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Autore: Flaminia_Kennedy    25/07/2009    2 recensioni
Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne strato di nubi che nascondeva il cielo.
[...]
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Genere: Azione, Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jasper Hale, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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4.

Invites

 

Jasper ci mise poco per arrivare a casa mia, ma il viaggio mi sembrò lungo il doppio.

Dopo qualche momento di silenzio imbarazzato da parte mia, fu lui il primo a parlare «deve fare veramente male» disse, senza staccare gli occhi dalla strada.

Io non capii all’inizio, alzando il volto per guardare il suo profilo, poi compresi che si stava riferendo al livido sul mio viso.

Annuii «in effetti non sto proprio una favola» risposi, torcendomi le mani sulle cosce e guardando fuori dal finestrino.

Sentii appena che era preoccupato e mi sembrò strano: cos’avevo per attrarlo così? «mio padre mi ha detto che hai perso molto sangue» disse, trattenendo per un istante in più la parola sangue tra i denti «spero che la tua vista non abbia avuto complicazioni a causa del colpo».

Il suo accento leggermente dell'America meridionale mi fece ricordare casa, ma non in modo spiacevole come capitava ogni volta che mio nonno mi raccontava della sua gioventù a Dallas.

Rimasi un attimo ad assorbire quella melodia e solo quando capii il senso delle sue parole cadenzate mi risvegliai completamente.

L’imbarazzo mi affogò nel silenzio e sentii che stavo arrossendo di nuovo. Mi sembrava di morire, chiusa lì dentro.

La confusione regnava nella mia mente e mi sentivo tremare; dopotutto non ero mai stata molto vicina a dei ragazzi –lasciando fuori Jacob, ovviamente– e non sapevo cosa dire.

Oltretutto Jasper non era un ragazzo normale, lo potevo avvertire quasi come qualcosa di fisico, e quello mi mandava ancora di più nel pallone.

Come se il mio attore preferito mi stesse accompagnando a casa con la stessa disinvoltura del ragazzo biondo.

Con la coda dell’occhio lo vidi voltare il viso verso di me, giusto per darmi un’occhiata, poi sentii il tumulto che avevo sia nella testa che nel petto sciogliersi e distendersi.

Non mi ero mai sentita così calma in vita mia «eccoci, siamo arrivati» mi disse Jasper.

Aprii gli occhi e mi accorsi che mi ero profondamente addormentata, anche se per pochi minuti; mi rimisi dritta sul sedile e mi stropicciai gli occhi confusa.

Mi fermai dopo alcuni secondi, sentendo il taglio alla tempia sinistra iniziare a pulsare dolorosamente: strizzai gli occhi quando una fitta lancinante mi passò da parte a parte dietro gli occhi e mi lasciai scappare un lamento «tutto bene? » mi chiese il biondo, alzando le mani come per afferrarmi le spalle.

Io mi ritrassi d’istinto, portando una mano al livido «si…si tutto bene, mi ero dimenticata che sono ancora tutto un catorcio» gli dissi cercando di sorridere.

Di nuovo quella sensazione di pace mi invase e Jasper lasciò che un sorriso si formasse sulle sue labbra.

Scese dalla jeep, fece il giro e mi aprì la portiera con galanteria «hai bisogno di un aiuto? » mi chiese ancora, guardandomi lo scuro livido poi i suoi occhi parvero impaurirsi quando vide qualcosa sul mio viso: il taglio si era leggermente riaperto e una piccola goccia di sangue mi era colata fino allo zigomo.

Non me ne ero accorta, forse per quello che doveva aver fatto dannatamente male; Jasper non staccò gli occhi dal mio volto, ma la sua mano andò a nascondersi per un attimo nella profonda tasca della giacca che indossava.

Ne tirò fuori un fazzoletto candido e lo aprì in due per poi posarmelo delicatamente sulla ferita e tamponare via il sangue «dovrebbe smettere di sanguinare presto» mi disse con la sua voce rassicurante e calda.

La sua mano era ferma e sentii attraverso il tessuto che era fresca e piacevole contro il taglio pulsante «grazie» dissi abbassando gli occhi e diventando rossa.

Lui dopo un attimo fece un passo indietro e lasciò che uscissi dalla macchina; io mi tenevo il suo fazzoletto sul lato sinistro del viso, in modo che la ferita si rimarginasse per bene.

Aspettai che Jasper prendesse la mia cartella dai sedili posteriori, poi la afferrai con mano tremante quando lui me la porse delicatamente «sei sicura di stare bene? » mi chiese ancora.

Il senso di pace nella mia mente era leggermente vacillato e l’imbarazzo si fece di nuovo strada assieme a una innaturale percezione della realtà.

Lo osservai per bene, dalla punta dei capelli scarmigliati alla punta delle scarpe texane: indossava una camicia bianca con due taschini sul davanti, con il colletto alzato a sfiorargli appena il contorno della mandibola.

Aveva un paio di jeans grigio fumo che gli fasciavano le gambe in modo assolutamente perfetto, nonostante avessi visto molti ragazzi sfigurare con quel tipo di pantaloni, poi gli stivali texani erano frusti e anche quelli di un colorito grigiastro.

Se mio nonno l’avesse visti, sicuramente avrebbe detto che non erano autentici «sto benone» dissi dipingendomi un sorriso sulle labbra e guardandolo.

Lui fece una smorfia poco convinta, ma chiuse la portiera rimasta aperta dalla parte del passeggero e risalì a bordo.

Mi fissò intensamente dal posto di guida e di nuovo quella sensazione adrenalinica mi fulminò: il tremolio alle mani si intensificò e mi vidi costretta a chiuderle a pugno «allora ci vediamo domani» mi disse lui dalla macchina, senza smettere un solo secondo di guardarmi.

Io sorrisi annuendo e appena lo vidi pigiare sull’acceleratore e allontanarsi, mi afferrai gli addominali chiudendo gli occhi: mi si erano contratti di nuovo in una maniera repentina e la scarica elettrica ancora mi percorreva.

Mi girai per rientrare in casa e mi accorsi in quel momento che avevo in mano il fazzoletto di Jasper e che ero senza occhiali da sole.

 

Mi stesi sul letto dopo cena e continuai a tenere quel fazzoletto bianco macchiato di rosso tra le dita.

Ci giocherellavo, lo guardavo un po’ da tutte le parti, poi tornavo a giocarci mentre studiavo per il giorno successivo.

Non ero più imbarazzata come prima e la scossa di energia di poco prima era scomparsa prima che mi mettessi a tavola.

Per tutto il pomeriggio, però, avevo tremato nella mia camera e avevo anche tentato di mettermi a dormire sperando che si fermasse.

Il taglio non mi faceva più male e avevo ripiegato accuratamente il piccolo quadrato di stoffa bianca di Jasper sul mio comodino.

Lo avevo ripreso solo per il gusto di sentire ancora tra le dita la sua morbidezza: sembrava fatto di cotone, anche se la consistenza era della seta.

C’era un piccolo ricamo in un angolo che non seppi decifrare del tutto, J.W, e i bordi erano ripiegati in un cordoncino sottile.

Mi piaceva osservare la fattura del fazzoletto invece che mettermi a studiare matematica –altra materia molto ostica– e aveva un profumo particolare, nonostante l’odore ferroso del mio sangue lo intaccasse un po’.

Assomigliava all’odore dei girasoli e dei grandi campi di grano che da bambina avevo sempre visto attorno a casa mia.

Solo lo squillo del mio cellulare mi distrasse dal mio particolare studio: era un messaggio di Bella.

Novità!

Mike Newton mi ha invitato alla festa di fine anno!

Ho detto di si!

Tu con chi ci vai? Con Jake?

Mi sbattei una mano sulla fronte, attenta però a non colpire la parte scurita dal livido.

Jacob, me lo ero completamente dimenticato.

Non era stato presente quella mattina e probabilmente in quel momento era preoccupato per le mie condizioni fisiche.

Risposi al messaggio di Bella, dicendo che forse non ci sarei andata. Troppa gente che non conoscevo che mi guardava.

Sapevo che avrei sorpreso la mia amica, dato che quasi tutto il mio mondo sapeva che io vivevo per feste del genere.

Ma non ero dell’umore adatto in quel momento e sapevo che non lo sarei stata nemmeno alla serata della festa.

Posai il cellulare accanto al libro di matematica e guardai le pagine piene di numeri con odio.

Sbuffando chiusi il libro e mi arrotolai su me stessa, tenendo il fazzoletto stretto nel pugno.

Chiusi gli occhi per un attimo, giusto il tempo per prendere un lungo respiro, poi mi sentii osservata.

Così, tutto ad un tratto.

Mi alzai, appoggiandomi al materasso coi palmi delle mani, e guardai fuori dalla finestra.

Il ramo del grande albero vicino casa si muovevano nel vento e per poco non sfioravano il vetro freddo.

Strizzando gli occhi per un attimo, mi sembrò di scorgere un’ombra in piedi sul ramo, ma quando sbattei le palpebre assonnate, l’ombra era sparita.

E con lei anche ogni mia emozione: mi sentii talmente rilassata che mi addormentai così, con il top e i bermuda azzurri che di solito mettevo d’estate come pigiama.

 

Passò una settimana da quel giorno e non rividi ne i Cullen, ne Jacob.

Provai a chiamare molte volte al cellulare del mio amico, ma ogni volta risultava occupato.

Cominciai a sentirmi dannatamente depressa e la scuola non era più un luogo normale dove andare.

Era diventata un vero e proprio inferno, con parecchi ragazzi che continuavano a chiedermi del ballo; io non cedetti mai, dicendo a tutti che non ci sarei andata perché non mi andava di andare.

Mi mancava osservare da lontano l’allegria privata dei Cullen, il loro legame fraterno e sentimentale, mi mancava il temperamento di Raven.

Ma più di tutti mi mancava Jasper.

Il suo banco vuoto all’ora di storia era una pugnalata in pieno petto, un vero e proprio tormento.

Mi ero chiesta parecchie volte dove fosse finita tutta la famiglia e parecchie volte avevo cercato di convincermi che non era nulla di grave.

Anche se spesso mi venivano in mente scatoloni imballati e un camion con scritto TRASLOCHI sul lato.

Vidi Mike Newton con la mia amica Bella almeno un giorno si e un giorno no, all’ora di pranzo, che parlavano tra di loro in modo troppo zuccheroso per la mia condizione non troppo allegra.

Speravo vivamente che se ne andassero da qualche altra parte a fare i piccioncini.

La mia povera Toyota ritornò dal meccanico quattro giorni dopo, rifatta a nuovo, ma la felicità per aver riavuto indietro la mia macchina in un tempo abbastanza breve fu effimera come una farfalla.

La mattina sedevo sul pick-up e semplicemente non facevo nulla.

Mi sembrava troppo scomodo, troppo piccolo a volte e troppo grande altre, era troppo alto e soprattutto era troppo vuoto.

Non c’era nessuno vicino a me, nessun angelo biondo con il sorriso che sembrava un’aurora e gli occhi dorati che mi scavavano dentro.

Nessun Jasper accanto a me, a chiedermi se stavo bene.

Se qualcuno me lo avesse chiesto in quel momento gli avrei risposto che non stavo bene, affatto; il mio cuore batteva un battito in meno e il livido non faceva male abbastanza da farmi allontanare un attimo dalla realtà divenuta improvvisamente grigia –anche se non ne rimaneva molto, solo un alone giallastro che mi sapeva orribilmente di sporco–.

Nonno Arthur passava sempre il suo tempo alla bocciofila di La Push assieme a Billy, Jacob non si faceva vedere ne sentire, Bella era troppo impegnata col suo nuovo ragazzo, zia Lind aveva trovato un altro uomo che l’avrebbe mantenuta per almeno un paio di mesi –se reggeva abbastanza–.

Io ero rimasta solo con il mio portatile, il fazzoletto di quell’angelo biondo e la mia passione, ovvero la cucina.

E quel giorno, a una settimana esatta da quando tutti si erano improvvisamente disinteressati a me, ero in quel piccolo supermercato per comprare gli ingredienti per un altro dei miei esperimenti culinari.

Avevo preso il sacchetto che di solito usava la zia per fare la spesa e ci avevo messo dentro latte, una confezione di uova, del cacao e un pacchetto di burro.

Volevo modificare la ricetta dei muffins che la zia aveva nel suo libro, trasformandoli in qualcosa di diverso e magari più elaborato.

Mi stavo tendendo per prendere una scatola di gocce di cioccolato quando una mano dalla pelle scura li prese prima di me e me li tese.

Mi voltai alla risata che avevo subito riconosciuto e vidi Jacob, nella solita incerata scura.

Solo che in quel momento sembrava che la giacca stesse esplodendo: si era come ingigantito, il mio amico, e io non riuscivo a tenere la bocca chiusa «hey nanetta! » mi salutò, con uno dei suoi sorrisi tutto denti.

Io non riuscivo a dire nulla di coerente.

I bicipiti, i pettorali, le spalle…tutto era almeno il doppio! E doveva essersi alzato di qualche centimetro «che c’è, ho qualcosa in faccia? » disse ancora e io ripresi fiato «si, il tuo naso a patata» gli dissi, cercando di essere ironica e divertente, come se nulla mi avesse colpito del suo aspetto.

Anche se non credo di esser riuscita a recitare molto bene.

Cos’era capitato al mio amico?? «vuoi cercare di avvelenare i tuoi così potrai stare qui per sempre? » mi chiese ancora ridacchiando.

Io misi la scatola nella borsa di tela e inspirai, notando che il profumo di Jake era nettamente diverso da quello di Jasper.

Il mio angelo biondo –e mai avrei confessato a nessuno quel soprannome– aveva un profumo delicato ma che sapeva avvolgermi come un abbraccio, mentre Jacob sapeva di pino silvestre e di muschio, un profumo che colpiva letteralmente.

Mi tirai su, cambiando totalmente faccia, indossando la maschera da “non è successo nulla” «no, stavo pensando a un dolce per uccidere il mio migliore amico, sai non si è fatto sentire da una settimana e gliela devo far pagare» dissi, con faccia un po’ accusatoria.

Lui mi fece lo sguardo da cucciolo a cui io non ero mai resistita «scusami, davvero…ho avuto alcuni problemi» disse.

Si che ci cascavo, lui aveva avuto così tanti problemi che a portarli si era pompato il fisico.

La mia faccia era tutta un programma «eddai, non fare così! » mi implorò «per farmi perdonare vengo a casa con te e ti aiuto con questo dolcetto…e sai quanto odio farlo» aggiunse.

In effetti non si poteva parlare di cucina a Jacob se non per mangiare, così mi sembrò abbastanza convincente.

Eliminai l’espressione irata e gli sorrisi, annuendo «va bene» dissi soltanto.

Anche lui si illuminò, vedendomi felice.

Proseguii il mio giro di compere acquistando farina e zucchero raffinato, con Jake che mi seguiva come un cagnolino, osservando a volte con faccia desiderosa le buste di patatine e mostrandomi con faccia maligna il banco farmaceutico, dove dei preservativi facevano bella mostra nelle loro scatole colorate.

Io lo guardai con sguardo ammonitore, ma seppi che la mia faccia era diventata color peperone.

Succedeva da quando avevo incontrato Jasper, di vedere il lato più malizioso di qualsiasi cosa, persino in frasi che una volta mi parevano assolutamente innocue.

Cosa mi aveva fatto quel ragazzo?

 

Il mio umore migliorò nettamente da quando lasciammo il supermercato e ci dirigemmo a piedi verso casa mia.

Appena arrivati ci dirigemmo subito in cucina e ci rimboccammo le maniche; io indossai il grembiule azzurro che spesso avevo visto addosso alla zia Lind e sistemai gli ingredienti sul lungo tavolo.

Jacob si era offerto volontario per aprire il pacchetto della farina e dopo qualche vano tentativo, con uno strappo troppo forte il ragazzo riuscì ad aprire il sacchetto e a immergere entrambi in una nuvola di farina volata per la forza che Jake aveva messo nel movimento.

Così entrambi ci ritrovammo completamente bianchi fino alla vita e ridacchianti, nonostante io cercassi di sembrare irata –dopotutto avevo pagato io e spreco di farina valeva a dire spreco di soldi–.

Seguii la ricetta com’era scritta sul foglio un po’ ingiallito dal tempo e apportando le opportune modifiche dove servivano: al posto della frutta a pezzi gettai nell’impasto denso e ben amalgamato il cacao in polvere e le gocce di cioccolato.

Jacob aveva tentato più volte di rubarmi delle ditate d’impasto per “assicurarsi che io non facessi nulla di pericoloso per la sua salute” e ogni volta gli era arrivato il cucchiaio di legno sulle dita.

Finalmente, dopo almeno mezz’ora di preparazione e scherzi, ci fermammo piegati in due a guardare attraverso il vetro del forno.

Mentre i dolcetti prendevano la loro tipica forma a fungo nei loro stampini di alluminio, io mi tolsi il grembiule e lo appesi al gancetto accanto al frigorifero «spero di non aver mescolato troppo» dissi a Jacob, seduto su una sedia accanto al tavolo –ora più che mai rassomigliante a un campo di guerra– «sennò mi vengono come tanti piccoli sassi».

Lui ridacchiò, ma non sembrava molto interessato alla buona riuscita del mio esperimento culinario «ho sentito che a scuola fanno una festa a fine anno, si balla e c’è un sacco di musica» iniziò a dire.

Io gli stavo dando le spalle in quel momento, ma lo avessi guardato avrebbe visto i miei occhi rivolti verso il cielo «non so se qualcuno te lo ha già chiesto, ma ti andrebbe di andarci con me? » mi chiese.

Ecco, lo sapevo.

Maledii quella stupida festa per le frasi che mi stavano venendo in mente, ma serrando i denti in un sorriso un po’ forzato mi voltai per guardare Jake.

Aveva il suo solito sguardo supplichevole, quello da cagnolino bastonato a cui non ero mai riuscita a dire di no.

Anche se quella volta avrei dovuto resistere «scusa Jakey, ma proprio non ho voglia di andarci…non conosco nessuno» gli dissi, utilizzando il soprannome che più di tutti lui odiava.

Lo vidi alzarsi e avvicinarsi «ma conosci me no? Non basta per passare una bella serata? » «Jacob Black, se ti ho detto che non ho voglia di andarci avrò i miei buoni motivi…non cercare di convincermi» risposi perentoria, ma nella mia testa parecchi finali di quel pomeriggio si susseguivano uno dietro l’altro.

Una furiosa litigata, Jacob che mi aggrediva, io e lui che cadevamo in atteggiamenti troppo intimi…l’ultimo era completamente fuori discussione.

Potevo ancora gestire un Jacob arrabbiato o addirittura manesco, ma un Jacob che mi metteva le mani addosso per altri motivi assolutamente no.

Come se avesse letto nei miei pensieri, Jake fece un sorrisino malizioso e mi chiuse tra il frigorifero e il suo nuovo e massiccio corpo.

Potevo sentire attraverso i suoi e i miei vestiti che era bollente, come se avesse passato una giornata intera sotto il sole.

Sembrava il radiatore di una macchina appena spenta «ma tu adori le feste» mi disse, guardandomi ora serio.

Io aggrottai le sopracciglia e mi allungai in tutta la mia –scarsa– altezza, per sembrare più spaventevole possibile, come un gatto che inarca la schiena per sembrare più grosso «non queste» dissi arrabbiata.

Le sue mani si allungarono per appoggiarsi al frigo e ingabbiarmi completamente.

Non mi mossi, anche se sentivo dentro che stavo iniziando a cedere.

Mi stava mettendo quasi paura, nonostante entrambi fossimo buffamente ricoperti di farina; cos’era successo al mio amico? Sembrava un animale che cercava di conquistare l’unica femmina dei paraggi, mostrando prima il proprio fisico, poi facendole vedere quant’era minaccioso e potente.

Io non lo potevo sopportare, proprio non mi riusciva.

Lasciai cadere la maschera arrabbiata e gli feci vedere quanto ero intimidita, anche se sapevo che era quello che il nuovo Jacob voleva «io voglio sapere cosa ti è successo. Non faresti mai una cosa simile Jake! Non con me» gli dissi, posando le mani sul suo petto e cercando di spingerlo via.

Tutte le lezioni di vita che avevo preso in passato –come il classico e sempre funzionante calcio nei gioielli– non erano utili in quel momento, perché non volevo far del male a Jacob, l’amico che sempre mi aveva risollevato dalla tristezza.

Anche se sapevo che il mio istinto di conservazione sarebbe scattato entro breve e lo avrei visto raggomitolato sul pavimento con le mani al cavallo dei pantaloni che indossava.

Sapevo che era la dura realtà.

Lui aveva avvicinato il viso al mio e io iniziai a contare da dieci, sperando che si fermasse prima che arrivassi allo zero.

Nove.

Una mano di Jacob si allontanò dal frigo per posarsi sul mio fianco destro e non accennava a smettere.

Otto.

Sette.

Io avevo preso un respiro, guardando il mondo che iniziava a muoversi al rallentatore.

Sei.

Cinque.

Quattro.

Le labbra di Jake erano a pochi centimetri dalle mie e ormai io stavo tendendo i muscoli della gamba destra, pronta a piegarsi e a piantare il ginocchio nei gioielli del mio non più tanto amico.

Tre.

Due.

Un’improvvisa inchiodata mi arrivò all’orecchio, nonostante entrambe le mani di Jacob avessero afferrato la mia vita.

Uno.

Il mio piede si staccò dal pavimento della cucina e alzai appena il ginocchio, sperando che Jake si svegliasse da quella specie di rincitrullimento.

Prima che finisse a guaire come un cane per il colpo che gli avrei inferto.

Beeeeeep Beeeeeep!

Un clacson fuori dalla finestra bloccò entrambi.

Il ragazzo che aveva preso il posto del mio amico si tirò su e guardando fuori assunse una smorfia disgustata.

Io ripresi a respirare e il mio cuore cominciò a battere il doppio.

Stavo tremando e la gamba destra tornò a sostenere assieme alla gemella tutto il mio peso.

Di nuovo il clacson suonò, questa volta meno prepotentemente.

Senza quasi che me ne accorgessi scivolai via dalla presa di Jacob –ritornato quasi del tutto in sé– e guardai fuori dalla finestra.

Quasi esplosi, nel vedere la jeep scura che si era delineata nella mia mente come simbolo di salvezza.

Guardai Jacob, che a testa bassa aveva spento il forno, e di nuovo la paura che avevo provato prima si intensificò.

Paura per me, ma soprattutto paura di aver perso un grande amico.

Sapeva che io non gradivo certe cose, spesso avevo parlato con lui dei ragazzi che mi avevano fatto la corte a casa mia e che avevano miseramente fatto un buco nell’acqua.

Anche lui era così, era uno di quei ragazzi che pensavano alle ragazze come oggetti da vincere, da conquistare.

Mi allontanai senza mai dargli le spalle, come si faceva con i malintenzionati, e mi diressi verso la porta d’entrata.

Mi reggevo a qualunque cosa potesse abbastanza solida per potermi reggere: il tavolo, il lavandino, i vari mobiletti sparsi per casa, il mezzo tavolino nell’entrata.

Metà di me era completamente protesa verso l’esterno, verso la jeep scura che mi aspettava, l’altra metà era propensa a dare la più forte ginocchiata della mia vita al mio ex migliore amico.

Ero furiosa, spaventata, spavalda e tremolante di paura.

Un cocktail che non ne voleva sapere di mescolarsi, come il latte e il burro fuso.

Jacob mi seguì, qualche passo distante da me «Sarah, ti prego scusami» mi disse con voce bassa e realmente rotta.

Mi stava guardando con l’aria di chi ha capito i propri errori e con gli occhi giura di non farlo più.

Protese le mani verso di me per fermarmi, per impedirmi di scappare via da lui, in modo da poter spiegare.

Io scossi la testa strizzando gli occhi e aprii la porta alle mie spalle, lanciandomi in corsa verso la jeep e verso il mio salvatore.

Per la seconda volta.

Risposte alle recensioni:

Norine: Ahah grazie cara troppo gentile! X3 Se fosse andato Jazz a spiegare la lezione di sicuro avrei imparato tutto il libro solo stando ad ascoltarlo!

   
 
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