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Autore: Lady Mnemosyne    20/06/2019    1 recensioni
– E va bene – si arrese – Monica mi ha lasciata […] Dice di aver trovato il suo vero amore e che io non la faccio sentire come la fa sentire lui. –
Così tu cerchi di raccogliere i pezzi e rimetterli insieme, ma forse non è il caso di riprovarci di nuovo, forse è meglio lasciar perdere, è più sicuro. Ma mentre tu cerchi di chiudere tutto in un forziere ventimila leghe sotto i mari, una dolce sirena, che ti incanta con quella stessa musica che tu ti vanti di saper cantare così bene, ti si fa vicina e ti distrae, è sul punto di farti cambiare idea…
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. Fighting with Myself

 

Il sole brillava stranamente vivace nel cielo quasi terso del pomeriggio, spingendo i suoi raggi oltre la vetrina del piccolo bar che fungeva da rifugio per tutti i giovani universitari in crisi da astinenza di caffè. Proprio in quel momento Anita si allontanava circospetta dal bancone reggendo in mano in precario equilibrio due tazzine fumanti.
‒ Ecco qui. ‒ disse porgendone una all’amica, una volta guadagnato il tavolino.
‒ Ti ho preso anche lo zucchero. ‒ aggiunse mostrandole cinque diverse bustine.
‒ Grazie, gentilissima. ‒ rispose Lei scegliendo lo zucchero classico: già le sembrava un reato non riuscire a bere il caffè amaro, figurarsi se ne avrebbe mai contaminato il sapore con qualcosa di diverso dallo zucchero!
Infine si era arresa alla preoccupazione crescente di Anita e aveva acconsentito a parlarle, ragion per cui si trovavano sedute in un bar davanti a del buon caffè. I grandi occhi castani di Anita la fissavano in attesa da sopra la tazzina, che stava già svuotando con avidità, così cominciò a parlare riluttante, perché ogni parola le costava uno sforzo non indifferente contro il proprio orgoglio. Le raccontò di come i loro rapporti da qualche tempo si fossero un po’ allentati e quasi raffreddati, di come Monica sembrasse sempre più svagata e indifferente e di come Lei aveva deciso di ignorare tutto questo nascondendosi dietro sciocche giustificazioni, imputando la cosa ad un periodo particolare o al semplice divenire della loro relazione. Finché non era giunta la secchiata d’acqua gelida che l’aveva riportata alla realtà con un bello schiaffo in piena guancia.
‒ Questo è quanto. ‒ concluse gustando l’ultima lacrima di caffè rimasta nella tazzina. Anita non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il tempo e ora la guardava seria con l’espressione di chi comprende e condivide il dolore altrui, ma è perfettamente consapevole che si può dire e fare poco per aiutare.
‒ Per educazione nei tuoi confronti ‒ commentò con tono abbastanza piccato ‒ non ti dirò come la chiamerei per  come si è comportata. ‒
Lei rise buttando leggermente indietro la testa; Anita le strinse le mani:
‒ Ma tu come stai? Come ti senti? ‒
Immediatamente un nero temporale le si addensò in viso, soffocando la risata di poco prima:
‒ Come vuoi che mi senta? ‒ rispose amareggiata e con una certa stizza, sottraendosi alla presa dell’amica ‒ Sono tremendamente incazzata. Non che avessi mai pensato che ci saremmo sposate, ma il fatto che mi abbia liquidata così, come una bustina di tè usata, mi dà un fastidio che non ti immagini. ‒ concluse appoggiandosi alla sedia con le braccia incrociate sul petto. Lo sguardo scivolò fuori dal bar, sulla strada, e si fissò vacuo sulla folla brulicante dei passanti.
‒ Non c’è nulla che tu ti debba rimproverare. ‒ riprese Anita con dolcezza ‒ Tu sei stata sincera. Purtroppo chi era dall’altra parte non era altrettanto onesta. ‒
Lei si voltò indietro verso Anita e alzò le spalle:
‒ Le cose non cambiano, comunque. ‒
‒ Lo so, ma prima ti renderai conto che la responsabilità è sua, prima starai meglio. ‒
Lei abbassò gli occhi scontrosa, ma Anita continuò:
‒ Stare così male per lei non ha senso. Lo so che non si può dimenticare tutto dall’oggi al domani, me devi prendere atto di questa cosa e continuare. In realtà non devi neanche dimenticarla per forza, dopo tutto con lei hai dei bei ricordi, ma devi superarla. ‒
Lei si era di nuovo persa oltre la vetrina, tra l’andirivieni veloce dei passanti. Sospirò e tornò a guardare Anita, che le regalò un piccolo sorriso di incoraggiamento.
‒ In questo momento vorrei solo non averla mai incontrata. ‒ disse categorica con un amaro in bocca ben superiore a quello del caffè. Questa volta fu Anita a sospirare; riordinò un attimo le idee, poi disse: ‒ Vedrai che, quando sarà passata, riuscirai ad apprezzare quello che ti ha offerto di buono, anche se è stato poco. ‒
Lei guardò Anita per qualche secondo, lasciando che la dolcezza e la fiducia dei suoi occhi le accarezzassero un poco il cuore, poi rispose lapidaria:
‒ Allora speriamo che passi presto. ‒

Superarla. Quella parola continuò a ingombrarle la mente come un’enorme insegna luminosa per tutto il tragitto verso casa. Superarla. Per farlo avrebbe dovuto innanzitutto prendere atto del fatto che la loro relazione era finita, poi elaborare la cosa fino ad arrivare a considerarla con oggettività, infine mettersi l’anima in pace e voltare pagina, senza privarsi necessariamente della possibilità di voltarsi indietro ogni tanto, ma senza soffrire.
“Sì, certo” pensò mentre un ghigno sarcastico si apriva sul suo volto. A parole sono tutti bravi, ma quando ci si trova in prima persona in mezzo a queste belle situazioni, è un altro paio di maniche! Superarla. Forse il problema era che non voleva superarla, perché non riusciva a smettere di sperare che un giorno o l’altro Monica avrebbe aperto gli occhi e sarebbe tornata indietro da lei; forse non voleva superarla perché, nonostante tutto, le voleva ancora bene. Quanto sarebbe stato più facile strapparsi dal cuore e gettare via quel germoglio di speranza, così piccolo eppure così maledettamente tenace. Calciò con rabbia una malcapitata lattina, che volò per qualche metro e finì la sua corsa rotolando sotto un’auto parcheggiata. Se solo avesse avuto la facoltà di decidere razionalmente, la avrebbe superata più che volentieri, avrebbe chiuso tutto in un cassetto e buttato via la chiave, ma c’era di mezzo il cuore e quella ostinatissima, dannata speranza.
Si appoggiò contro la porta e ad occhi chiusi si sciolse in un lungo sospiro, come se potesse smaltire così un po’ di quel veleno che le pompava nel cuore. Quando riaprì gli occhi, il sole del pomeriggio illuminava impietoso la raccapricciante confusione in cui era sommerso il suo povero appartamento.
“Sarà meglio dare una sistemata.”
Dopo aver controllato nel grande orologio che l’ora consentisse suoni di un certo spessore, si diresse allo stereo e scelse uno dei suoi dischi preferiti, che venne opportunamente mandato a tutto volume; quindi cominciò a restituire una parvenza di ordine a quella fiera del caos. Mentre si dava da fare la musica la attraversava completamente, entrandole nei polmoni come l’aria che si respira e portandosi via le preoccupazioni e i dispiaceri. Cantava confondendo la propria voce con quella della cantante, fingendo di essere lei imitando i suoi stilemi: per un attimo lasciò cadere se stessa nell’oblio per diventare qualcun altro. Questo era il potere più grande che la musica esercitava su di lei e il suo più grande regalo: potersi dimenticare per un attimo di tutto e godere semplicemente e per intero della sola bellezza che la musica sapeva creare.
Come ultima cosa spolverò il pianoforte, o meglio: accarezzò il pianoforte con un panno per la polvere, ripetendo l’operazione più volte non perché ce ne fosse bisogno, ma per puro e semplice piacere. Sollevò il coperchio che custodiva la tastiera e suonò una nota, una sola, la prima che le sue dita trovarono, e il suono limpido si diffuse lentamente in ogni stanza. Quando si fu estinto e tornò il silenzio (lo stereo aveva già smesso di suonare da un po’), guardò quale tasto aveva premuto: fa, ottava centrale. Restò immobile per qualche secondo, cercando qualcosa negli scaffali della sua mente, finché non ritrovò un verso che aveva letto molto tempo prima:
‒ Fa’ ch’io non veda più il tuo bel viso .‒
Lo trovò molto calzante.
Il grande orologio le ricordò dalla parete che era il caso di darsi una mossa, se non voleva fare tardi, così pose fine al momento lirico e sparì nel bagno.

Non appena finì di abbottonare la camicia bianca, la infilò nei jeans neri cercando di non stropicciarla più del necessario e indossò il gilet grigio, dopo di che si mise a cercare i gemelli nei cassetti dell’armadio. Quando li ebbe trovati, si spostò di fronte allo specchio per controllare di essere in ordine: le rispose una sua immagine priva della testa (perché lo specchio non era così grande da contenerla tutta), di cui fu abbastanza soddisfatta. Mentre li faceva passare nelle asole, accarezzò per un attimo i gemelli d’oro, lasciandosi andare ai ricordi, poi infilò il cappotto e uscì.
Un vento dispettoso, da inverno incipiente, insinuava le sue dita fredde sotto giacche e sciarpe, così si tirò su il bavero mentre si avviava spedita verso il centro della città, già preoccupandosi della ramanzina che Federico avrebbe avuto pronta in serbo per lei. Superò velocemente un uomo, che proprio in quel momento espirò una boccata di fumo, che Lei inspirò a sua volta a pieni polmoni, rammaricandosi del suo ritardo: “Se non fossi stata così di corsa, avrei potuto fumarmi una sigaretta.” Ma si consolò pensando che avrebbe recuperato dopo l’esibizione.
Man mano che si avvicinava al locale, le strade si facevano più piccole e sempre più fitte di gente: studenti che se la spassavano tra aperitivi e cene, cercando di spendere il meno possibile, coppie in uscita romantica, feste di laurea, passanti che cercavano di farsi strada tra la folla, fattorini che si affannavano da un lato all’altro della città con in spalla i loro ingombranti zaini o sbandati in cerca di ancora un po’ di alcol riempivano le vie in una baraonda incredibile di lingue e tipi, che Lei si divertiva a osservare nonostante fosse costretta a svicolare di corsa nel garbuglio di persone. Quando finalmente arrivò in vista del locale, Federico la stava aspettando già sulla porta a braccia incrociate. Gettò un rapido sguardo all’orologio e, quando giunse a portata di voce, commentò: ‒ Beh, hai fatto di molto peggio: stasera sei quasi puntuale. ‒
Lei esibì un sorriso imbarazzato: ‒ Non mi vorresti bene se non fossi così. ‒
Federico si scostò dalla porta e disse ridacchiando: ‒ Entra, va’! ‒
Il re di coppe era un piccolo bar della zona centrale della città, immerso nel quartiere universitario. Baristi e camerieri, che erano studenti in quasi tutti i casi, cambiavano spesso sotto lo sguardo attento del proprietario, tale Riccardo, un bell’uomo sulla quarantina piuttosto piazzato e con degli assurdi baffi arricciati.
‒ Buonasera principessa! ‒ salutò ridendo quando i ragazzi entrarono.
‒ Buonasera maestà! ‒ ribatté Lei con un piccolo inchino del capo, mentre si dirigeva veloce verso il fondo del locale, superando il bancone. In un angolo della sala era già tutto pronto per iniziare a suonare ed Enrico e Davide stavano discutendo di politica per l’ennesima volta. Quando si accorsero degli altri, Davide esclamò: ‒ Ben arrivata! ‒ con tono ironico. Lei, per tutta risposta, gli fece una smorfia e chiese, mentre si toglieva il cappotto: ‒ Il suono va già bene o bisogna provare di nuovo? ‒
‒ Abbiamo fatto qualche prova e andava bene. ‒ rispose Enrico sgranocchiando delle arachidi salate, che tentava di salvaguardare dalla fame incontrollabile di Davide, che allungava continuamente le mani ‒ Al massimo puoi dare una controllata al microfono. ‒
Lei finì di regolare l’altezza dell’asta e, spostatala dove preferiva, cantò un paio di note giusto per sicurezza.
‒ Mi sembra a posto. ‒ convenne.
Il bar era formato da un’unica sala rettangolare: uno dei lati lunghi era occupato dal bancone e piccoli tavolini rotondi riempivano in ordine sparso lo spazio restante. Le pareti erano di un bel rosso acceso e fumose lampade da pub sporgevano dai muri. In fondo, nell’area riservata ai musicisti, era stata sistemata una bassa pedana adorna di tappeti un po’ consunti, ma dai colori ancora sgargianti. Il locale accoglieva già abbastanza avventori, ma la gente continuava ad arrivare, facendo sempre più pressione per entrare.
‒ La nostra fama ci precede, ragazzi! ‒ esclamò Davide guardandosi intorno soddisfatto.
‒ Tanto lo sappiamo che ti interessa diventare famoso solo per rimorchiare! ‒ ribatté Federico, accompagnando la battuta ad una gomitata.
‒ Come se tu non ne approfittassi! ‒ rispose Davide restituendo la gomitata al mittente.
‒ Dai signorine, ricomponetevi che tra poco si comincia. ‒ esclamò Lei ponendo fine allo scambio mentre appoggiava il cappotto all’appendiabiti dietro l’amplificatore. Tornando di fronte al microfono, incrociò lo sguardo sorridente di Enrico.
‒ Perché ridi? ‒ chiese Lei perplessa. Lui scosse il capo e, senza risponderle, imbracciò il basso ancora col sorriso sulle labbra; Lei allora si voltò verso il microfono.
Era una vita ormai che cantava, eppure ogni volta, prima dell’inizio di ogni concerto, l’emozione era sempre quella della prima esibizione: un ribollire travolgente e difficile da contenere, potentissimo e pericoloso a un tempo. Chiuse gli occhi per un attimo e ascoltò il proprio cuore rimbalzare veloce nel petto, strinse e distese le mani congelate dalla tensione, ascoltò il brusio della folla e lo scompose nelle singole voci. Infine riaprì gli occhi, si voltò leggermente verso i compagni per darsi l’ok e lo schioccare leggero delle bacchette di Federico diede il via allo spettacolo.
Ad ogni modo, Davide non aveva tutti i torti. Da quando avevano messo insieme il gruppo, ormai quasi un anno prima, erano riusciti piano piano a mettere su un pubblico piuttosto nutrito per essere un semplice quartetto di amici, arrivando così ad avere un certo numero di affezionati che non li lasciava mai a corto di ascoltatori (e di applausi). Qualche viso era perfino diventato noto e i rapporti si erano stretti tanto da metter su una piccola comitiva con cui passare quello che rimaneva della notte dopo le esibizioni, tra birre, sigarette e fandonie da ubriachi. Quella sera Il re di coppe era nuovamente stipato di gente, tanto che Riccardo e gli altri camerieri avevano un bel da fare tra il destreggiarsi in mezzo alle persone e il soddisfare in breve tempo tutte le ordinazioni. Oltre agli affezionati del gruppo, riempivano il bar anche altri avventori capitati lì per caso, che ora ascoltavano incuriositi la musica, o passanti che, proprio sentendo la musica, si erano affacciati e avevano deciso di fermarsi un po’; in un angolo un po’ più appartato c’era persino un gruppetto che festeggiava una neo-laureata.
Di tutto questo tuttavia la nostra cantante non percepiva assolutamente nulla: compresa nel suono totalizzante della musica, vedeva intorno a sé solo masse confuse che non si sforzava di distinguere, paga com’era della Vita che le trasmetteva l’armonia degli strumenti, cui Lei aggiungeva la propria voce. Anche gli altri non si divertivano meno, comunque, e sfoderavano tutta la loro passione e la loro grinta in assoli intricati e raffinatissimi.
Durante una delle pause tra una canzone e l’altra, una voce piuttosto potente riuscì a imporsi sulla confusione e a chiedere con una certa difficoltà se si poteva ascoltare una certa canzone. Lei si riavvicinò al microfono ancora con la bottiglietta d’acqua in mano e rispose di sì con un gran sorriso, scrutando tra la folla in cerca di chi aveva parlato. Un ragazzo della festa di laurea, mani ai lati della bocca per indirizzare il suono, le gridò il titolo, udito il quale Lei si consultò un attimo con i suoi per chiedere conferma che fosse fattibile, al che Davide rispose: ‒ Certo! Non siamo mica dei dilettanti qualunque! ‒
Lei alzò gli occhi al cielo e si voltò di nuovo al microfono, ma prima di iniziare chiese: ‒ Non è che la festeggiata vuole venire qui a cantarla con noi? ‒
Tutti si voltarono istantaneamente nella direzione in cui Lei guardava e al tavolo della laurea scoppiò il pandemonio: la festeggiata, che non ne voleva sapere per nulla la mondo, venne praticamente portata di peso fino all’angolo del piccolo palco e schiaffata suo malgrado di fianco alla cantante. Lei la guardò sorridendo per cercare di incoraggiarla, notando che il suo viso aveva assunto lo stesso rosso paonazzo delle pareti, poi staccò il microfono dall’asta per tenerlo in mezzo tra loro e fece cenno agli altri di attaccare.
‒ Facciamo un grande applauso alla nostra dottoressa! ‒ esclamò alla fine della canzone. Inutile dire che all’applauso seguì immediatamente l’inno scurrile che sempre si canta a tutti i neo-laureati. Prima che la imbarazzatissima festeggiata fuggisse a gambe levate, Lei riuscì a strapparle una veloce stretta di mano e  una fulminea presentazione: si chiamava Marta.
Scomparsa Marta tra la folla, l’esibizione proseguì nel migliore dei modi finché, dopo quasi una decina di bis e qualche altra canzone su richiesta, la serata non si chiuse con un sonoro scroscio di applausi, ai quali il quartetto rispose con inchini e “grazie” sorridenti. Piano piano, sollecitata dall’orario, la folla cominciò a diradarsi e a svuotare gradualmente il locale, mentre i musicisti smontavano l’attrezzatura e riponevano gli strumenti. In quel mentre si avvicinò al palco un giovane alto e decisamente troppo magro per la camicia che indossava, con i capelli neri un po’ lunghi in perfetto abbinamento con il pizzetto alla d’Artagnan:
‒ Ragazzi: grandiosi come sempre. ‒ disse, rivelando una voce piuttosto grave ‒ Intanto ordino il solito. ‒
I quattro, voltatisi per salutare, approvarono all’unisono e Federico aggiunse, mentre spostava uno degli amplificatori: ‒ Il tempo di sistemare qui e arriviamo. ‒
Quando si ricongiunsero al resto della comitiva, c’era un gruppo piuttosto nutrito ad aspettarli lungo il bancone, mentre alle loro spalle il locale era ormai deserto.
‒ Ecco qua: tre birre e un bicchiere di rum per i miei musicisti preferiti. ‒ esclamò Riccardo porgendo loro il tutto.
‒ Non so se meritiamo un simile appellativo. ‒ rispose Lei ridacchiando mentre prendeva il bicchiere.
‒ Ma sì, ma sì! ‒ disse Davide dandole una leggera gomitata ‒ Tu bevi e basta. ‒
Una ragazza con i capelli raccolti e una maglia nera a collo alto attillatissima sollevò il proprio cocktail:
‒ Al Poker! ‒
E immediatamente una selva di braccia si alzò sopra le teste, seguita da un trionfo di tintinnii.
‒ Allora, come siamo andati? ‒ chiese Enrico dopo aver bevuto un lungo sorso di birra.
‒ Non li hai sentiti gli applausi? ‒ esclamò il ragazzo smilzo ‒ La gente era entusiasta. ‒
‒ Ovvio che li ho sentiti, ma diciamolo: Graziani non è certo il più conosciuto di oggi. ‒ ribatté Enrico.
Un altro ragazzo con i capelli rasati e piuttosto allegro, e non per indole naturale, gli arrivò alle spalle e abbracciò lui e la cantante dicendo:
‒ La musica bella non ha età, amici, e voi suonate solo musica bellissima: la gente se ne accorge.  ‒
‒ Grazie Diego. ‒ rispose Lei voltandosi indietro per guardare l’amico, che sollevò il proprio bicchiere e lo fece suonare contro quello della ragazza.
‒ Quando sarà la prossima serata? ‒ domandò la giovane seduta oltre lo smilzo, che sfoggiava una chioma che poteva vantare tutte le gradazioni dal blu all’azzurro.
‒ Non guardare me. ‒ si schermì Lei alzando le mani e si voltò a chiamare Federico, che, sporgendosi sopra il bancone, rispose: ‒ Mi sembra martedì prossimo, ma devo controllare. ‒
La fata turchina sbuffò: ‒ E noi cosa facciamo fino a martedì sera? ‒
‒ Beh: mica dobbiamo stare chiusi in casa solo perché non suoniamo! ‒ esclamò Davide che era già a metà della seconda bottiglia di birra.
‒ Il bar è sempre aperto. ‒ confermò Riccardo, che stava loro di fronte con le braccia incrociate e appoggiato di fianco alla macchina del caffè ‒ Quando volete, siete sempre i benvenuti, lo sapete. ‒
La cantante fece scivolare il suo bicchiere fino davanti al barista: ‒ Allora riempi, che quello di prima se l’è bevuto tutto il bicchiere! ‒
Si decisero a lasciare il locale quando ormai le ore piccole cominciavano a non essere più così piccole. Non fu facile, tutti ubriachi com’erano, chi più chi meno, caricare amplificatori e batteria in auto, ma tra una risata e l’altra vennero finalmente a capo anche di questo. Più difficile ancora fu trovare qualcuno in grado di guidare ma Federico fu irremovibile: ‒ La macchina è mia e la guido io. ‒ Per fortuna, avendo bevuto solo un paio di birre, era anche uno dei più sobri. Dal momento che molti di loro abitavano in centro lì vicino, si divisero subito, ognuno sulla strada di casa, e Federico diede un passaggio solo agli altri del gruppo e a Pietro ‒ il ragazzo smilzo ‒ che abitava un po’ più lontano.
Quando la ragazza entrò in casa, trovò la luna a salutarla dalle grandi vetrate della sala. Si avvicinò e restò a guardarla per un po’, immaginando come doveva essere quando una volta costituiva la sola luce della notte, delicata e pallida come un sole di ghiaccio. Un ricordo improvviso le fece corrugare repentinamente la fronte e distogliere lo sguardo. Si avviò verso la porta del balcone e uscì fuori, estraendo dalla tasca interna del cappotto un pacchetto di sigarette. L’aria fresca le accarezzò la spina dorsale con un brivido, che la riscosse dal torpore dell’alcol. Guardò il fumo sollevarsi sinuoso e svanire e immaginò quanto sarebbe stato bello se avesse potuto far dissolvere allo stesso modo quel disagio che le stringeva il cuore in una morsa e che, per quanto lei fingesse, rimaneva sempre lì, imperterrito, a pesarle sul respiro come un pugno allo stomaco.

 

 

Lost in a state of imagination...
Fighting with myself, me and no one else
and I can’t win the war,
I can’t win the war.

 

   
 
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