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Autore: NPC_Stories    17/06/2019    3 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Famiglia, amici e alleati di vecchia data


Jaylah era una bambina con una missione. Anzi, di più. Con uno scopo nella vita.
Il fatto che avesse scoperto la sua vocazione solo il giorno prima non la rendeva meno vera, o così sembrava a lei.
Per capire meglio la situazione, però, è necessario fare un passo indietro.
Il giorno prima, dopo aver mangiato la torta con quella simpatica signora del pub, la bimba era tornata fuori per giocare con i suoi amici (ogni dissapore era già stato dimenticato). Solo che purtroppo non li aveva più trovati, perché si erano spostati in un altro punto della città. Jaylah era sicura che suo padre fosse ancora in quel posto che puzzava di schifezza, quindi non aveva voluto cercarlo. Nel frattempo, vedendola gironzolare da sola, un elfo che non conosceva si era affiancato a lei e si era chinato per parlarle faccia a faccia.

“Aaye, signorina” la salutò lo sconosciuto. “Ti sei persa?”
Jaylah lo guardò in tralice. Sua madre le aveva sempre raccomandato di non parlare con gli estranei, ma in questa città di elfi aveva l'impressione che valessero regole diverse. Tutti parlavano con tutti, e sembrava che suo padre si fidasse di ogni singolo abitante di Myth Dyraalis.
“No. La mia nonna abita qui vicino.” Spiegò, agitando una manina in modo noncurante. “Io cercavo i miei amici pe’ giocare, ma non ci sono più.”
“Posso aiutarti a trovarli, se vuoi. Mi chiamo Aelrindel, sono un ranger.”
Il visetto scuro di Jaylah si illuminò. “Anche il mio papà è un ranger!” Esclamò tutta contenta, dimenticando ogni diffidenza.
“Sì, lo so. Johlariel Arnavel, uno dei migliori ranger della foresta. Tutti conoscono tuo padre. E anche tuo zio. Per me sarebbe un onore aiutarti a ritrovare i tuoi amici.” Sorrise in modo bonario davanti alla sorpresa della bambina. “I ranger aiutano le persone, lo sai?”
La bambina rimase estasiata per la scoperta che anche suo padre fosse uno che aiutava le persone. Accettò di farsi aiutare e il giovane elfo la caricò sulle spalle, in modo che potesse vedere più lontano e che non si stancasse troppo. Myth Dyraalis è una città grande, quando le tue gambe sono tanto corte.
Dopo aver battuto le vie principali (e salutato molti elfi di passaggio), decisero di inoltrarsi in qualche sentierino laterale… e fu lì che Jaylah vide qualcosa che le fece completamente dimenticare i suoi propositi.
“Lì! Quello! Che cos’è?” Tirò una ciocca di capelli al suo galoppino, che trattava già con familiarità.
L’elfo deviò lo sguardo verso la direzione indicata dalla piccola e vide qualcosa di minuto e colorato per terra. Si avvicinò, ma temeva di sapere cosa fosse.
“È un uccellino” notò.
“Perché non vola?” Inquisì la bimba. “Gli uccellini stanno in cielo!”
Il ranger si chinò e poggiò a terra Jaylah, poi con molta delicatezza raccolse l’uccello. Era vivo, ma aveva un’ala spezzata. Per forma e dimensione era simile a un pappagallino, il piumaggio era di un rosso vivace che virava verso l’arancione sulle penne delle ali e della coda, e il becco e le zampe erano grigio-neri. I suoi occhi non rivelavano una particolare intelligenza, ma quando aprì il becco, fu per parlare.
“Molto lieto di non averti mai visto prima” recitò, con una vocetta squillante.
Il volto di Aelrindel passò rapidamente dalla preoccupazione alla curiosità, poi alla rassegnazione.
“Oh… non è un normale uccellino. È un corollax. Anzi, è il corollax.” Jaylah lo guardò senza capire, ma lui si limitò a sospirare. “Molto tempo fa, tuo zio ha trovato questo uccellino in un mercato, lo ha comprato e poi lo ha liberato qui, perché c’erano delle femmine. Da allora lo stormo di corollax è cresciuto molto, e ora che ci penso… questo uccello dev’essere abbastanza vecchio. Si è rotto un’ala, vedi? Non può più volare. Credo che sia arrivato alla fine.” Lo disse in tono del tutto neutro, perché gli elfi dei boschi sono abituati al ciclo della vita, e quindi all’idea della morte. Non aveva considerato che Jaylah era ancora troppo piccola per simili discorsi.
La bimba spalancò gli occhi e scoppiò a piangere all’improvviso.
“No… ehi… signorina… non piangere” il ranger cercò di calmarla, senza molto successo. Aelrindel era troppo giovane per avere figli, non capiva i bambini e non si aspettava quella reazione viscerale.
“Uccellino sta male” si disperò la ragazzina. “Vollio che vola di nuovoooo” lamentò, trasformando le parole in versi di pianto senza nemmeno riprendere fiato.
Aelrindel si stava già pentendo di essersi offerto di aiutare questa piccola piaga ambulante.
“Va bene, senti cosa possiamo fare… troveremo qualcuno che lo guarisca.”
Jaylah si calmò un pochino e il suo pianto disperato divenne una specie di singhiozzo. “Sì… lo doviamo curare! La mia mamma sa come si fa, ma…” altra piccola crisi di pianto “Lei è tanto lontana”.
“C’è qualcun altro a cui possiamo chiedere. Magari un druido.” Propose, in tono ottimista.
“Co… cos’è un dudo?”
“Lo vedrai.” L’elfo si assicurò che l’uccellino riposasse comodamente nella sua mano, poi si chinò per consentire a Jaylah di risalire sulla sua schiena. “Andiamo a cercare lady Merildil.”
Fu così che quel giorno Jaylah scoprì un sacco di cose interessanti. Per esempio, che sua zia Merildil era una druida, e che poteva guarire gli animali con una carezza e un piccolo incantesimo. Scoprì anche che con l’arrivo della stagione fredda molti uccelli si ferivano, a causa della differenza di temperatura fra la città e la foresta all’esterno, perché passare da un clima all’altro causava scompensi di pressione e problemi nel volo (ovviamente non capì una parola di tutto questo, ma nella sua fantasia l’inverno si prospettava come una stagione in cui gli uccelli si sarebbero schiantati a terra dal cielo, a pioggia).
Scoprì anche che il corollax è un piccolo grazioso animale magico che può imparare a ripetere alcune frasi come un pappagallo, e che quel corollax in particolare conosceva un sacco di parolacce.
“Zia Mary” chiamò, perché il nome Merildil per lei era troppo complicato. “Che cosa vuol dire na… dou… uan?” si sforzò di ripetere la parola così come l’aveva sentita.
“Non vuol dire niente” spiegò la druida, con fretta eccessiva. “Ma tu non lo devi ripetere mai.”
“È una parolaccia come vyshaan?”
“Chi ti ha insegnato queste brutte parole? Ah, non dirmelo, è stato tuo zio.” Indovinò, e ovviamente aveva ragione.
“Vento di culo esce dalla tua bocca!” Intervenne il corollax, puntuale.
“Ancora qui sei, tu? Sciò, vattene via, torna al tuo stormo!” Merildil cercò di cacciare l’uccello, ma il piccoletto svolazzò a pochi metri di distanza e si posò su un ramo, fissandole con sguardo vacuo.
Visto che non riusciva a convincerlo con le buone, Merildil scoccò al pennuto un’occhiata di fuoco e si trasformò in una grossa aquila nera. Riconoscendo all’istante un predatore pericoloso, il corollax prese il volo con tutta la rapidità concessa dalle sue ali nuovamente sane. Il grido confuso di “schiodati dalle palleeee” accompagnò la sua fuga disordinata.
Merildil tornò alla sua normale forma elfica, con espressione annoiata, come se avesse appena svolto una fastidiosa incombenza quotidiana. Non si era accorta che adesso la giovane figlia di suo nipote la stava guardando con occhi sgranati.
“Tu… zia… eri un uccellino… poi eri di nuovo tu!” Boccheggiò la bambina, colma di meraviglia.
“Ma certo.” Merildil aggrottò la fronte, senza capire la sua sorpresa. I bambini elfi assistevano fin dalla primissima infanzia a simili prodigi. “Sono una druida.”
A Jaylah brillavano gli occhi, e non serviva la telepatia per indovinare che in quel momento stava pensando una cosa sola: anch’io!
“Dai, su” sospirò Merildil, prendendola in braccio e mettendosi in cammino. “Ti porto dalla nonna. È quasi ora di pranzo e sarà preoccupata per te.”
“Non ho fame” protestò Jaylah, divincolandosi fra le braccia della zia. “Non vollio la pappa, vollio essere una dudula!”
“Quando sarai grande, tesoro” promise l’elfa, sapendo che per allora la ragazzina avrebbe potuto cambiare idea seicento volte. “Nel frattempo pensa solo a crescere forte e sana.”
“Ma ho mangiato la torta prima” assicurò Jaylah “con quella signora carina che si dà i baci co’ lo zio Daren”.
Questa volta Merildil si fermò di colpo. “Quale signora carina?”

E questa è la storia di come Jaylah si era messa in testa di avere una missione: salvare tutti gli animali feriti della foresta (soprattutto gli uccellini), e diventare una druida.
È anche la storia di come Merildil era venuta a sapere della relazione semi-segreta fra Amaryll e Daren, ma la moglie del capoclan sapeva essere discreta se la situazione lo richiedeva.
Non disse nulla di quella scoperta a lady Hinistel, quando andò a riportarle Jaylah, ma le raccontò dell’incidente con il corollax. Era il caso di spiegare alla veggente come mai da dieci minuti la bambina stesse facendo finta di potersi trasformare in qualsiasi animale.

Il giorno dopo quel gioco non le era ancora venuto a noia. Johel trovava che le fantasticherie della figlioletta fossero divertenti, quindi l’assecondava fingendo di credere alle sue trasformazioni. Dal momento che nessun altro lo faceva, però, Jaylah cominciò presto a mettere il broncio.
“Papà, non ci credono che sono diventata un lupo!” Protestò, immusonita.
Johel ci pensò per qualche secondo. Non aveva molto tempo per arginare i capricci di sua figlia, perché suo zio Fisdril aveva richiesto la sua presenza verso metà mattina (anche se non gli aveva spiegato il motivo). Però aveva in mente una soluzione veloce.
“I lupi sono troppo grandi, per questo nessuno ti crede. Ho in mente un animale più piccolo… se mi permetterai di acconciarti i capelli e pitturarti la faccia con un po’ di argilla bianca.”
Jaylah gli sorrise entusiasta, era sempre molto felice quando suo padre l’aiutava nei suoi giochi.

Un paio d’ore dopo, mentre Johel aspettava qualcosa nella radura della piazza principale insieme a suo zio, una bambina con una missione si aggirava per la città in cerca di animali da soccorrere.
Non aveva ancora familiarità con la città, ma non aveva paura di allontanarsi da casa. Ormai aveva capito che le bastava trovare un adulto qualsiasi, perfino uno gnomo, e chiedere aiuto. Nessuno a Myth Dyraalis si sarebbe girato dall’altra parte davanti a un bambino che diceva di essersi perso.
Alla fine trovò qualcosa. Un uccellino che saltellava sul terreno, esplorando l’area con grande interesse. Per dimensione poteva sembrare un passerotto, ma era il più bello che Jaylah avesse mai visto: azzurro come il cielo terso, paffuto e tenerissimo.
“Uccellino! Perché non voli?” Domandò la bimba, avvicinandosi di corsa. Lo scricciolo saltellò lontano da lei, spaventato da tanta irruenza.
“No uccellino, no' ss-cappare! Ti vollio aiutare!”
Jaylah si fermò e cercò nella tasca il mangime per uccelli che suo padre le aveva dato. Estrasse una manciata di semi e li gettò addosso allo scricciolo, a pioggia.
L’animale chiuse gli occhi e sopportò quel trattamento rude, ma poi si mise subito a beccare i semi. La bambina si avvicinò più lentamente e poi poggiò una mano a terra, perché suo padre le aveva insegnato a fare così. Sulla sua mano c’era ancora qualche seme, e quando lo scricciolo ebbe finito di banchettare saltellò fino alla mano di Jaylah.
Soddisfatta, la bambina avvicinò anche l’altra mano e riuscì a intrappolare lo scricciolo blu fra le mani a coppa. Senza mostrare preoccupazione, l’uccellino continuò a becchettare i semi prima che scivolassero fuori dalle piccole mani.
“Smetti uccellino, mi pizzichi” lo rimproverò Jaylah, poi si mise in marcia per cercare qualcuno che le prestasse aiuto.

Nello stesso momento, alla Porta delle Spade, una piccola delegazione di elfi dei boschi ed elfi selvaggi stava facendo il suo ingresso nella città segreta. Tazandil li aveva scortati fin lì, e aveva un’espressione mortalmente seria, perfino più del solito. Cupa, addirittura.
Il gruppetto contava una dozzina di persone fra cui, straordinariamente, alcune femmine anziane e un paio di bambini. Avevano tutti un’aria greve, dal più fiero dei guerrieri al più giovane dei ragazzini, come se condividessero un terribile peso.
I guerrieri lasciarono le armi alla Porta com’era usanza, tranne Tazandil perché era un ranger di Sarenestar, e si incamminarono insieme verso sud lungo il sentiero principale che portava al centro città. Gli elfi di Myth Dyraalis li guardarono passare in silenzio ma con sguardi curiosi, perché nessuno li aveva avvisati di quella visita. Era strano ricevere improvvisate da altri elfi, specialmente elfi selvaggi, con cui non avevano molti contatti. Ad ogni modo gli ospitali abitanti di Sarenestar accolsero il gruppo con cenni di saluto e di benvenuto, ma vennero ricambiati a malapena. L’atteggiamento di questa delegazione cominciò presto a dare nell’occhio, e i nuovi arrivati si lasciarono alle spalle una scia di mormorii perplessi e ipotesi sussurrate con nervosismo.

Uno di loro, un giovane elfo dei boschi con le lunghe sopravvesti di un chierico, si stava sforzando perlomeno di rispondere ai cenni di saluto. Presto rimase indietro e gli altri non fecero nemmeno il gesto di aspettarlo, quindi cercò di allungare il passo. Si sentiva già abbattuto, depresso e preoccupato per la situazione della sua foresta, e la scarsa considerazione dei suoi compagni stava scavando nel solco della sua frustrazione. Poteva tollerare di dover far fronte a gravi problemi, o poteva tollerare di essere poco considerato dagli altri, ma non entrambe le cose insieme.
Purtroppo il suo proposito di sveltire il passo fu del tutto vanificato quando la sua veste si impigliò in qualcosa. Pensando che fosse solo un arbusto, l’elfo diede un leggero strattone, ma la cosa che aveva agganciato quel lembo di tessuto non voleva mollare la presa. Si voltò infastidito, e si trovò a fissare due enormi occhi verdi che ricambiarono il suo sguardo.
Una… una cosa che probabilmente era un bambino aveva afferrato la sua veste con una manina sporca di terra. La cosa era alta quanto uno gnomo, ma non ne aveva la forma. Le orecchie erano senza dubbio elfiche. I capelli erano di un biondo chiarissimo, acconciati in modo da formare due piccoli chignon alti ai lati della testa. Il viso era dipinto in modo strano, una striscia bianca correva in verticale dalla fronte alla bocca, ma il nasino era dipinto di marrone scuro. La polvere bianca deviava dalla bocca in due coni laterali, andando a illuminare le guance. I luminosi occhi chiari invece spiccavano sulla pelle scura come il legno di noce, perché anche l’area che scendeva dai lati della fronte al naso era pitturata di marrone. Una manina altrettanto scura era ancora saldamente chiusa intorno ad un orlo della sua veste. La cosetta sporse l’altra mano, in cui teneva (piuttosto goffamente) un uccellino azzurro.
“Tu sei magico? Lo puoi curare?”
Il chierico sbattè gli occhi un paio di volte, perplesso. Guardò con curiosità il bambino, che forse dopotutto era una bambina. Sì, a giudicare dalla voce sembrava una femmina.
“Uh…” mormorò, con l’incertezza di chi non ha esperienza con i piccoli. Provò a dare un altro discreto strattone, ma la bimba non mollò la presa. “Non ho tempo adesso. Devo andare a incontrare il capoclan nella radura centrale.” Si guardò frettolosamente alle spalle, i suoi compagni ormai erano spariti dietro una macchia di alberi fitti.
“Ah” il sorriso della piccola vacillò un pochino. “Ma lo so io dov’è. Ci vado sempre a giocare! E mentre che andiamo puoi curare il mio amico?” Tentò di nuovo, sporgendo l’uccellino verso il chierico.
Il giovane elfo dei boschi aveva un occhio clinico per ferite e malattie, perfino degli animali, ma a prima vista non notò nulla di strano in quello scricciolo blu, a parte il fatto di non essere una specie autoctona.
“Che cos’ha? Lo posso curare se mi indichi la strada per la radura.”
Jaylah gli girò intorno e cominciò a trascinarlo per la veste.
“Questa via!” Affermò allegra. “E sai… l’uccellino non vola. Penso che sta male.”
Il chierico affrettò il passo per non inciampare nella sua stessa veste, che ora si avvolgeva in modo infido intorno alle sue gambe. “Va bene, passalo a me, ci penso io.”
Jaylah rallentò il tempo sufficiente per passare l’uccellino di mano, senza grandi scossoni. Il chierico lo soppesò per un attimo, guardò le sue ali, tastò la piccola pancia piumata (e per poco non inciampò in una radice perché non stava più guardando dove metteva i piedi), e alla fine aprì bene la mano, per permettere all’animale di prendere il volo.
Lo scricciolo blu, scombussolato per quel trattamento invasivo, beccò un dito dell’elfo e spiccò il volo con aria sdegnosa.
“Lo hai curato!” Trillò Jaylah, al colmo della felicità.
“Non era ferito.” La corresse lui. “È solo grasso. Ma tu chi sei, e perché ti interessi agli uccellini?”
Nel frattempo i due cominciarono a sentire i suoni di molte voci concitate davanti a loro.
“Sono un tasso. Non lo vedi?”
Il sacerdote ancora una volta non seppe cosa rispondere. Sì, adesso le strane pitture facciali finalmente avevano un senso, ma non pensava che i bambini di Sarenestar giocassero in questo modo. Avrebbe potuto dire qualcosa di carino, come Oh, sì, certo che sei un tasso, oppure Ora che me lo fai notare, si vede, invece gli uscì solo un patetico “Perché?”
La piccola lo guardò come se non aspettasse altro che quella domanda. In tono gongolante e magnanimo, spiegò: “Perché sono una dudula, come la zia Mary!”
L’elfo sbatté le palpebre un paio di volte, in silenzio. Non aveva capito niente, quindi decise di smettere di chiedere.
In quel momento per fortuna arrivarono alla radura, proprio alle spalle degli altri elfi. Il giovane chierico sperava che nessuno si accorgesse del suo ritardo, ma purtroppo la bambina lo tradì ancora una volta.
“Zia Mary!” Gridò, tutta felice, e si lanciò in avanti di corsa, sgusciando fra le gambe di tutti quegli adulti finché non riuscì a raggiungere la dama che stava in piedi vicino alla porta della Sala del Consiglio.
Gli altri elfi della delegazione si accorsero che il loro compagno era appena arrivato, ma non dissero nulla. Il giovane percepì di nuovo che non c’era astio da parte loro, solo disinteresse. Non sapeva se la cosa lo facesse sentire meglio, o peggio.
Erano giustamente impegnati a conversare con un elfo dei boschi dall’aria regale, anche se non portava corone. Il chierico rimandò a mente quello che sapeva sulla foresta dei loro vicini meridionali: non era una monarchia, come Shilmista. La popolazione elfica di Sarenestar era divisa in clan, e avevano dei capiclan. Quest’elfo doveva essere il principale capoclan del bosco, perché faceva gli onori di casa con grande solennità. Accanto a lui c’era l’elfa che era stata identificata come Zia Mary; stava bisbigliando con la bambina, forse per farla stare buona e tranquilla. La donna non aveva l’aspetto regale e quasi ultraterreno del capoclan, al contrario la sua espressione e la sua gestualità suggerivano un carattere pragmatico. Fece un cenno con la mano e un grosso lupo nero comparve da dietro un cespuglio. La bambina trillò eccitata e si mise a correre per gioco, mentre il lupo la seguiva con andatura flemmatica. Il perfetto controllo che aveva su quell’animale selvatico rivelò senza ombra di dubbio che era una druida, anche se le vesti rituali e la corona di vischio avrebbero potuto essere indicazioni sufficienti.
“Voglio unirmi a lord Fisdril nel darvi il benvenuto nella nostra città sacra” recitò, una volta archiviato il problema della bambina. “Non solo come moglie del capoclan, ma anche come capodruido di Sarenestar. Da molto tempo non avevamo notizie dei nostri cari cugini di Shilmista. Che questa casa vi sia riparo.”
Le sue parole erano gentili, ma erano frasi di circostanza. Gli elfi della foresta di Shilmista non erano direttamente imparentati con i clan di Sarenestar; tutti gli elfi delle foreste del Faerûn meridionale avevano origini comuni ma risalivano a più di dieci millenni prima. Shilmista aveva una particolarissima organizzazione sociale, la zona meridionale era abitata da elfi dei boschi mentre la metà settentrionale, a cui tutti erano assoggettati, era stata reclamata dagli elfi selvaggi. Quel fiero popolo non si era mai mescolato con elfi di altre etnie, per questo il loro numero stava diminuendo sempre più.
Gli elfi dei boschi erano la più giovane delle sottorazze elfiche, nati da unioni miste fra elfi della luna, elfi del sole ed elfi selvaggi a seguito delle Guerre della Corona. Erano una razza fiorita grazie a un accorato desiderio di pace e di fratellanza, e consideravano se stessi come amici di tutti gli altri elfi, ma erano vittime di un’innata soggezione verso quelle razze elfiche che consideravano più pure, più antiche. Per questo gli elfi dei boschi di Shilmista si consideravano poco più che ospiti nella loro stessa foresta, anche se l’abitavano da migliaia di anni, e sottostavano alla gerarchia degli elfi selvaggi. Re Galladel, il loro sovrano, era un monarca tradizionalista che aveva sempre puntato sull’isolamento della sua foresta e sull’evitare i conflitti. Spesso perfino gli elfi dei boschi vicini si chiedevano se il nomignolo di Shilmista, Foresta delle Ombre, fosse dovuto alle chiome fitte degli alberi oppure ai misteri che ammantavano quel popolo antico e chiuso.

Johel aveva conosciuto il vetusto re Galladel quasi cinquant’anni prima. All’epoca il coraggioso ranger di Sarenestar era riemerso dalle profondità della terra trascinandosi dietro un disperato gruppetto di elfi di Shilmista, che erano scesi nel Buio Profondo a cercare drow e duergar da uccidere. Johel aveva faticato molto a convincerli a rinunciare a quell’impresa suicida, e re Galladel gli aveva espresso personalmente i suoi ringraziamenti; nella sua prudenza, non voleva rischiare che le azioni avventate di quei guerrieri richiamassero l’attenzione dei nani grigi sulla sua preziosa foresta.
Da allora Johel non aveva più messo piede nel territorio dei loro vicini, ma considerato l’atteggiamento del popolo della Foresta delle Ombre, un contatto risalente a cinquant’anni prima era già segno di grande familiarità.
Chissà se è per questo che ora si trovano qui, si chiese, facendo scivolare lo sguardo su quel gruppetto eterogeneo.
La delegazione contava otto elfi selvaggi, di cui due bambini, cinque donne e un guerriero; in aggiunta c’erano due elfi dei boschi, un ragazzo appena alle soglie dell’adolescenza e un vecchio ranger. Johel non conosceva nessuno di loro, o almeno non li ricordava. Gli elfi selvaggi avevano un aspetto caratteristico, la loro pelle sui toni del marrone era nettamente più scura della sfumatura ramata o ambrata degli elfi dei boschi. Questi elfi in particolare non sfoggiavano molti tatuaggi, a differenza degli elfi selvaggi della Grande Foresta nel nord. Johel rimandò a mente le nozioni che aveva appreso sugli elfi selvaggi di Shilmista: erano fieramente legati alle antiche tradizioni, alla natura e ai cicli delle stelle, ma erano anche più civilizzati dei loro simili che aveva visto in altre parti del mondo. Non avevano una società di stampo tribale, non usavano molto i tatuaggi magici, e per quanto ne sapeva il gentile ranger non tagliavano la testa a qualunque viaggiatore che mettesse piede nel loro territorio… quantomeno, prima mandavano un avvertimento, scagliavano qualche freccia a vuoto. Molto ragionevole.
I nuovi arrivati cominciarono a scambiarsi convenevoli con lord Fisdril, e la mente di Johel deviò verso i ricordi della sua avventura a Shilmista. I saluti e le presentazioni erano sempre così noiosi... uno dei motivi per cui il ranger sperava di non venire scelto come prossimo capoclan. Di solito la successione procedeva per linea ereditaria diretta, ma se alla morte di lord Fisdril sua figlia Freya fosse stata giudicata inadatta a comandare, allora quel compito sarebbe pesato sul suo parente di sangue più prossimo, Tazandil, e in seguito su Johel. Una prospettiva per niente piacevole.
Almeno io non faccio schifo nei rapporti diplomatici, a differenza di mio padre, pensò l’elfo dei boschi, costringendosi a concentrarsi sulla conversazione in atto. Sono stato bravo a Shilmista, ho riallacciato i rapporti con i nostri vicini. Quando mio zio mi dà delle responsabilità le so portare a termine bene. Non era la prima volta che svolgevo un ruolo diplomatico. Ma un conto è essere un portavoce, un altro è prendere decisioni che peseranno su tutti.
E questo era molto probabilmente il motivo di quella visita inaspettata. Gli elfi di Shilmista dovevano avere qualche grave motivo per lasciare la sicurezza della loro foresta, e forse intendevano coinvolgere i loro vicini di Sarenestar.
Johel non si aspettava che i nuovi arrivati vuotassero il sacco immediatamente, lì nella piazza principale, davanti a tutti. Sapeva che prima si sarebbero spostati tutti nella Sala del Consiglio, che Merildil aveva fatto preparare. Ci fu prima di tutto un breve giro di presentazioni, in cui Johel si sforzò di mandare a mente i nomi e i titoli di quelle persone. I due guerrieri si presentarono come veterani dell’ultima guerra, suscitando la curiosità di tutti, perché a Sarenestar non giungevano mai voci delle guerre sostenute entro i confini della Foresta delle Ombre. Per ultimo arrivò anche un altro dei loro, un ritardatario. Johel lo riconobbe all’istante, senza che ci fosse bisogno di presentazioni: era Azadeth, il giovane sacerdote che cinquant’anni prima era stato il suo più grande alleato e sostenitore nella foresta di Shilmista. L’elfo dei boschi sorrise, felice di rivedere il suo vecchio amico e alleato, anche se Azadeth non si era ancora accorto di lui. La sua attenzione era stata deviata da una bambina che stava sgusciando fra le gambe dei suoi compagni, per correre verso Merildil.
Johel sentì un brivido freddo quando vide la sua Jaylah, la sua adorata figlia mezza drow, farsi largo e attirare l’attenzione di quel gruppetto di estranei che detestavano ferocemente i drow.
Oh, no! Speravo che se ne stesse alla larga, a giocare con gli altri ragazzini, pensò, sconsolato. Va bene, avevo un piano di riserva comunque… la sua pelle non è nera, assomiglia più a un’elfa selvaggia che a una drow. Può passare per quello che non è, anche se non sarà facile spiegare quei capelli biondi così chiari.
Grazie al cielo ha perso almeno l’abbronzatura estiva.

Sua zia Merildil ebbe la prontezza di spirito di deviare la bambina altrove prima che gli elfi di Shilmista potessero guardarla troppo bene. Non appena Jaylah si fu allontanata insieme ad Ebrath, il nuovo compagno animale della druida, lord Fisdril si inserì con eleganza nella conversazione invitando gli onorevoli ospiti a entrare nella Sala del Consiglio. Perfino i bambini vennero portati dentro, perché sembrava che i nuovi arrivati non volessero separarsi dai loro preziosi virgulti.
Si comportano come se fossero sulla difensiva, notò Johel. Che cos’è accaduto, perché queste persone sembrano reduci da un trauma?
Avrebbe voluto aspettare Azadeth e scambiare due parole con lui, ma l’etichetta voleva che Johel fosse uno dei primi ad entrare nella Sala, come uno dei portavoce della foresta ospite, quindi sapeva di dover rimandare a dopo qualunque colloquio privato con il vecchio amico.


**********************
Nota: La parolaccia che Jaylah cerca di dire, nadorhuan, significa vile cane nel gergo elfico di Faerûn.

           

   
 
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