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Autore: Saelde_und_Ehre    26/06/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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XI.
Der Preußische Ritter
 
 

All’esterno della fabbrica, una vibrazione continua faceva da sottofondo al crepitare delle mitragliatrici e agli scoppi, secchi e decisi, di esplosioni lontane. Una serie di ululati riecheggiò nell’aria, poi le scosse fecero di nuovo tremare le pareti dello stabilimento. Gli ufficiali, paralizzati nelle loro posizioni, furono travolti da una sfarinata d’intonaco scrostato e ragnatele; la luce sfarfallò proiettando sulle pareti le ombre lugubri dei macchinari ormai in disuso.
L’ultima detonazione fu accompagnata da un boato così forte che l’intera struttura traballò. Per un’interminabile, agghiacciante manciata di secondi parve sul punto di crollare su se stessa, dal primo all’ultimo mattone, ma l’eco dell’esplosione scemò fino a spegnersi, facendo piombare i presenti in uno stato di dolorosa fibrillazione.
“Siamo sotto il tiro dell’artiglieria pesante,” constatò il maggiore Lützow.
Al di sotto del frastuono, sonore imprecazioni e la cantilena di un uomo che stava pregando, rannicchiato contro la carcassa di una vecchia ruota per la filatura.
Il colonnello Wolff sollevò una mano, tentando di riprendere il controllo della situazione. “Calmi, signori, calmi. State calmi.”
Almeno tra gli uomini ancora operativi, la sua voce profonda ebbe il potere di ripristinare una parvenza di silenzio, ma tra i feriti ammassati contro la parete posteriore dell’immenso androne continuavano a levarsi flebili e isolati lamenti. Subito dopo, una delle entrate laterali si spalancò ed entrarono due medici da campo che trasportavano una barella.
Decine di occhi indugiarono sulla nuova apparizione, per poi distogliervisi e volgersi verso il comandante di reggimento.
Wolff si accertò che tutti quanti lo stessero ascoltando e abbassò nuovamente lo sguardo sulla mappa che aveva dispiegato sul basso tavolino da campo. “Lützow,” chiamò.
L’ufficiale, un uomo robusto sui trentacinque anni, dai lineamenti austeri e i capelli biondissimi quasi rasati, fece un passo avanti. “Signor colonnello.”
“Vista la situazione, dovrà tenersi pronto a spostare il battaglione verso le zone al momento più critiche.” Con la punta del dito indicò una serie di punti strategici che aveva contrassegnato con dei cerchi rossi, ripetendo ad alta voce le coordinate di ciascuno. “Si metta fin da subito in contatto coi suoi comandanti di compagnia e trasmetta le disposizioni necessarie.”
“Sissignore,” rispose il maggiore.
Il colonnello annuì, accarezzandosi il mento con aria pensierosa, quindi si rivolse a un ufficiale alto, brizzolato, con un volto duro che sembrava quasi sbozzato nel legno. “Maggiore Speer.”
L’altro avanzò a sua volta e in tono conciso disse: “Sono riuscito a mobilitare il mio battaglione a difesa dell’intero quartiere prima che la controffensiva polacca ci isolasse, tuttavia ritengo che…”
“Signor colonnello!” lo interruppe una voce trafelata.
Si fece avanti correndo un giovanotto sui ventisette anni, col braccio appeso al collo e i capelli biondi incrostati di sangue e sporcizia. “Capitano Eulenburg a rapporto, signor colonnello!” Mentre si metteva sull’attenti, il battere sonoro dei tacchi fu risucchiato da un fischio lacerante.
Wolff tossicchiò, ma per quell’occasione decise di accantonare le formalità: dall’espressione del giovane, dedusse che aveva qualcosa di davvero urgente da comunicargli. Si limitò a scoccargli un’occhiata ammonitrice e gli ordinò il riposo, mentre fuori tuonava l’ennesima esplosione. “Dica, capitano.”
L’altro si ricompose, per quel poco che il suo stato gli permetteva. “Il maggiore Graf è rimasto gravemente ferito durante uno scontro a fuoco, signore,” riferì. “Anche il mio autiere è rimasto ucciso: ho guidato fin qui attraverso due quartieri presidiati dal nemico, che secondo i rapporti dovevano essere ancora in mano alla Tredicesima Divisione. Hanno tentato di far saltare in aria la Kübelwagen con una bomba a mano, signore.” Lasciò cadere una pausa significativa, poi gli rivolse uno sguardo eloquente. “Purtroppo, la situazione è degenerata in fretta… ormai è fuori controllo.”
Il colonnello annuì grave, cercando di non lasciar trapelare all’esterno la preoccupazione che lo attanagliava, sia per l’esito della battaglia che per la sorte dei suoi subalterni. Con lo sguardo si soffermò sui comandanti di battaglione: Eulenburg, congedatosi, si era buttato su una sedia e stava controllando la fasciatura al braccio, Speer si era costretto a reprimere l’irritazione causatagli dall’intromissione e Lützow era ancora impegnato a trafficare con la radio da campo. “Manca solo Bühler”, disse, esprimendo ad alta voce il proprio pensiero.
“Signore,” iniziò Speer, “faccio rispettosamente notare che non sappiamo ancora quanto tempo ci resti prima che…”
L’arrivo dell’aiutante di campo Meyerhof, con una cartelletta sottobraccio, lo interruppe per la seconda volta. “Signor colonnello, nessuna notizia da parte del maggiore Bühler: il capitano von Kleist riferisce che si era mosso per raggiungerci sfruttando la copertura delle nostre linee, ma al momento quei quartieri sono stati riconquistati dal nemico…”
Von Rauheneck, che fino ad allora era rimasto stranamente in silenzio, borbottò: “Che fine avrà fatto, è passata mezz’ora da quando lo abbiamo convocato…”
“Mandiamo qualcuno a cercarlo, signore?” azzardò Speer.
Il colonnello Wolff emise un sospiro affranto. “Se non arriva entro dieci minuti, saremo costretti a darlo per disperso in battaglia: in circostanze così delicate, la situazione tattica non ci permette di mobilitare truppe per un’azione così rischiosa.”
Assorto, von Rauheneck esalò un’ultima boccata di fumo dalla pipa, quindi la ripose e si alzò. “Mi metterò in contatto col capitano Bentheim, affinché si tenga pronto a prendere il comando dell’unità durante l’assenza di Bühler. Gli altri ufficiali faranno riferimento a lui. Vogt!”
L’operatore, con le cuffie ancora in testa, regolò l’apparecchio, poi scosse il capo con aria contrita. “Signor tenente colonnello, non c’è più segnale… siamo completamente isolati!”
Altre grida si riversarono all’interno della fabbrica, riverberando tra le pareti ingrigite. “L’intera area è sotto il controllo nemico!”
Di nuovo, detonazioni più vicine stroncarono ogni dubbio, sovrapponendosi al sordo ronzio delle eliche e dei motori.
“Questo è un attacco aereo, signori!” tuonò von Rauheneck.
“Allertate la FLAK del campo!” ordinò il colonnello. “Non devono avvicinarsi.”
Gli ufficiali e i loro collaboratori si precipitarono verso le uscite; pezzi di legno e calcinacci piovvero dal soffitto come per esortarli a fare più in fretta. In lontananza, le bombe si schiantavano al suolo emettendo gemiti cupi e strazianti.
Calò un silenzio di tomba, l’intera fabbrica piombò nell’oscurità più densa mentre le finestre vomitavano una pioggia di vetri rotti. La luce smorta di una torcia fendette le tenebre, illuminando le sagome di soldati e aiutanti che si spintonavano per lasciare l’edificio; le raffiche delle mitragliatrici pesanti poste a difesa dello stabile ripresero a crepitare con rinnovata foga.
Il colonnello Wolff impugnò la pistola, mentre con ampi gesti delle mani faceva cenno agli uomini di uscire prima di lui. “Alle armi! Tutti fuori! Dichiaro lo stato di emergenza!”

Friedrich von Kleist alzò lo sguardo verso il cielo tinto di una fosca tonalità cinabro. La linea dell’orizzonte si confondeva col fumo degli incendi che, disperso dal vento, gravava su di loro come una cappa funerea che si espandeva in dense volute, privando le cose del loro colore.
In lontananza era comparsa una pattuglia di bombardieri polacchi, simili a grossi uccelli neri che planavano sulla città, scaricando bombe sulle colonne corazzate e sulle postazioni strategiche tedesche.
Anche a quella distanza, il capitano poté udire i fischi dell’antiaerea che entrava in azione: colpito da un proiettile che gli spezzò l’ala, il più avanzato dei velivoli tentò una virata di fortuna per non andarsi a schiantare sulla città.
A Friedrich venne da ripensare alle parole che il sottotenente Kühn gli aveva rivolto appena arrivati lì: stanno perdendo un sacco di uomini, eppure non demordono. Lo immaginò di nuovo con le maniche rimboccate fino al gomito e l’MP38 imbracciato, mentre guidava il plotone all’assalto in prima linea, e realizzò che, per quanto fossero diversi, sentiva di provare un’istintiva simpatia per quel giovanotto del popolo.
“Signor capitano.”
Von Kleist si voltò, trovandosi di fronte il soldato Schreiber sull’attenti. Aveva l’uniforme stropicciata e il volto arrossato dalla fatica. Al cenno dell’ufficiale, il ragazzo rilassò appena la propria posizione, ma la sua espressione rimase tesa. “Signore, il tenente Wessel riferisce di aver rilevato un insolito movimento di uomini e mezzi lungo la strada che porta al quartiere est.”
Con un gesto ormai consolidato dall’abitudine, Friedrich sollevò il binocolo e puntò le lenti nella direzione indicatagli dal soldato. A separarli dalla strada deserta vi era una striscia di terra completamente deserta, solcata dai labirinti delle trincee e deturpata dai profondi crateri lasciati dall’artiglieria pesante, e a una prima impressione pareva che non ci fosse nessuno in giro. Una calma sinistra che, sommata agli echi delle violente schermaglie che si combattevano in città e nei pressi del fiume, non gli ispirava alcuna fiducia. Quello che era solo un presentimento ricevette conferma quando, proprio nel punto in cui una linea immaginaria divideva cielo e terra, s’innalzò una spessa nube di polvere giallastra.
Qualche istante dopo, colse lo scalpiccio di molti zoccoli che percuotevano la strada a un trotto sostenuto. “Cavalleria”, constatò, lasciandosi ricadere il binocolo sul petto. “E non sono ricognitori.”
Alle proprie spalle avvertì la presenza del sottotenente Kühn e del sottotenente Hartmann, che nel frattempo dovevano esserglisi avvicinati. Si voltò verso di loro, come attendendosi altre comunicazioni urgenti.
“Signor capitano,” esordì Hartmann, “alcune pattuglie di esploratori riferiscono che i nemici stanno avanzando nei quartieri periferici. Hanno riconquistato alcune delle postazioni controllate dal nostro Reggimento e hanno costretto gli uomini del primo e del quarto battaglione ad arretrare: al momento è in corso una cruenta battaglia per le strade.”
Friedrich annuì, rabbuiandosi. Istantaneamente, il suo pensiero andò a Hans, e non poté fare a meno di chiedersi se fosse riuscito ad arrivare al comando di reggimento prima che i polacchi tentassero quell’inaspettata controffensiva. “Suppongo, dunque, che i cavalieri sulla strada si stiano muovendo per accerchiarli. Dov’è il tenente Wessel?”
“Sono qui, signore,” rispose l’ufficiale.
“Dobbiamo spostarci,” disse Friedrich senza mezzi termini.
Wessel lo fissò assottigliando gli occhi. “Prego, signor capitano?”
“Dobbiamo raggiungere la città, i nostri rischiano l’accerchiamento. Vada a chiamare Lindemann.”
Il tenente parve sul punto di protestare, ma non poté far altro che sollevare le spalle ed esalare uno sconfitto: “Signorsì.”
Poco dopo sopraggiunse il graduato col telefono da campo. Salutò militarmente e depose l’apparecchio sull’erba, quindi si sedette a sua volta per terra.
Von Kleist rimase in piedi di fronte a lui. “Lindemann, si metta in contatto col comando di reggimento e chieda del maggiore Bühler. Devo parlare urgentemente con lui.”
L’uomo sollevò la cornetta, armeggiò con le manopole e restò in attesa, mentre sulla sua fronte andava disegnandosi una ruga verticale, sempre più profonda per ogni secondo che passava. Alla fine, scosse la testa con un sospiro e disse: “Signore, non risponde nessuno… squilla a vuoto.”
Le braccia che il capitano teneva dietro la schiena gli ricaddero lungo i fianchi. Si sentì invadere da una sensazione di urgenza, sapendo già che in ogni caso la responsabilità della sua decisione sarebbe ricaduta su di lui. Non aveva molte scelte: o l’inazione, o il contravvenire agli ordini di Hans, che gli aveva chiesto espressamente di non prendere iniziative personali. Due cose parimenti sbagliate, ma che in quel momento diventavano due rovesci della stessa medaglia.
Tuttavia, sapeva anche che c’erano situazioni in cui l’emergenza, in assenza dell’ufficiale comandante, consentiva un certo margine di autonomia nelle manovre, e la situazione presente, giudicò, era una di quelle.
Lui lo capirà, pensò. Del resto, se fosse stato qui, avrebbe fatto lo stesso.
“Ci muoveremo comunque verso la città”, decise infine. “Come ufficiale più alto in grado ritengo che sia la cosa più giusta da fare.”

La compagnia si fermò in una delle zone più esterne, dove incontrò altri reparti sbandati del primo e del quarto battaglione. Era un quartiere popolare, con piccole case dimesse e ruderi che offrivano riparo a gruppi di soldati.
Al di sopra di ciò che restava dei tetti delle case si intravedevano le poche ciminiere degli stabilimenti industriali che non erano ancora crollate sotto i colpi dell’artiglieria; un lampione divelto e cumuli di detriti ostacolavano il passaggio di eventuali mezzi pesanti.
Gli ululati delle esplosioni erano ormai lontani, ma a terra sembrava in corso uno scontro senza quartiere: mentre dalle strade luride di fango s’innalzava una consistente nebbiolina, i rumori continui delle sparatorie erano intervallati dagli ordini secchi dei sottufficiali. Uomini armati, in verde oliva e in grigioverde, correvano da una parte all’altra senza sosta; talvolta veniva ingaggiato un corpo a corpo tra le due fazioni.
Sfruttando la copertura di un muro, dietro cui aveva fatto sistemare due soldati con la MG 34, von Kleist si sedette per terra ed esaminò la mappa, segnando con la penna le postazioni controllate dalla sua compagnia. La situazione era critica e, dagli ultimi rapporti, pareva che anche il capitano Bentheim e il capitano Schwieger avessero deciso di muoversi verso la città. Appoggiò la schiena ai mattoni, rigirandosi nervosamente la stilografica tra le dita: quegli stessi rapporti riportavano anche che il comando di reggimento era sotto attacco e il maggiore Bühler era stato dato per disperso in azione. Almeno finché non avrebbe ricevuto conferma di quella notizia, per quanto funesta, essa era da considerarsi un’ipotesi, ma il solo pensiero di non poter mandare nessuno a cercarlo bastava a farlo sentire impotente, con le mani legate.
In quel momento, un rumore di passi lo indusse ad alzare la testa. Un caporale del plotone comunicazioni scattò sull’attenti e salutò. “Signor capitano,” esordì, leggendo un foglietto che teneva tra le mani, “ci è giunta notizia che il maggiore Bühler è stato trattenuto da alcuni soldati del capitano Pawlowski, al momento attestato con la sua compagnia nel quartiere intorno alla piazza del municipio…” Esitò per un istante, come per cercare di decifrare una calligrafia piuttosto ostica, poi aggrottò leggermente le sopracciglia. “Non possediamo informazioni certe sulle condizioni…”
A quelle parole, Friedrich si sentì attraversare da una scossa elettrica. La tensione che gli avviluppava le viscere gli provocò una forte contrazione allo stomaco, e il suo battito s’intensificò fino a seccargli la gola. Non poteva esprimere ad alta voce le proprie supposizioni, ma era convinto che quella fosse un’azione pianificata con cura. “Capisco. Ne discuterò coi comandanti di plotone. Si tenga a disposizione.”

Dopo aver ascoltato le opinioni di tutti, von Kleist si sentiva ancora più confuso di prima: la situazione tattica non permetteva di mobilitare delle unità per recuperare il maggiore, ma anche abbandonarlo nelle mani dei nemici sarebbe andato contro ogni principio etico.
La voce di Hans continuava a riecheggiargli nella testa come il rintocco di una campana mortuaria: “Mantenga la posizione finché non sarò tornato. Non prenda iniziative personali, né abbandoni il suo posto per nessuna ragione.”
Ma in quel caso, c’erano troppe implicazioni in gioco per potersi limitare a seguire le istruzioni. Doveva fare una scelta.
Con la sensazione di trovarsi a vagare, smarrito e accecato, in mezzo al deserto, voltò le spalle ai suoi sottoposti, si prese il ponte del naso tra le dita e lo massaggiò nervosamente, inspirando a fondo. Il buonsenso gli suggeriva di rimandare ogni decisione, preoccuparsi soltanto per la battaglia in corso e attendere gli ordini del colonnello, eppure…
“Non cederemo,” disse infine, rilasciando il fiato.
“E quindi?” chiese Wessel con sospetto.
“E quindi lo libereremo, tenente.”
Tra gli astanti piombò un lapidario silenzio, denso come nebbia. Wessel contrasse il viso in una smorfia di disappunto, Körner spalancò gli occhi e lo fissò come annichilito, Hartmann distolse lo sguardo. Kühn, invece, fece un passo avanti e drizzò le spalle. “Mi offro volontario, signor capitano.”
Friedrich sollevò una mano. “No, sottotenente, lei mi occorre al comando del plotone.” Kühn annuì con un’espressione vagamente delusa in viso, ma il capitano sentiva di non poter delegare a nessun altro quel delicato compito. Fissò negli occhi ciascuno di loro, quindi in tono fermo dichiarò: “Andrò io con un gruppo di volontari, mentre voi cercherete di forzare le linee nemiche. Durante la mia assenza farete riferimento al tenente Wessel e vi atterrete alle mie indicazioni.”
Non gli sfuggì lo sguardo di Wessel, che ben sapeva a quali rischi andasse incontro, né la preoccupazione di Körner. Li congedò cercando di mantenere una facciata inespressiva, nonostante il senso d’ineluttabilità che gli gravava addosso: era un’iniziativa personale, pericolosa e non richiesta, tuttavia aveva deciso di assumersene consapevolmente le responsabilità. Nessun altro avrebbe potuto correre quel rischio per liberare Hans, se non lui.
Nonostante l’intenzione di condurre un’operazione rapida e il più possibile indolore, si armò come se fosse in procinto di guidare un assalto in prima linea. Il primo a offrirsi volontario fu il sergente Böhmer, che quando gli comparve di fronte accennò un saluto sfiorando appena la visiera dell’elmetto, subito seguito da Bauer e Löffler che si trascinarono dietro il giovane soldato Kollwitz, divenuto in pochi giorni noto – oltre che per la stazza taurina – anche per la sua propensione alle risse.
Con più titubanza si aggregarono Schreiber e Hanke, e a completare il gruppo si aggiunse anche Krause, che si presentò a rapporto col cane al guinzaglio. “È per aiutarci a trovare meglio il maggiore,” spiegò, indicando la bestia che lo fissava con la coda e le orecchie dritte, “quando serviva nell’esercito polacco era addestrato proprio per questo.”
Friedrich scrutò con aria scettica quella variegata compagine, poi si procurò un mitra e si mise alla testa del gruppo. “Dobbiamo cercare di evitare il più possibile di ingaggiare scontri armati: l’obiettivo è recuperare il prigioniero e tornare subito indietro. Massima cautela.”

Pervaso da un vago risentimento, il sottotenente Kühn rimase a osservare il suo capitano mentre, sfruttando la copertura delle loro linee, scompariva dietro l’angolo di un palazzo.
Si era reso conto che von Kleist, nonostante quella sua ostentazione di riservatezza che alcuni definivano alterigia, sul campo di battaglia aveva una condotta dignitosa, cavalleresca. E forse proprio per quello, non riusciva a spiegarsi perché si fosse opposto con tanto vigore alla sua richiesta: che non lo ritenesse all’altezza delle sue aspettative?
Così preso a rimuginare sulle possibili ragioni di quel rifiuto, si accorse a malapena della presenza di Wessel. Girò lo sguardo verso di lui e notò che era rivolto nella stessa direzione, coi lineamenti contratti in un’espressione torva e le mani dietro la schiena.
Il tenente indugiò, assorto in un silenzio meditativo, poi fece bruscamente dietrofront e lo esortò a seguirlo. “Con il dovuto rispetto, Kühn,” interloquì, di punto in bianco, “per lei è un bene che il capitano le abbia negato il permesso di andare.”
Kühn, preso alla sprovvista, strinse le labbra. “Per quale ragione, se mi consente?”
“Perché sta deliberatamente contravvenendo alle indicazioni del colonnello,” replicò l’altro in tono ferale. “Lo stesso Bühler disapproverebbe, e lui ne è ben consapevole.”
“E allora perché l’ha fatto?” avrebbe voluto chiedergli il ragazzo, ma prima ancora che aprisse bocca, Wessel lo prevenne liquidando il discorso con un gesto perentorio.
“Torni al suo posto, sottotenente,” ordinò conciso.
Ovunque riecheggiavano grida e detonazioni; il crepitare continuo delle armi da fuoco non si concedeva neanche un istante di tregua. Pur senza riuscire a togliersi dalla testa le domande di poco prima, Erich raggiunse i suoi uomini, già da tempo impegnati in battaglia, e si unì a loro.

Il reticolato di vie che conducevano fino al cuore della città era avviluppato in un silenzio spettrale. Un gatto nero attraversò la strada furtivo e scomparve con un balzo all’interno di un edificio dalla facciata dipinta di verde pastello, ancora miracolosamente intatto; i suoi occhi luminosi, fissi sulla piccola squadra di soldati, rimasero visibili nella penombra della finestra. Il cane rizzò il pelo ed emise un basso ringhio gutturale, ma bastarono due semplici parole da parte di Krause per indurlo ad accucciarsi docile in attesa di un nuovo ordine.
Il capitano von Kleist strisciò lungo la parete di un palazzo, levando una mano per intimare il silenzio. Sebbene avessero cercato di raggiungere quel posto il più in fretta possibile, seguendo le poche indicazioni di cui erano in possesso ed evitando di attirare l’attenzione dei soldati polacchi che perlustravano ogni vicolo, le ombre si allungavano e s’infittivano a vista d’occhio, rendendo sempre più difficile individuare eventuali presenze negli anfratti più bui. Friedrich si sporse con cautela, scrutando la via che si apriva proprio dietro l’angolo: al di là di una barricata fatta di macerie c’erano due uomini armati di fucile, protetti alle spalle dal muro di un’abitazione. Oltre la strada s’intravedeva la torre del municipio al centro della piazza, sulla cui sommità sventolava ancora la bandiera bianca e rossa della Polonia.
Visto il luogo in cui erano appostati, valutò, c’era una buona probabilità che quei due fossero uomini del capitano Pawlowski e, soprattutto, che fossero in possesso di qualche informazione utile a ritrovare Hans.
Proprio in quel momento, la piazza fu attraversata da un numero indefinito di soldati in verde oliva che correvano vociando verso la zona maggiormente interessata dai combattimenti. Subito dopo, un’esplosione vicina fece scattare i due polacchi sul chi va là e Friedrich ritirò la testa all’indietro, mentre a qualche isolato di distanza le sparatorie riprendevano più fitte.

Al segnale di von Kleist, gli uomini della squadra si separarono e un piccolo gruppo comandato dal sergente Böhmer raggiunse l’entrata opposta della via, in modo da controllarne entrambi gli accessi.
Una Stielhandgranate esplose a pochi metri dalla postazione dei polacchi, producendo una secca detonazione che si impose su tutti gli altri rumori. Uno dei due soldati di guardia ordinò al compagno la copertura e scagliò una bomba a mano che costrinse i tedeschi a ripararsi dietro un muro.
“Adesso!” bisbigliò il capitano, sfruttando il momentaneo tafferuglio. Mantenendosi rasenti al muro, Bauer, Löffler, Schreiber e Kollwitz lo seguirono coi fucili puntati per coprirgli le spalle, mentre Krause rimase indietro insieme al cane.
“Fermi!” ordinò poi, rivolgendosi ai polacchi direttamente nella loro lingua. “Siete accerchiati. Gettate le armi e consegnatevi.”
“State indietro!” rispose conciso il primo dei due.
L’elmetto del secondo soldato sbucò appena dal bordo, si guardò intorno, poi fu di nuovo nascosto dal cumulo di macerie. Un’altra granata esplose in mezzo alla strada; una sventagliata di proiettili guizzò tintinnando sul selciato. Uno dei polacchi scandì una parola d’ordine e un fumogeno avvolse le loro sagome in una caligine nebulosa, densa come zucchero filato. Rispondendo prontamente al comando, quattro uomini armati sciamarono fuori dall’edificio e presero a loro volta posto dietro la barricata.
I tedeschi si tennero a debita distanza, in attesa del momento propizio per agire.
Bauer trasse una granata dalla cintura, la decapsulò e la lanciò contro il rifugio dei nemici. “Attenzione!” gridò poi ai suoi commilitoni, mentre l’ordigno descriveva una parabola in aria e deflagrava con un terribile ruggito. Tra le vibrazioni lontane s’intese il rotolio dei mattoni che crollavano, poi, caduto l’ultimo frammento di pietra, calò di nuovo un silenzio sepolcrale, interrotto soltanto da borbottii e colpi di tosse. Spaventato, il cane emise un verso a metà tra un ringhio e un guaito.
Il capitano sbatté le palpebre e si affacciò: l’esplosione aveva aperto sulla facciata della casa uno squarcio simile a una bocca urlante, che al posto del fiato emetteva grigie volute di fumo. Gli occhi vacui delle finestre apparivano come due pozzi neri e privi di vita.
Passò un lasso di tempo inquantificabile prima che uno dei polacchi azzardasse un movimento, alzandosi lentamente in piedi coi palmi delle mani bene in vista. Fece un paio di passi avanti: le mostrine sulle spalle e il colletto erano decorati con ricami argentati; tuttavia, da quella distanza, Friedrich non riuscì a distinguere il grado.
“Ci arrendiamo, signore.” L’uomo accompagnò quelle parole sganciandosi l’elmetto e la cintura della pistola, per poi buttarli per terra. “Due miei compagni sono gravemente feriti.” Come a voler ribadire il concetto, dalle macerie si levò un lamento inarticolato, ma nessuno dei soldati accennò a imitare il suo gesto.
“Il suo nome, prego,” gli ingiunse von Kleist, nel suo solito polacco appesantito dall’accento.
L’altro sostenne per un istante lo sguardo del giovane ufficiale: non sembrava intimorito, anche se nei suoi occhi chiari balenò un guizzo di diffidenza simile a quella di un predatore braccato. “Sergente Nowak, signore.”
“Sergente Nowak, ordini ai suoi uomini di consegnarci le armi.”
Il sottufficiale osservò di sottecchi i fucili nemici ancora puntati, strinse le labbra, quindi annuì. Tre suoi commilitoni riemersero dal nascondiglio trascinandosi dietro i feriti, e deposero fucili, mitra e granate ai piedi del capitano.
“Perquisiteli.”
Ancora una volta, Nowak e i suoi uomini, allineati con le mani alzate contro il muro sventrato, sopportarono quel controllo senza batter ciglio. Mentre i soldati finivano di controllare gli altri, Friedrich si avvicinò al sottufficiale e lo prese da parte. “Vorremmo chiederle un’informazione, sergente.” La voce era misurata e bassa, in modo che solo lui sentisse, ma tradiva una vaga perentorietà.
Il polacco annuì di nuovo in silenzio.
“Stiamo cercando un ufficiale tedesco, che a quanto ci risulta è attualmente ostaggio presso la compagnia di un certo capitano Pawlowski. Ne sa qualcosa, sergente?”
“Pawlowski è il mio comandante di compagnia,” ammise Nowak dopo una breve pausa meditativa; i muscoli della sua mascella si tesero impercettibilmente. “L’ufficiale di cui parla… non conosco il suo nome.”
“Lo so io, il suo nome: è il maggiore Bühler. Si tratta di un uomo alto, circa quanto quel soldato”, – con un cenno del capo, Friedrich indicò uno dei prigionieri immobili lungo la parete – “capelli castani, molto giovane. L’ha per caso visto?”
Il sergente emise un sospiro sconfitto. “Sì, signor capitano, ma non so dove si trovi esattamente.”
“Capisco,” rispose il capitano. “Bauer, Hanke, Löffler, prendete in custodia i prigionieri. Nowak verrà con noi.”

“Anche qui intorno non c’è nessuno”, constatò von Kleist lasciando ricadere il binocolo, dopo aver scrutato con attenzione i tetti e le finestre in cerca di qualche mitragliere o cecchino nascosto. Arretrò verso l’androne spoglio e lanciò un’occhiata in tralice al prigioniero: il sergente Nowak era rimasto in silenzio, le mani in tasca e le spalle ingobbite, per tutta la durata del giro di perlustrazione, senza mostrare intenzioni bellicose né altra emozione che non fosse la tacita accettazione della propria sorte. Il capitano, tuttavia, sentiva di non potersi fidare del tutto di lui: avrebbe potuto tentare di depistarli, o ancor peggio, attirarli in una trappola. Si chiese perché si fosse consegnato spontaneamente – se avesse agito così per salvaguardare l’incolumità dei suoi sottoposti o se quell’apparente rassegnazione nascondesse secondi fini.
In quel momento il cane, sicuramente più abituato alla compagnia dei polacchi che a quella dei tedeschi, si era avvicinato al sottufficiale e gli stava annusando gli stivali. Nowak, seduto su una cassapanca con la schiena appoggiata al muro, accanto a Kollwitz e Schreiber, gli elargì una leggera carezza sussurrandogli qualcosa nella propria lingua.
Con un sospiro, Friedrich infilò una mano nella tasca dell’uniforme e tirò fuori uno dei due guanti di Hans. Lo strinse tra le dita: la pelle grigio fumo, consunta dall’uso, era ormai fredda, e al tatto dava quasi un senso di disagio.
Rivolgendo lo sguardo al cielo che imbruniva si concesse di indugiare un po’ di più sul pensiero del compagno, iniziando ad avvertire sulla punta della lingua l’amaro sapore della sconfitta: si trovavano in una zona presidiata da nemici in ogni angolo, ed era passata all’incirca un’ora da quando erano partiti – a quel punto, Hans poteva essere ovunque. Per quanto ne sapeva, potevano averlo anche portato altrove o consegnato direttamente al capitano Pawlowski.
Abbassò il braccio con un gesto meccanico. “Otto, vieni qui.”
Il cane, che fino ad allora si stava godendo gli apprezzamenti dei soldati, drizzò le orecchie e lo raggiunse trotterellando.
“Seduto.”
Otto si sedette obbediente sulle zampe posteriori, piegando appena la testa di lato mentre gli acuti occhi marroni lo fissavano con attenzione.
“Devi aiutarci a ritrovare il maggiore”, gli disse il capitano in tono sommesso, per poi accucciarsi di fronte a lui e porgergli entrambi i guanti per farglieli annusare. “Devi condurci da lui. Lo farai?”
A quelle parole, il pastore tedesco gli strofinò il muso contro il ginocchio ed emise un latrato in segno di approvazione, agitando la coda pelosa come se fosse una bandiera.

Le ombre scivolavano languide sulle strade illuminate dagli ultimi raggi del sole morente, animando i vicoli di mille fruscii sinistri. Le facciate strette e allungate delle case erano dipinte di colori sgargianti – dal rosso vermiglio al verde mela, dall’arancione all’azzurro – che cozzavano in modo grottesco con le crepe e i buchi scavati dalle bombe. Ogni tanto, una pallottola sibilava annunciando la presenza di nemici nascosti chissà dove.
Friedrich von Kleist, alla testa della squadra, scivolava lungo i muri con la guardia della pistola alzata e le spalle sempre più appesantite dai dubbi: era ormai da troppo tempo che aveva abbandonato il suo posto al comando della compagnia per lanciarsi in quell’impresa che sembrava a tutti gli effetti destinata a rivelarsi un fallimento, e il caos onnipresente lasciava poche speranze riguardo a un’imminente fine delle ostilità.
Aveva promesso ai suoi subalterni che avrebbe liberato il maggiore, che l’avrebbe riportato indietro: con che coraggio si sarebbe ripresentato sul campo di battaglia senza di lui? Con che faccia tosta avrebbe legittimato ai suoi superiori – Hans compreso – quella palese infrazione?
Ma soprattutto, come avrebbe giustificato a se stesso una simile disfatta?
“Signor capitano, il cane ha fiutato qualcosa.”
Von Kleist annuì, senza tradire alcuna emozione. Sarà la quarta volta che fiuta qualcosa e poi non c’è niente, avrebbe voluto dire, ma ciò sarebbe equivalso ad ammettere la sconfitta, e una parte di lui continuava a sperare – a sentire – che Hans fosse ancora all’interno del paese. Trasse per l’ennesima volta il guanto di pelle dalla tasca e lo allungò verso il tartufo del cane.
Otto gli diede un colpetto alla mano col muso e riprese ad agitare la coda. Fece un giro annusando le pietre del selciato, poi tornò da Krause e abbaiò, digrignando i denti.
Friedrich alzò la testa verso il luogo puntato dal cane: si trovavano a pochi passi da un edificio fatiscente, schiacciato tra due palazzi rivestiti d’intonaco pallido e scrostato, che aveva l’aria di essere abbandonato da prima della guerra. La facciata era dimessa, in mattoni crepati, e le finestre senza vetri né imposte. Un vialetto, al centro di un giardinetto delimitato da un muro basso, scompariva sotto un mare di erbacce che recavano i segni del recente passaggio di molti uomini.
Tra quelle quattro mura regnava un silenzio poco rassicurante.
“Ha fiutato il pericolo”, constatò. “Non sappiamo se Bühler sia effettivamente qui, ma è una possibile pista.” Ripose la pistola nella fondina e riprese sottobraccio l’MP38. “Avanzate con cautela: faremo irruzione sfruttando l’effetto sorpresa.”

Non ebbero ancora varcato il cancello che una sferzata di proiettili spazzò l’erba a bruciapelo. Bauer arretrò con una sonora imprecazione, Kollwitz sparò una fucilata tacitando la mitragliatrice, Krause spinse il cane in copertura dietro il muro.
Una voce rude intimò loro di allontanarsi, dall’interno della casa provennero urla concitate.
“Fate attenzione”, ordinò Friedrich, lanciando uno sguardo alle orbite vuote delle finestre.
Irruppero all’interno del rifugio assaltandolo su due lati; gli uomini che vi erano asserragliati risposero prontamente al fuoco. Qualcuno si riparò dietro poltrone e divani, altri fecero improvvisate barriere di tavoli rovesciati e sedie accatastate l’una sull’altra. In una manciata di minuti, l’odore della polvere da sparo e quello del sangue si sovrapposero a quello della muffa che impregnava i muri, rendendolo ancora più penetrante.
Kollwitz e Hanke afferrarono un soldato per la collottola e lo scaraventarono spalle al muro, l’altro gettò il mitra ai piedi di Böhmer e si arrese. Friedrich si sporse oltre l’orlo del tavolo e fece scorrere lo sguardo da un capo all’altro del piccolo salone: adagiato su una sedia c’era Bauer con una gamba tesa, che gemeva tra i denti mentre Löffler gli applicava una medicazione d’emergenza; uno dei polacchi giaceva bocconi, immobile, sul divano di pelle consunta.
Il capitano si tirò su e raggiunse il centro della stanza con incedere grave. “Dove tenete il prigioniero?” domandò ai due soldati.
Nessuno rispose. Kollwitz colpì il primo dei due col calcio del suo fucile, strappandogli un basso grugnito di dolore.
“Dove tenete il prigioniero?” ripeté l’ufficiale, con maggiore durezza.
“Nel seminterrato, signore,” rispose l’altro.

Scesero lungo una tortuosa rampa di scale verso uno scantinato tetro come una spelonca, che odorava di chiuso e di umidità.
Mentre la lama di luce della torcia di Kollwitz fendeva le tenebre picee, von Kleist non osava emettere fiato: lungo le pareti erano accatastate delle fiasche vuote che mandavano bagliori sinistri, mentre il resto dell’ambiente era spoglio. Al pavimento scabro mancavano diverse mattonelle; fasci di ragnatele pendevano dal soffitto come macabri festoni.
L’alone luminoso si fermò su una porta chiusa. L’unico rumore che proveniva da lì dentro era uno scalpiccio di passi nervosi, che all’improvviso si acquietò lasciando spazio a un silenzio sospetto.
Friedrich alzò la pistola. “Kollwitz, tieniti pronto a sfondare la porta.”
Il giovanotto annuì, caricò come un toro e le assi di legno si spezzarono sotto l’impeto dei suoi colpi. I cardini cedettero e la porta si aprì, rivelando una stanzetta squallida.
Friedrich si sentì mancare il fiato quando vide, curva su una sedia, la figura di Hans: aveva il viso rivolto verso la parete e le mani legate dietro la schiena, ma riconobbe le sue spalle larghe e solide. Indossava soltanto la camicia, sulla cui stoffa bianca spiccavano alcune chiazze di sangue.
“Halt!” comandò la voce di un uomo. Il suo volto era livido e tumefatto, gli occhi iniettati di sangue: non aveva l’aria, né la fermezza del soldato di professione; sembrava piuttosto uno di quegli uomini costretti a combattere per disperazione.
Von Kleist rimase immobile, senza abbassare la pistola. “Libera il prigioniero e consegnalo a me: ci sono sette uomini armati al piano di sopra,” si limitò a dire, in tono di velata minaccia. “I tuoi compagni si sono già arresi.”
L’altro strabuzzò gli occhi in un’espressione di terrore e, colto da un guizzo di subitanea follia, afferrò il maggiore per i capelli e gli puntò un coltellaccio alla gola. “Un passo avanti e lo ammazzo.”
Hans non reagì in alcun modo, neanche quando la lama gli sfiorò la pelle pallida del collo.
A quella vista, il capitano rimase come pietrificato; di fronte ai suoi occhi passò la ferale anticipazione di quella minaccia. Glaciale, premette il grilletto e sparò. L’uomo sussultò sotto l’impatto delle pallottole e crollò esanime; il coltello cadde con un clangore metallico.
Friedrich abbassò la pistola con lentezza esasperante, il braccio scosso da un impercettibile tremito: solo in quel momento si accorse che il suo cuore aveva preso a battere a un ritmo irregolare, non sapeva neanche lui se per la paura di ciò che sarebbe potuto accadere o per la sensazione di averla scampata.
Espulse tutto il fiato che aveva trattenuto. “Kollwitz, lasciami da solo col maggiore.”
“Sissignore,” rispose l’altro, ancora incredulo.
Attese che il soldato portasse via il corpo, poi si richiuse la porta alle spalle e accese la lampadina che pendeva dal soffitto. Per terra non c’era sangue; l’uomo doveva essere morto sul colpo. Si guardò rapidamente intorno: in un angolo della stanza c’erano un secchio d’acqua putrida e una ramazza spelacchiata; poco distante, il piano di un tavolino sbilenco era disseminato di oggetti di vario genere, tra cui la giubba, l’elmetto e gli effetti personali che erano stati requisiti al prigioniero.
Si avvicinò a lui, sciogliendo il nodo che gli attanagliava il petto. “Signor maggiore.”
L’ufficiale rispose con un debole mugolio, ma non accennò a muoversi. Friedrich gli si chinò di fronte, tagliò le corde intorno ai polsi e prese le sue mani tra le proprie: la percezione del loro calore familiare gli infuse una parvenza di sollievo. Notò che la destra era ricoperta da una fasciatura lercia e insanguinata, i polsi leggermente arrossati dalla pressione delle corde.
“Hans?” mormorò, a voce più bassa. Trasse un fazzoletto dal tascapane e con delicatezza gli ripulì il viso dal sangue rappreso.
A quel punto, il maggiore sbatté le palpebre e lo guardò frastornato, come se stesse cercando di scrutare il fondale attraverso acque torbide e tumultuose. “Von… Kleist?”
“Siamo da soli”, sussurrò il giovane.
Bühler si passò una mano sul viso. “Friedrich.”
Il capitano gli porse la sua borraccia ed egli bevve una copiosa sorsata, incurante dell’acqua che gli colava sul mento e sulle labbra. Pian piano, i suoi occhi riacquistarono il luccichio della consapevolezza. “Grazie, ne avevo bisogno.”
“Come ti senti?”
“Sto bene, sto bene.”
Fece per alzarsi con un gesto sbrigativo, ma ricadde subito dopo sulla sedia in preda ai capogiri. Imperterrito ci riprovò, tuttavia riuscì soltanto a muovere un passo malfermo verso il compagno, che gli cinse la vita per sostenerlo prima che perdesse di nuovo l’equilibrio. Hans non rifiutò il sostegno, ma gli avvolse un braccio intorno alle spalle.
Senza dire nulla, Friedrich gli offrì la sua barretta di cioccolato alla caffeina. “Dobbiamo andare al più presto via da qui. Ce la fai a reggerti in piedi?”
Hans non rispose: finì di mangiare, accartocciò l’involucro e si limitò semplicemente a sciogliere la presa, cercando di recuperare l’equilibrio. Le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso, ma gli occhi rimasero seri. “Com’è che sei arrivato fin qui, Friedrich?”
“Con tutto il rispetto, signor maggiore,” obiettò il capitano, “non abbiamo tempo per parlare, siamo sempre nella zona controllata dal nemico.”
Bühler si avvicinò al tavolo e passò in rassegna i suoi oggetti, sepolti sotto cumuli di cianfrusaglie. “Mi hanno portato via le armi,” osservò, mentre si riabbottonava la giacca.
“Puoi prendere la mia pistola, io userò l’MP38”, disse Friedrich. Tese l’orecchio: anche da lì, in quel buio scantinato, si potevano udire i colpi dell’artiglieria che si susseguivano come scosse di terremoto.
“Grazie, Friedrich.” Il maggiore annuì e si allacciò la cintura, riprendendo il suo contegno da comandante di battaglione. “Forza, torniamo indietro. Mi spiegherai tutto strada facendo.”
Quando uscirono per le vie di Łowicz, il cielo era ormai ammantato della luce cobalto del crepuscolo.

  
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