4.
Invites
Jasper
ci mise poco per arrivare
a casa mia, ma il viaggio mi sembrò lungo il doppio.
Dopo
qualche momento di silenzio
imbarazzato da parte mia, fu lui il primo a parlare «deve
fare veramente male»
disse, senza staccare gli occhi
dalla strada.
Io
non capii all’inizio, alzando
il volto per guardare il suo profilo, poi compresi che si stava
riferendo al
livido sul mio viso.
Annuii
«in
effetti non sto proprio una
favola»
risposi, torcendomi le mani sulle cosce e guardando
fuori dal finestrino.
Sentii appena che era preoccupato e mi sembrò strano: cos’avevo per attrarlo così? «mio padre mi ha detto che hai perso molto sangue» disse, trattenendo per un istante in più la parola sangue tra i denti «spero che la tua vista non abbia avuto complicazioni a causa del colpo».
Il suo accento leggermente dell'America meridionale mi fece ricordare casa, ma non in modo spiacevole come capitava ogni volta che mio nonno mi raccontava della sua gioventù a Dallas.
Rimasi un attimo ad assorbire quella melodia e solo quando capii il senso delle sue parole cadenzate mi risvegliai completamente.
L’imbarazzo
mi affogò nel
silenzio e sentii che stavo arrossendo di nuovo. Mi sembrava di morire,
chiusa
lì dentro.
La
confusione regnava nella mia
mente e mi sentivo tremare; dopotutto non ero mai stata molto vicina a
dei
ragazzi –lasciando fuori Jacob, ovviamente– e non
sapevo cosa dire.
Oltretutto
Jasper non era un
ragazzo normale, lo potevo avvertire quasi come qualcosa di fisico, e
quello mi
mandava ancora di più nel pallone.
Come
se il mio attore preferito
mi stesse accompagnando a casa con la stessa disinvoltura del ragazzo
biondo.
Con
la coda dell’occhio lo vidi
voltare il viso verso di me, giusto per darmi un’occhiata,
poi sentii il
tumulto che avevo sia nella testa che nel petto sciogliersi e
distendersi.
Non
mi ero mai sentita così calma
in vita mia «eccoci,
siamo arrivati»
mi disse Jasper.
Aprii
gli occhi e mi accorsi che
mi ero profondamente addormentata, anche se per pochi minuti; mi rimisi
dritta
sul sedile e mi stropicciai gli occhi confusa.
Mi
fermai dopo alcuni secondi,
sentendo il taglio alla tempia sinistra iniziare a pulsare
dolorosamente:
strizzai gli occhi quando una fitta lancinante mi passò da
parte a parte dietro
gli occhi e mi lasciai scappare un lamento «tutto
bene? »
mi chiese il biondo, alzando le mani come per
afferrarmi le spalle.
Io
mi ritrassi d’istinto,
portando una mano al livido «si…si
tutto bene, mi ero dimenticata che sono ancora
tutto un catorcio»
gli dissi cercando di sorridere.
Di
nuovo quella sensazione di
pace mi invase e Jasper lasciò che un sorriso si formasse
sulle sue labbra.
Scese
dalla jeep, fece il giro e
mi aprì la portiera con galanteria «hai
bisogno di un aiuto? »
mi chiese ancora, guardandomi lo
scuro livido poi i suoi occhi parvero impaurirsi quando vide qualcosa
sul mio
viso: il taglio si era leggermente riaperto e una piccola goccia di
sangue mi
era colata fino allo zigomo.
Non
me ne ero accorta, forse per
quello che doveva aver fatto dannatamente male; Jasper non
staccò gli occhi dal
mio volto, ma la sua mano andò a nascondersi per un attimo
nella profonda tasca
della giacca che indossava.
Ne
tirò fuori un fazzoletto
candido e lo aprì in due per poi posarmelo delicatamente
sulla ferita e
tamponare via il sangue «dovrebbe
smettere di sanguinare presto»
mi disse con la sua voce
rassicurante e calda.
La
sua mano era ferma e sentii
attraverso il tessuto che era fresca e piacevole contro il taglio
pulsante «grazie»
dissi abbassando gli occhi e
diventando rossa.
Lui
dopo un attimo fece un passo
indietro e lasciò che uscissi dalla macchina; io mi tenevo
il suo fazzoletto
sul lato sinistro del viso, in modo che la ferita si rimarginasse per
bene.
Aspettai
che Jasper prendesse la
mia cartella dai sedili posteriori, poi la afferrai con mano tremante
quando
lui me la porse delicatamente «sei
sicura di stare bene? »
mi chiese ancora.
Il
senso di pace nella mia mente
era leggermente vacillato e l’imbarazzo si fece di nuovo
strada assieme a una
innaturale percezione della realtà.
Lo
osservai per bene, dalla punta
dei capelli scarmigliati alla punta delle scarpe texane: indossava una
camicia
bianca con due taschini sul davanti, con il colletto alzato a
sfiorargli appena
il contorno della mandibola.
Aveva
un paio di jeans grigio
fumo che gli fasciavano le gambe in modo assolutamente perfetto,
nonostante
avessi visto molti ragazzi sfigurare con quel tipo di pantaloni, poi
gli
stivali texani erano frusti e anche quelli di un colorito grigiastro.
Se
mio nonno l’avesse visti,
sicuramente avrebbe detto che non erano autentici «sto
benone»
dissi dipingendomi un sorriso
sulle labbra e guardandolo.
Lui
fece una smorfia poco
convinta, ma chiuse la portiera rimasta aperta dalla parte del
passeggero e
risalì a bordo.
Mi
fissò intensamente dal posto
di guida e di nuovo quella sensazione adrenalinica mi
fulminò: il tremolio alle
mani si intensificò e mi vidi costretta a chiuderle a pugno «allora
ci vediamo domani»
mi disse lui dalla macchina,
senza smettere un solo secondo di guardarmi.
Io
sorrisi annuendo e appena lo
vidi pigiare sull’acceleratore e allontanarsi, mi afferrai
gli addominali
chiudendo gli occhi: mi si erano contratti di nuovo in una maniera
repentina e
la scarica elettrica ancora mi percorreva.
Mi
girai per rientrare in casa e
mi accorsi in quel momento che avevo in mano il fazzoletto di Jasper e
che ero
senza occhiali da sole.
Mi
stesi sul letto dopo cena e
continuai a tenere quel fazzoletto bianco macchiato di rosso tra le
dita.
Ci
giocherellavo, lo guardavo un
po’ da tutte le parti, poi tornavo a giocarci mentre studiavo
per il giorno
successivo.
Non
ero più imbarazzata come
prima e la scossa di energia di poco prima era scomparsa prima che mi
mettessi
a tavola.
Per
tutto il pomeriggio, però,
avevo tremato nella mia camera e avevo anche tentato di mettermi a
dormire
sperando che si fermasse.
Il
taglio non mi faceva più male
e avevo ripiegato accuratamente il piccolo quadrato di stoffa bianca di
Jasper
sul mio comodino.
Lo
avevo ripreso solo per il
gusto di sentire ancora tra le dita la sua morbidezza: sembrava fatto
di
cotone, anche se la consistenza era della seta.
C’era
un piccolo ricamo in un
angolo che non seppi decifrare del tutto, J.W, e i bordi erano
ripiegati in un
cordoncino sottile.
Mi
piaceva osservare la fattura
del fazzoletto invece che mettermi a studiare matematica
–altra materia molto
ostica– e aveva un profumo particolare, nonostante
l’odore ferroso del mio
sangue lo intaccasse un po’.
Assomigliava
all’odore dei
girasoli e dei grandi campi di grano che da bambina avevo sempre visto
attorno
a casa mia.
Solo
lo squillo del mio cellulare
mi distrasse dal mio particolare studio: era un messaggio di Bella.
Novità!
Mike
Newton mi ha invitato alla
festa di fine anno!
Ho
detto di si!
Tu
con chi ci vai? Con Jake?
Mi
sbattei una mano sulla fronte,
attenta però a non colpire la parte scurita dal livido.
Jacob,
me lo ero completamente
dimenticato.
Non
era stato presente quella
mattina e probabilmente in quel momento era preoccupato per le mie
condizioni
fisiche.
Risposi
al messaggio di Bella,
dicendo che forse non ci sarei andata. Troppa gente che non conoscevo
che mi
guardava.
Sapevo
che avrei sorpreso la mia
amica, dato che quasi tutto il mio mondo sapeva che io vivevo per feste
del
genere.
Ma
non ero dell’umore adatto in
quel momento e sapevo che non lo sarei stata nemmeno alla serata della
festa.
Posai
il cellulare accanto al
libro di matematica e guardai le pagine piene di numeri con odio.
Sbuffando
chiusi il libro e mi
arrotolai su me stessa, tenendo il fazzoletto stretto nel pugno.
Chiusi
gli occhi per un attimo,
giusto il tempo per prendere un lungo respiro, poi mi sentii osservata.
Così,
tutto ad un tratto.
Mi
alzai, appoggiandomi al
materasso coi palmi delle mani, e guardai fuori dalla finestra.
Il
ramo del grande albero vicino
casa si muovevano nel vento e per poco non sfioravano il vetro freddo.
Strizzando
gli occhi per un
attimo, mi sembrò di scorgere un’ombra in piedi
sul ramo, ma quando sbattei le
palpebre assonnate, l’ombra era sparita.
E
con lei anche ogni mia
emozione: mi sentii talmente rilassata che mi addormentai
così, con il top e i
bermuda azzurri che di solito mettevo d’estate come pigiama.
Passò
una settimana da quel
giorno e non rividi ne i Cullen, ne Jacob.
Provai
a chiamare molte volte al
cellulare del mio amico, ma ogni volta risultava occupato.
Cominciai
a sentirmi dannatamente
depressa e la scuola non era più un luogo normale dove
andare.
Era
diventata un vero e proprio
inferno, con parecchi ragazzi che continuavano a chiedermi del ballo;
io non
cedetti mai, dicendo a tutti che non ci sarei andata perché
non mi andava di
andare.
Mi
mancava osservare da lontano
l’allegria privata dei Cullen, il loro legame fraterno e
sentimentale, mi
mancava il temperamento di Raven.
Ma
più di tutti mi mancava
Jasper.
Il
suo banco vuoto all’ora di
storia era una pugnalata in pieno petto, un vero e proprio tormento.
Mi
ero chiesta parecchie volte
dove fosse finita tutta la famiglia e parecchie volte avevo cercato di
convincermi che non era nulla di grave.
Anche
se spesso mi venivano in
mente scatoloni imballati e un camion con scritto TRASLOCHI sul lato.
Vidi
Mike Newton con la mia amica
Bella almeno un giorno si e un giorno no, all’ora di pranzo,
che parlavano tra
di loro in modo troppo zuccheroso per la mia condizione non troppo
allegra.
Speravo
vivamente che se ne
andassero da qualche altra parte a fare i piccioncini.
La
mia povera Toyota ritornò dal
meccanico quattro giorni dopo, rifatta a nuovo, ma la
felicità per aver riavuto
indietro la mia macchina in un tempo abbastanza breve fu effimera come
una
farfalla.
La
mattina sedevo sul pick-up e
semplicemente non facevo nulla.
Mi
sembrava troppo scomodo,
troppo piccolo a volte e troppo grande altre, era troppo alto e
soprattutto era
troppo vuoto.
Non
c’era nessuno vicino a me,
nessun angelo biondo con il sorriso che sembrava un’aurora e
gli occhi dorati
che mi scavavano dentro.
Nessun
Jasper accanto a me, a
chiedermi se stavo bene.
Se
qualcuno me lo avesse chiesto
in quel momento gli avrei risposto che non stavo bene, affatto; il mio
cuore
batteva un battito in meno e il livido non faceva male abbastanza da
farmi
allontanare un attimo dalla realtà divenuta improvvisamente
grigia –anche se
non ne rimaneva molto, solo un alone giallastro che mi sapeva
orribilmente di
sporco–.
Nonno
Arthur passava sempre il
suo tempo alla bocciofila di La Push assieme a Billy, Jacob non si
faceva
vedere ne sentire, Bella era troppo impegnata col suo nuovo ragazzo,
zia Lind
aveva trovato un altro uomo che l’avrebbe mantenuta per
almeno un paio di mesi
–se reggeva abbastanza–.
Io
ero rimasta solo con il mio
portatile, il fazzoletto di quell’angelo biondo e la mia
passione, ovvero la
cucina.
E
quel giorno, a una settimana
esatta da quando tutti si erano improvvisamente disinteressati a me,
ero in
quel piccolo supermercato per comprare gli ingredienti per un altro dei
miei
esperimenti culinari.
Avevo
preso il sacchetto che di
solito usava la zia per fare la spesa e ci avevo messo dentro latte,
una
confezione di uova, del cacao e un pacchetto di burro.
Volevo
modificare la ricetta dei
muffins che la zia aveva nel suo libro, trasformandoli in qualcosa di
diverso e
magari più elaborato.
Mi
stavo tendendo per prendere
una scatola di gocce di cioccolato quando una mano dalla pelle scura li
prese
prima di me e me li tese.
Mi
voltai alla risata che avevo
subito riconosciuto e vidi Jacob, nella solita incerata scura.
Solo
che in quel momento sembrava
che la giacca stesse esplodendo: si era come ingigantito, il mio amico,
e io
non riuscivo a tenere la bocca chiusa «hey
nanetta! »
mi salutò, con uno dei suoi sorrisi tutto denti.
Io
non riuscivo a dire nulla di
coerente.
I
bicipiti, i pettorali, le
spalle…tutto era almeno il doppio! E doveva essersi alzato
di qualche
centimetro «che
c’è, ho qualcosa in faccia? »
disse ancora e io ripresi fiato «si,
il tuo naso a patata»
gli dissi, cercando di essere
ironica e divertente, come se nulla mi avesse colpito del suo aspetto.
Anche
se non credo di esser
riuscita a recitare molto bene.
Cos’era
capitato al mio amico?? «vuoi
cercare di avvelenare i tuoi
così potrai stare qui per sempre? »
mi chiese ancora ridacchiando.
Io
misi la scatola nella borsa di
tela e inspirai, notando che il profumo di Jake era nettamente diverso
da
quello di Jasper.
Il
mio angelo biondo –e mai avrei
confessato a nessuno quel soprannome– aveva un profumo
delicato ma che sapeva
avvolgermi come un abbraccio, mentre Jacob sapeva di pino silvestre e
di
muschio, un profumo che colpiva letteralmente.
Mi
tirai su, cambiando totalmente
faccia, indossando la maschera da “non è successo
nulla” «no,
stavo pensando a un dolce per
uccidere il mio migliore amico, sai non si è fatto sentire
da una settimana e
gliela devo far pagare»
dissi, con faccia un po’ accusatoria.
Lui
mi fece lo sguardo da
cucciolo a cui io non ero mai resistita «scusami,
davvero…ho avuto alcuni problemi»
disse.
Si
che ci cascavo, lui aveva
avuto così tanti problemi che a portarli si era pompato il
fisico.
La
mia faccia era tutta un
programma «eddai,
non fare così! »
mi implorò «per
farmi perdonare vengo a casa con te e ti aiuto con
questo dolcetto…e sai quanto odio farlo»
aggiunse.
In
effetti non si poteva parlare
di cucina a Jacob se non per mangiare, così mi
sembrò abbastanza convincente.
Eliminai
l’espressione irata e
gli sorrisi, annuendo «va
bene»
dissi soltanto.
Anche
lui si illuminò, vedendomi
felice.
Proseguii
il mio giro di compere
acquistando farina e zucchero raffinato, con Jake che mi seguiva come
un
cagnolino, osservando a volte con faccia desiderosa le buste di
patatine e
mostrandomi con faccia maligna il banco farmaceutico, dove dei
preservativi
facevano bella mostra nelle loro scatole colorate.
Io
lo guardai con sguardo
ammonitore, ma seppi che la mia faccia era diventata color peperone.
Succedeva
da quando avevo
incontrato Jasper, di vedere il lato più malizioso di
qualsiasi cosa, persino
in frasi che una volta mi parevano assolutamente innocue.
Cosa
mi aveva fatto quel ragazzo?
Il
mio umore migliorò nettamente
da quando lasciammo il supermercato e ci dirigemmo a piedi verso casa
mia.
Appena
arrivati ci dirigemmo
subito in cucina e ci rimboccammo le maniche; io indossai il grembiule
azzurro
che spesso avevo visto addosso alla zia Lind e sistemai gli ingredienti
sul
lungo tavolo.
Jacob
si era offerto volontario
per aprire il pacchetto della farina e dopo qualche vano tentativo, con
uno
strappo troppo forte il ragazzo riuscì ad aprire il
sacchetto e a immergere
entrambi in una nuvola di farina volata per la forza che Jake aveva
messo nel
movimento.
Così
entrambi ci ritrovammo
completamente bianchi fino alla vita e ridacchianti, nonostante io
cercassi di
sembrare irata –dopotutto avevo pagato io e spreco di farina
valeva a dire
spreco di soldi–.
Seguii
la ricetta com’era scritta
sul foglio un po’ ingiallito dal tempo e apportando le
opportune modifiche dove
servivano: al posto della frutta a pezzi gettai nell’impasto
denso e ben
amalgamato il cacao in polvere e le gocce di cioccolato.
Jacob
aveva tentato più volte di
rubarmi delle ditate d’impasto per “assicurarsi che
io non facessi nulla di pericoloso
per la sua salute” e ogni volta gli era arrivato il cucchiaio
di legno sulle
dita.
Finalmente,
dopo almeno mezz’ora
di preparazione e scherzi, ci fermammo piegati in due a guardare
attraverso il
vetro del forno.
Mentre
i dolcetti prendevano la loro
tipica forma a fungo nei loro stampini di alluminio, io mi tolsi il
grembiule e
lo appesi al gancetto accanto al frigorifero «spero
di non aver mescolato troppo»
dissi a Jacob, seduto su una
sedia accanto al tavolo –ora più che mai
rassomigliante a un campo di guerra– «sennò
mi vengono come tanti
piccoli sassi».
Lui
ridacchiò, ma non sembrava
molto interessato alla buona riuscita del mio esperimento culinario «ho
sentito che a scuola fanno una
festa a fine anno, si balla e c’è un sacco di
musica»
iniziò a dire.
Io
gli stavo dando le spalle in
quel momento, ma lo avessi guardato avrebbe visto i miei occhi rivolti
verso il
cielo «non
so se qualcuno te lo ha già chiesto, ma ti
andrebbe di andarci con me? »
mi chiese.
Ecco,
lo sapevo.
Maledii
quella stupida festa per
le frasi che mi stavano venendo in mente, ma serrando i denti in un
sorriso un
po’ forzato mi voltai per guardare Jake.
Aveva
il suo solito sguardo
supplichevole, quello da cagnolino bastonato a cui non ero mai riuscita
a dire
di no.
Anche
se quella volta avrei
dovuto resistere «scusa
Jakey, ma proprio non ho voglia di andarci…non
conosco nessuno»
gli dissi, utilizzando il soprannome che più di tutti
lui odiava.
Lo
vidi alzarsi e avvicinarsi «ma
conosci me no? Non basta per
passare una bella serata? »
«Jacob
Black, se ti ho detto che non ho voglia di
andarci avrò i miei buoni motivi…non cercare di
convincermi»
risposi perentoria, ma nella mia
testa parecchi finali di quel pomeriggio si susseguivano uno dietro
l’altro.
Una
furiosa litigata, Jacob che
mi aggrediva, io e lui che cadevamo in atteggiamenti troppo
intimi…l’ultimo era
completamente fuori discussione.
Potevo
ancora gestire un Jacob
arrabbiato o addirittura manesco, ma un Jacob che mi metteva le mani
addosso
per altri motivi assolutamente no.
Come
se avesse letto nei miei
pensieri, Jake fece un sorrisino malizioso e mi chiuse tra il
frigorifero e il
suo nuovo e massiccio corpo.
Potevo
sentire attraverso i suoi
e i miei vestiti che era bollente, come se avesse passato una giornata
intera
sotto il sole.
Sembrava
il radiatore di una
macchina appena spenta «ma
tu adori le feste»
mi disse, guardandomi ora serio.
Io
aggrottai le sopracciglia e mi
allungai in tutta la mia –scarsa– altezza, per
sembrare più spaventevole possibile,
come un gatto che inarca la schiena per sembrare più grosso «non
queste»
dissi arrabbiata.
Le
sue mani si allungarono per
appoggiarsi al frigo e ingabbiarmi completamente.
Non
mi mossi, anche se sentivo
dentro che stavo iniziando a cedere.
Mi
stava mettendo quasi paura,
nonostante entrambi fossimo buffamente ricoperti di farina;
cos’era successo al
mio amico? Sembrava un animale che cercava di conquistare
l’unica femmina dei
paraggi, mostrando prima il proprio fisico, poi facendole vedere
quant’era
minaccioso e potente.
Io
non lo potevo sopportare,
proprio non mi riusciva.
Lasciai
cadere la maschera
arrabbiata e gli feci vedere quanto ero intimidita, anche se sapevo che
era
quello che il nuovo Jacob voleva «io
voglio sapere cosa ti è successo. Non faresti mai
una cosa simile Jake! Non con me»
gli dissi, posando le mani sul suo petto e cercando
di spingerlo via.
Tutte
le lezioni di vita che
avevo preso in passato –come il classico e sempre funzionante
calcio nei
gioielli– non erano utili in quel momento, perché
non volevo far del male a
Jacob, l’amico che sempre mi aveva risollevato dalla
tristezza.
Anche
se sapevo che il mio
istinto di conservazione sarebbe scattato entro breve e lo avrei visto
raggomitolato sul pavimento con le mani al cavallo dei pantaloni che
indossava.
Sapevo
che era la dura realtà.
Lui
aveva avvicinato il viso al
mio e io iniziai a contare da dieci, sperando che si fermasse prima che
arrivassi allo zero.
Nove.
Una
mano di Jacob si allontanò
dal frigo per posarsi sul mio fianco destro e non accennava a smettere.
Otto.
Sette.
Io
avevo preso un respiro,
guardando il mondo che iniziava a muoversi al rallentatore.
Sei.
Cinque.
Quattro.
Le
labbra di Jake erano a pochi
centimetri dalle mie e ormai io stavo tendendo i muscoli della gamba
destra,
pronta a piegarsi e a piantare il ginocchio nei gioielli del mio non
più tanto
amico.
Tre.
Due.
Un’improvvisa
inchiodata mi
arrivò all’orecchio, nonostante entrambe le mani
di Jacob avessero afferrato la
mia vita.
Uno.
Il
mio piede si staccò dal
pavimento della cucina e alzai appena il ginocchio, sperando che Jake
si
svegliasse da quella specie di rincitrullimento.
Prima
che finisse a guaire come
un cane per il colpo che gli avrei inferto.
Beeeeeep
Beeeeeep!
Un
clacson fuori dalla finestra
bloccò entrambi.
Il
ragazzo che aveva preso il
posto del mio amico si tirò su e guardando fuori assunse una
smorfia
disgustata.
Io
ripresi a respirare e il mio
cuore cominciò a battere il doppio.
Stavo
tremando e la gamba destra
tornò a sostenere assieme alla gemella tutto il mio peso.
Di
nuovo il clacson suonò, questa
volta meno prepotentemente.
Senza
quasi che me ne accorgessi
scivolai via dalla presa di Jacob –ritornato quasi del tutto
in sé– e guardai
fuori dalla finestra.
Quasi
esplosi, nel vedere la jeep
scura che si era delineata nella mia mente come simbolo di salvezza.
Guardai
Jacob, che a testa bassa
aveva spento il forno, e di nuovo la paura che avevo provato prima si
intensificò.
Paura
per me, ma soprattutto
paura di aver perso un grande amico.
Sapeva
che io non gradivo certe
cose, spesso avevo parlato con lui dei ragazzi che mi avevano fatto la
corte a
casa mia e che avevano miseramente fatto un buco nell’acqua.
Anche
lui era così, era uno di
quei ragazzi che pensavano alle ragazze come oggetti da vincere, da
conquistare.
Mi
allontanai senza mai dargli le
spalle, come si faceva con i malintenzionati, e mi diressi verso la
porta
d’entrata.
Mi
reggevo a qualunque cosa
potesse abbastanza solida per potermi reggere: il tavolo, il lavandino,
i vari
mobiletti sparsi per casa, il mezzo tavolino nell’entrata.
Metà
di me era completamente
protesa verso l’esterno, verso la jeep scura che mi
aspettava, l’altra metà era
propensa a dare la più forte ginocchiata della mia vita al
mio ex migliore
amico.
Ero
furiosa, spaventata, spavalda
e tremolante di paura.
Un
cocktail che non ne voleva
sapere di mescolarsi, come il latte e il burro fuso.
Jacob
mi seguì, qualche passo
distante da me «Sarah,
ti prego scusami»
mi disse con voce bassa e realmente rotta.
Mi
stava guardando con l’aria di
chi ha capito i propri errori e con gli occhi giura di non farlo
più.
Protese
le mani verso di me per
fermarmi, per impedirmi di scappare via da lui, in modo da poter
spiegare.
Io
scossi la testa strizzando gli
occhi e aprii la porta alle mie spalle, lanciandomi in corsa verso la
jeep e
verso il mio salvatore.
Per la seconda volta.
Risposte alle recensioni:
Norine: Ahah grazie cara troppo gentile! X3 Se fosse andato Jazz a spiegare la lezione di sicuro avrei imparato tutto il libro solo stando ad ascoltarlo!