecamente delle persone che mi stanno intorno, se ho la consapevolezza che qualcuno, qui a scuola, è un vero assassino e ha ucciso la mia migliore amica? Mi dispiace, ma non riesco a fare a meno di mettere le mani avanti ed evitare di fidarmi del primo che passa.»

Sgranò gli occhi e mi guardò incredulo. «È questo che sono per te? Il primo che passa?»

«No, dannazione, è solo un modo di dire!» esclamai, sentendo le guance avvampare. «Mi sono espressa male, ok? Il fatto è che... quando dico che non riesco più a fidarmi di nessuno, dico sul serio, non dipende neanche più da me: davvero non ci riesco. Io... io ho dubitato persino di Tracey, l'unica amica che mi è rimasta, ma lei a differenza tua cerca di capirmi e non me lo fa pesare!»

I suoi occhi erano colmi d'ira, incredulità e quasi repulsione nei miei confronti. Non finirà bene, mi dissi, non finirà affatto bene questa conversazione.

Tentai di prepararmi psicologicamente alla sua sfuriata e alle urla che l'avrebbero accompagnata entro breve.

Eppure non fu così. Lo vidi tranquillizzare il suo respiro e tirare un ultimo e lungo sospiro, quasi come se non trovasse neanche più la forza di arrabbiarsi e di urlarmi contro.

E sapevo bene che in casi come quello, in cui la rabbia svaniva, entrava in gioco la delusione, e con lei l'indifferenza.

Fu così che mi guardò: con indifferenza.

«Dici davvero, Megan? Nominami qualcuno che abbia cercato di capirti più di quanto lo abbia fatto io. Ci provo da un mese, almeno. Sono sempre stato al tuo fianco, in ogni situazione, e ho perdonato tutte le tue stronzate colossali di queste settimane, perché tengo a te molto più di quello che avrei mai immaginato. Tu quando mi avresti dimostrato di tenerci? Non appena ti è sorto il dubbio che io potessi aver fatto qualcosa contro di te, non ci hai pensato due volte ad accusarmi e ad allontanarmi da te. Ma ora, francamente, mi sono stancato di correrti dietro. Adesso è il tuo turno.»

Aprii la bocca per ribattere, ma fui interrotta dal suono della campanella. Fosse stato per me, avrei continuato a parlare con lui per poter chiudere la conversazione in modo decente, ma Dylan sembrò pensarla diversamente, dal momento che uscì subito dall'aula senza neanche darmi il tempo di battere le ciglia.

•••

Non era quello l'epilogo che avevo immaginato. Pensavo che Dylan sarebbe stato contento per il fatto che avessi deciso di credergli, di certo non avevo previsto che il tutto sarebbe sfociato in quella lite disastrosa.

Da una parte capivo il suo punto di vista, mentre dall'altra non riuscivo a comprendere come potesse stupirsi del fatto che avessi cominciato a essere diffidente nei confronti di tutti. Una piccola parte di me era persino arrabbiata con lui per il fatto che non riuscisse a capire e ad accettare che stavo cambiando.

Se all'inizio l'idea di cambiare mi terrorizzava a dir poco, arrivata a quel punto, giorno dopo giorno non potevo non capacitarmi di quanto fosse stata la cosa migliore che mi fosse mai capitata. Io stavo cambiando. Stavo crescendo. Stavo imparando ad affrontare i problemi che mi si ponevano davanti con un approccio diverso, più razionale e maturo. Soprattutto, non ero più la ragazzina ingenua di un tempo. Prima c'erano tanti lati del mio carattere che non mi piacevano, tante cose che non apprezzavo del mio modo di fare, e soltanto adesso stavo iniziando a fare qualcosa di concreto per migliorare tutto ciò. Come poteva essere qualcosa di negativo?

"Se lui non riesce a capirlo, forse dovresti lasciarlo andare."

Però anche lui non aveva tutti i torti. Fino ad allora non avevo mai fatto niente di concreto per dimostrargli quanto tenessi a lui. Il più delle volte mi ero comportata davvero di merda nei suoi confronti. Anche senza farlo apposta, non avevo fatto che ferirlo.

In realtà, ci ferivamo a vicenda. Accadeva di continuo. A un giorno stupendo insieme a lui ne seguivano tre in cui non ci parlavamo.

Non appena Herman e Tracey si erano messi insieme, erano subito entrati nella tipica fase "luna di miele", in cui stavano appiccicati tutto il giorno e tutto sembrava roseo e pacifico.

Perché era così difficile? Perché io e Dylan continuavamo a scontrarci? E, soprattutto, valeva davvero la pena continuare in quel modo?

«Megan...» Mia madre aprì la porta della mia stanza, distogliendomi dai miei pensieri.

Restai per qualche istante sdraiata sul fianco sinistro, dandole le spalle e continuando a contemplare il nulla, prima di sollevare il busto e mettermi seduta sul letto. «Sì?» domandai.

Entrò nella mia stanza e si sedette al mio fianco sul materasso. «Com'è andata dall'avvocato Finnston?»

David non c'era stato nemmeno quel pomeriggio.

Non sapevo neanche spiegarmi perché mi importasse così tanto se ci fosse o meno. Avevo già troppe cose a cui pensare e lui non doveva rientrare fra quelle.

Scrollai le spalle. «Bene.»

Dopo avermi fatto qualche altra domanda, sentii le chiavi di casa girare nella serratura, prima di sentire la porta chiudersi, segnale che anche mio padre era tornato da lavoro. Lo sentii percorrere i passi che lo separavano dalla mia stanza e, in poco tempo, giunse davanti a me e mia madre. Aveva un piccolo sacchetto in mano, da cui poi tirò fuori una confezione di compresse per la notte.

A quella vista, mi si illuminarono gli occhi. La breve euforia nel vedere i farmaci si spense poco dopo, quando i miei genitori iniziarono a elencare una serie di raccomandazioni e indicazioni a cui avrei dovuto attenermi. Mi fecero leggere ad alta voce il foglietto illustrativo e mi fecero ripetere ciò che c'era scritto riguardanti l'utilizzo, le dosi e gli effetti collaterali. «Questo non è un gioco, Megan, ok?» domandò mio padre, e io annuii.

Dopo cena, invece che rifugiarmi subito nella mia stanza, mi trattenni in cucina. Mia madre prese un bicchiere e lo riempì d'acqua. Poi me lo passò. Misi in bocca la prima compressa e poi la mandai giù aiutandomi con l'acqua. Poi restituii loro la confezione di compresse e mi congedai in camera mia, mentre loro cercavano un luogo in cui custodire le mie medicine dove io non avrei potuto trovarle e, secondo loro, abusarne.

Una volta dopo essermi preparata per andare a dormire, mi stesi sul letto e sospirai, con un gran sorriso stampato in volto.

"Allora buonanotte, Megan" mi dissi da sola.

•••

L'indomani mi svegliai, per la prima volta, carica di energie. La sera prima ero crollata subito in un sonno profondo, intorno alle nove e mezza. Così, quando sentii la sveglia del cellulare suonare alle sette e un quarto del mattino seguente, non provai l'impulso di gettare il telefono fuori dalla finestra. Mi sentivo calma, tranquilla, riposata.

Notai che, anche a scuola, la mia concentrazione era già notevolmente migliorata rispetto ai giorni precedenti, riuscivo a seguire le lezioni senza quasi alcuna difficoltà, proprio come un tempo.

Quel giorno Tracey era assente perché doveva andare a fare le analisi del sangue e, in tutta sincerità, una piccola parte di me ne fu lieta.

Era stata lei a chiamarmi al telefono due giorni prima e a dirmi, insieme a Herman, che era stato Dylan a diffondere quei volantini, cosa che si era in seguito rivelata falsa. Quindi come ci era finito quel file sulla chiavetta di Dylan?

Ormai non sapevo più a cosa o a chi credere. Se non altro, l'assenza di Tracey avrebbe posticipato la mia decisione a riguardo.

A pranzo, mi sedetti di fianco ad alcuni miei compagni del corso di scienze. Riuscii ad avere con loro una conversazione normale, senza che mi guardassero in modo sospetto o che sussurrassero cattiverie o prese in giro alle mie spalle. Riuscii a sentirmi come una ragazza sedicenne che mangiava il suo pranzo in compagnia dei suoi compagni di scuola. Fu tutto molto spontaneo e... normale. Io mi ero sentita normale. Magari mi era passata la lebbra.

I primi problemi cominciai ad avvertirli una volta entrata dentro la casa dell'avvocato Finnston. O meglio, in realtà, quando ero ormai in procinto di andarmene. Quella era l'ultima volta che l'avrei visto prima dell'udienza. Avevo passato molto tempo a vaneggiare sull'udienza del giorno seguente, ma solo quando si fece realmente vicina, iniziai a provare una vera e vivace angoscia, quasi soffocante. Non sarebbe più stato solo nella mia mente: sarebbe successo davvero.

Il mio futuro dipendeva dalla sentenza del giudice. Innocente o colpevole. Libera o in prigione.

«Mi raccomando, cerca di riposare il più possibile stanotte e di essere rilassata domani.» Lo fissai con le sopracciglia inarcate e lui colse subito il mio scetticismo perché aggiunse: «No, dico davvero, il peggio non sarà domani. Alla prima convocazione di solito parlano solo la difesa e l'accusa, non sarai chiamata a deporre».

Forse avrei preferito non sapere quel particolare. Pensavo che sarei stata la prima persona interrogata. Una cosa del tipo "via il dente, via il dolore". «E quando dovrò farlo?» chiesi, con un nodo in gola.

Scrollò le spalle. «Tu per ora non preoccuparti.» Se c'era una persona che era ancora più impenetrabile di David, era certamente suo padre. Ma in fondo sta solo facendo il suo lavoro, mi dissi.

Perciò annuii, fingendo che quella risposta mi fosse bastata. «A domani, signor Finnston» dissi con un lieve sorriso, avviandomi verso la porta.

«A domani, Megan.»

Una volta fuori da casa Finnston, il senso di inquietudine che provavo a pensare all'udienza, si intensificò man mano che camminavo. Man mano che il tempo scorreva. Man mano che il fatidico momento si avvicinava.

Chissà se David verrà, mi chiesi a un certo punto.

Era altamente improbabile che andasse a vedere ogni processo del padre, ma in fondo c'era anche qualcosa di suo in quello che si sarebbe tenuto l'indomani. Era stato lui a prepararmi per la deposizione presso il dipartimento di polizia. Mi aveva sempre aiutato dandomi un sacco di consigli.

E poi... sì, ecco, volevo vederlo. Ne avevo bisogno. Per quanto suonasse assurdo, avevo bisogno di sentire una di quelle sue frasi che erano un misto fra uno spiccato sarcasmo e pura antipatia, che mi facevano sempre saltare i nervi, ma che erano anche terribilmente vere. Almeno mi avrebbero tenuta occupata la mente su quello e non avrei pensato a quella dannata udienza.

Ma comunque l'udienza era fissata per le dieci e qualcosa mi suggeriva che suo padre stesse tenendo sotto controllo la sua frequenza alle lezioni universitarie, perciò avrei dovuto farne a meno.

Scossi la testa con vigore per cercare di scacciare quei pensieri ridicoli. Non era di David che avevo bisogno, ma di un bravo avvocato. E ce l'avevo già: suo padre. Non lui. Suo padre.

«Ciao, Megan.»

   
 
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