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Autore: Makil_    26/06/2019    4 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



I raggi del sole iniettavano le loro fiamme giallastre sopra ai tetti di quello che doveva essere il regno di Roscart Wargrave: un ammasso indistinto di tetti color argilla e torrioni di pietra rigida di una tonalità simile a quella della sabbia umida. Le creste che dipingeva il sole sul tetto delle tre torri di quel regno sembravano chiome dorate in perfetto contrasto con il grigiore delle mura disposte a circondarlo. Tutt’attorno l’aria era terribilmente fetida, immobile e senza un solo sospiro di vento a rinfrescarla. Poco lontano c’era qualcosa di simile ad una pozza d’acqua scura, un profondo pozzo di mattoni da cui poter ricavare un po’ d’acqua, qualche recinzione per animali sparuti e tre casolari del tutto abbandonati, a giudicare dall’aspetto malandato che gravava su di essi.
Cos’è questo posto?” avrebbe chiesto Bart in altre situazioni. L’ingresso del regno era presidiato da due piccoli torrette di guardia, i cui tetti erano bordati da merlature disomogenee. A difendere le feritoie dalla bestia più feroce delle Terre Brulle – il caldo – c’erano seguiti di tendaggi viola e bianchi, sotto ai quali si riparavano file di arcieri con le loro balestre cariche, che non poterono che far ripensare a Bart al tragico momento del torneo falsato di Roshby.
Nel tragitto verso il portone d’ingresso, il solo a rivolgere la parola ai prigionieri fu ser Dalwar, che aveva un viso più che sudato e un paio di orecchie scarlatte ai lati della testa, simili a grosse pustole in procinto di esplodere. «Hai sete, ser?»
Bart scosse il capo, nonostante fosse più che assetato: non avrebbe accettato mai e poi mai di bere qualcosa proveniente da un nemico.
«Sembrava il contrario» fece lui, poi accennò ad allontanarsi.
«Ser Dalwar» lo chiamò Bart con un filo flebile di voce. «Perché ci state portando qui?». “Meritiamo di soffrire così tanto?
«Non dovrei parlartene, ser, ma mi sembrate già troppo malridotti per non sapere neppure dove vi stiamo portando». Ser Dalwar grugnì. «Vi darò una dritta: questo è Ocskwert, un piccolo borgo cittadino della casa Wargrave, possedimento di sua nobile maestà Roscart, signore indiscusso di Giardino Dorato.»
Fu patres Steffon a prendere parola dopo di lui. «Giardino Dorato è a sud-ovest, cavaliere, e noi siamo diretti a nord. Cosa vuol dire tutto ciò?»
«Sta’ calmo e non sforzare la tua mente, patres, o morirai di infarto prima di poter sussurrare l’ultima parola: il caldo non ti sta giovando mica. Il nostro signore ha alcuni problemi con la sua donna, per adesso. Discussioni di piccolo calibro, davvero, che, pietra dopo pietra, hanno portato a creare una valanga di problemi. E questa valanga ha condotto con sé la separazione forzata dei due. Ora la Signora dei Merletti ha avuto l’accortezza di appropriarsi del titolo di signora di Giardino Dorato, ha sbarrato gli ingressi al marito e alla sua corte, e lo ha costretto a fuggire nell’unico posto disponibile: qui, esattamente, ad Ockswert.»
Patres Steffon chinò il capo. «Noi stiamo molto male, ser, e non abbiamo intenzione di morire… ve ne prego, liberateci. Non conosciamo la storia del conflitto dei vostri signori… e voi sapete che non ne abbiamo mai preso parte. Veniamo dal sud… ed ecco… e non conosciamo i vostri…»
«Nostri non sono» lo fermò bruscamente ser Dalwar.
«Non vostri» si corresse immediatamente Steffon. «Ve ne prego, liberateci. Abbiamo sofferto a lungo le pene di un viaggio estenuante che ci ha condotti da Roshby, dopo un torneo finito nel massacro, alle Terre Brulle. Abbiamo visto morire un nostro compagno, ucciso dal Fiore Rosso. Abbiamo patito le peggiori pene dell’inferno per un po’ d’acqua… non abbiamo colpe, ma solo fame e sete.»
«Posso darvi l’acqua» promise ser Dalwar tenendo salde le briglie del suo cavallo. «Ma ciò non vi salverà dal processo. Se sarete fortunati e se è vero che non avete colpe, allora non avete neppure da temere: in quel caso non vi sarà torto un solo capello. Ma se qualcuno dovesse testimoniare contro di voi e se sarete additati come ribelli della Signora dei Merletti, nessuno potrà salvarvi, né con le parole né con i fatti.»
Ser Dalwar non concesse alla discussione di procedere oltre, diede di speroni e si allontanò in corsa alla punta della compagnia.
L’immenso portone di legno di Ockswert era chiuso, sbarrato da una possente grata di ferro nero. Ser Dalwar e ser Walifer si disposero dinanzi all’ingresso e ordinarono ai loro cavalli di dare un calcio ai battenti.
«Chi va là?» vociò un tono possente proveniente da una delle strette feritoie.
«Ser Dalwar e tutti gli altri» rispose il cavaliere. «Non credo sia necessario ripetere continuamente questa domanda, Zacharias. Non avete altri cavalieri all’infuori di noi.»
«Aprite la chiusa!» urlò un’altra sentinella invisibile.
Il rumore assordante di una serie di meccanismi arrugginiti preannunciò l’apertura del cancello, che andò via via alzandosi per lasciare spazio allo scuro portone di legno che li separava da Ockswert.
«Chi avete con voi?»
«Prigionieri, cavalli e vettovaglie» rispose ser Walifer.
«E chi non avete più con voi?»
«Smettiamola con queste formule di rito, dannazione!»
«Ripeto: chi non avete più con voi? Sua signoria Wargrave ha dato ordine di segnare perdite e acquisti continuamente. Non ho voglia di rimetterci la mano per non averlo ascoltato.»
«Ser Henry ha perso la mano: a proposito, la considerate una perdita rilevante?»
«Non tanto da incidere su tutti i nostri calcoli, ser.»
Il portone iniziò ad aprirsi molto lentamente. Ciascun battente fu tirato verso l’interno dai grossi macchinari a forma di ruota che giravano in modo vorticoso e rapido. Alla fine, l’ocra di cui erano affrescati tutti i palazzi di quella scombussolata cittadina fu ben visibile ad ognuno di loro.
Il gruppo si mosse a brevi passi e iniziò a dividersi: alcuni cavalieri della scorta proseguirono verso ovest, in una piccola e stretta stradicciola che sembrava concludersi con un vicolo solitario e lontano, magari verso una locanda. Altri invece raggirarono un grosso edificio dalle mura quasi arancioni e si diressero verso una piazza che, a detta loro, non doveva essere molto lontana. Quanto a ser Walifer, ser Henry e ser Dalwar, la loro marcia proseguì verso nord, su una salita che s’inerpicava attorno ad un piccolissimo colle, diretta verso la dimora, non del tutto nobile, del signore di quel posto. Con loro, ovviamente, furono costretti ad andare anche i rispettivi prigionieri, Bart scomodamente poggiato sul dorso dello stallone di uno dei minacciosi oppressori.
La strada che seguivano terminava ad un certo punto in un grande spiazzale acciottolato, zona in cui si erigeva un altro di quei grandi edifici dalla pianta quadrangolare, perfettamente delineato e scolpito come un colosso di rigida pietra, di appena qualche piede più grande degli altri che lo circondavano.
“Che posto misero per morire” pensò Bart. “Dalton non avrebbe permesso che io morissi come un brigante. Lui non avrebbe mai permesso che io venissi catturato”. Bart stava rivalutando da giorni ormai il suo essere e il suo agire. Davvero poteva considerarsi un cavaliere, alla luce di tutto quello che gli era capitato? I cavalieri non si lasciavano abbattere con così grande facilità! O almeno non quelli che Bart conosceva e aveva imparato a conoscere.
Si ricordava ancora dei ser che aveva visto combattere nelle quintane di Roshby, quei maledetti giochi che erano sfociati nel più efferato disastro degli ultimi decenni, e aveva ancora memorie, seppur sbiadite, di tutti i cavalieri che aveva conosciuto nella sua breve vita. Ricordava persino dell’abilità di Esmerelle con la spada, che di certo superava la sua destrezza. Era certo di una cosa: nessuno era mai stato tanto debole quanto lui. Nel vedere i suoi compagni malridotti sul carro e sul dorso dei cavalli nemici, soffriva come non aveva mai sofferto in vita sua, e si dispiaceva tanto per la sorte che era toccata loro e ancor di più per non essere stato in grado nemmeno questa volta di porvi adeguatamente rimedio. “Presto o tardi sarà tutto finito, amici” questo forse lo rincuorava, stranamente. “Saremo quanto più vicini quando ci taglieranno via la testa dal collo”. Sarebbero davvero arrivati a tanto quei loro oppressori? La ricerca di una risposta, in verità, non lo consolava affatto.
I cavalieri accostarono il carretto all’ingresso dell’edificio, e guidarono i pochi cavalli in un piccolo box adiacente a quell’infido palazzo. Bart fu preso di peso da ser Walifer, che se lo mise sulla spalla come un sacco di grano pronto per essere dato ai fornai, e con la stessa noncuranza lo trasportò con sé verso il portone d’ingresso.
L’ampio salone del palazzo di Roscart Wargrave aveva pareti dello stesso colore della terra riarsa, come se i mattoni che le componevano fossero appena stati cotti a fuoco lento in un potente ed immane camino. L’accesso dava sulla sala del trono, uno scranno di legno ben rifinito e dall’alto schienale a forma di sole. Al di sopra del sedile regale s’innalzava un’immensa vetrata variopinta in cui erano disegnate varie scene di combattimenti e tanto altro ancora, in un minuzioso ed intricato ammasso di figure color rosso, blu e giallo che sembravano danzare a contatto con la luce del sole come pezzi di un mosaico fatto interamente di vetro. Il pavimento della sala era di marmo pallido e freddo, attraversato da qualche striatura di nero appena intravedibile, come le gelide vene di un uomo sul suo esile braccio. Nel complesso, quell’enorme salone era tetro e quasi asfissiante, con le sue tre navate che sembravano chiudersi attorno ai poveri prigionieri di viaggio, quasi come a volerli soffocare all’interno di tutto quel marmo e di tutta quella roccia incolore.
E incolore erano anche i volti di coloro che lì dentro risiedevano.
Una sentinella a guardia dell’ingresso fece cenno di avvicinarsi e gli consentì di passare. Bart, ancora sulle spalle del Cavaliere della Forca, vide il tramortito patres Steffon camminare a capo basso tra ser Henry e ser Dalwar, gli spessi lacci legati ad entrambi i polsi. Steffon non avrebbe retto ancora per molto a tutti quei soprusi: Bart era convinto che da lì a poco avrebbe iniziato a redarguire uno per uno tutti i cavalieri che li avevano costretti a tanto.
Ser Dayn e ser Mark furono trasportati dentro con tutto il carretto per le vettovaglie: i due dovevano essere talmente tanto tramortiti da non poter neppure aprire un attimo gli occhi per vedere in quale immondo disastro fossero incappati. “Un bene, forse” pensò Bart. “Se mai dovessero morire, non capirebbero nulla”. Ma Bart… Bart avrebbe capito… e anche troppo: forse era per questo che non aveva alcuna intenzione di rimetterci una mano, o un braccio, o la testa, per qualche frutto mai davvero assaporato o per una colpa mai commessa.
Percorrere quella sala fu più doloroso che camminare su una strada fatta di carboni ardenti. Quale peggiore oltraggio gli sarebbe potuto toccare? Essere spogliato del suo onore, della sua forza, della sua tenacia, dinanzi ad un pubblico così gelido ed irremovibile com’erano quelle pareti di roccia, non poté che sminuire il giovane Bartimore a tal punto da indurlo a coprirsi la faccia con le mani, ancora legate saldamente al nodo stretto che cingeva i suoi polsi. Se avesse potuto camminare al posto di ser Walifer, Bart sarebbe corso via per il dolore. Un cavaliere - uno vero - non poteva reggere alla sua distruzione, allo sgretolamento, passo dopo passo, del suo più importante tesoro: l’onore; un tassello del mosaico del suo animo che era estremamente importante… e dannatamente distruttivo, quasi mortale talvolta.
Lo scranno del signore di quel palazzo s’innalzava su un palco di legno, difeso ai lati da altre due sedie robuste e gelide. Ai lati del trono sedevano due guardie dall’aspetto tutt’altro che minaccioso, senza spada né armatura, ma difesi solo da corazze appena smaltate. “Quello non è neppure vero acciaio” pensò Bart vedendoli. Erano veramente dei cavalieri? Fino ad ora, Bart non aveva visto neppure uno…
Simile ad un solitario arboscello notturno, appena avvizzito e tralasciato da qualsiasi lucciola, per nulla nel fiore dei suoi anni, al centro dell’ampio salone li attendeva in piedi un uomo dai lineamenti più che ossuti e gravosamente scarni. Il suo naso adunco e la sua fronte sporgente gli donavano un aspetto quasi buffo, e tale sarebbe apparso completamente se non fosse stato per i suoi capelli canuti dall’attaccatura sulla nuca e la sua pelle pallida come le nubi rilasciate da bivacchi appena innalzati su un campo di gelido ghiaccio. L’uomo indossava un farsetto nero in pieno contrasto con i colori della sua pelle, attraversato per lungo da strisce grigie che dipingevano figure contorte sulle sue vesti, e che terminava con un collo alto del colore del cuoio raggrinzito.
Ser Walifer depose per terra il corpo di Bart, senza assicurarsi di farlo con l’attenzione necessaria a non fratturargli l’osso del piede. Al suo fianco vennero posti i due ser privi dei sensi, Mark e Dayn, e patres Steffon. C’erano anche altri prigionieri con loro, Bart se ne era reso conto solo adesso, ma nessuno di loro era nelle condizioni di sostenere un processo seduta stante o anche solamente di alzarsi e maledire qualcuno dei loro oppressori. Le ginocchia erano doloranti come se fossero appena state utilizzate come bersaglio di un gioco con le pietre e l’intero completo di maglia di Bart era insanguinato e sporco. La mandibola era tornata a dolergli, e le ferite ricevute al torneo falsato di Roshby bruciavano sotto alla maglia e sotto alle brache “Dannazione”. Bart strinse i denti tanto forte da costringersi a pensare che si sarebbero spaccati. “Fa’ che le ferite non si riaprano”.
«Già di ritorno, uomini?» sentenziò l’uomo dalla pelle bianca.
Ser Henry si avvicinò, costrinse uno dei suoi prigionieri a chinarsi. Patres Steffon fece lo stesso, alla sinistra di Bart, e lui fu costretto a ripetere l’operazione di saluto con la stessa teatralità. Una volta genuflessi tutti i prigionieri, nessuno ebbe più modo di rimettersi sulle due gambe. Il pavimento era gelido sotto alle ginocchia del giovane cavaliere, freddo e ghiacciato come la neve torbida che negli inverni più rigidi ricopriva le merlature e i doccioni delle mura della fortezza di Sette Scuri. “Grazie, datemi forza” pregò Bart. “Datemi…” Cosa avrebbero dovuto dargli? Avevano potere in quella tetra fortezza? “Datemi… coraggio”.
«Di ritorno e a mani piene» rispose pronto ser Walifer. «Più di quanto ci saremmo aspettati, in effetti.»
«Bisognerebbe aspettarsi di tutto in giorni come quelli che corrono, Cavaliere della Forca. I ribelli e i traditori sono come i peli… più li tagli, più loro ti recano l’affronto di crescere forti e numerosi.»
Al fianco sinistro di Bartimore, patres Steffon aveva chinato il capo come pronto a ricevere qualsiasi genere di frustata. “No, Steffon…” Bart capì solo allora di averlo perso: l’esperto non avrebbe mai chinato così profondamente il capo.
L’uomo dalla pelle pallida fece qualche passo verso loro. I prigionieri, in una schiera di cinque, immobili come rigide e tozze colonne di un edificio, si ritrassero simultaneamente. Egli fece finta di non notare questo particolare e si posizionò di fronte al primo dei prigionieri sulla destra.
«Un galantuomo dalla pelle albina» pronunciò ad alta voce, gli occhi semiaperti, quasi come a volerlo studiare. «Mi somigli, giovane. Chi sei e da dove vieni?». L’uomo gli pose un dito sotto al mento e gli alzò la testa con violenza. «Guardami;  i miei occhi non hanno mai pietrificato nessuno.»
«Castellano…» iniziò a piagnucolare il prigioniero. «Lasciatemi andare, ve ne prego… sono un padre di famiglia, non ho mai avuto parte in ciò di cui sono accusato. È stato ser Varymar a dirmi di attaccare le vostre riserve… ve ne prego!»
Lo schiaffo che gli arrivò sulla guancia produsse un rumore che risuonò lungo tutti gli angoli del salone. L’uomo dalla pelle bianca corrugò la fronte. «I titoli giusti agli uomini giusti; diamo ad ognuno quel che è di ognuno, vigliacco. Perché avete preso d’assedio le nostre riserve a Giardino Fiorito?»
Il prigioniero si tastò con entrambe le mani la guancia color porpora, il segno delle cinque dita dell’oppressore impresso come con una marchiatura a fuoco. «Ve ne prego…»
«Perché avete preso d’assedio le nostre riserve a Giardino Fiorito?». Chi sentenziava aveva un tono ferreo, indiscutibile… e tanto bastava ad incutere più timore di uno di quei cavalieri alle loro spalle, seppur fosse armato, ammantato del gelido acciaio, ricoperto di tutto l’odio e il rancore del mondo.
«Un ordine» pronunciò silenziosamente il prigioniero. «Mi avrebbero ucciso… strappato le dita! Sono un buon padre di famiglia… i miei figli… oh, poveri dolci creaturi… chi dirà loro che sto per morire? Io non ho colpe… e mia moglie, oh povera donna… il suo cuore non è più forte come un tempo.»
«Sarà più povera di quanto tu non credi, una volta che ci saremo ripresi di forza Giardino Fiorito. Di’ ai nostri uomini qual è il suo nome, vigliacco, e le offriremo un trattamento peggiore di quello che potresti immaginare nei tuoi più brutti sogni.»
«NO!» vociò con una forza incredibile l’uomo. «Ve ne prego, maestà… signore… dio… non fate del male ai miei famigliari… ve ne prego…»
«Ogni tua parola è una condanna in più alla tua famigliola. Meno parli di ciò che vogliamo sapere e più avrai da rimetterci, oggi, domani e dopodomani.»
Ser Henry lo strattonò da dietro, tenendolo per i lacci legati ai polsi. «Parla di quello che il nostro castellano vuol sapere, insulso uomo. Bennor, lo abbiamo trovato proprio nel podere sulla Strada del Grano… ci ha detto che potevamo pisciare sul nostro regno e sul nostro signore, mentre lui, ricoperto di tutto l’orzo delle nostre riserve, fuggiva a cavallo.»
«Siamo tutti più coraggiosi quando ci troviamo sulla groppa di un destriero abile e veloce…»
«Un peccato che ser Wack abbia avuto una mira tanto eccellente e veloce da colpire lo stinco della bestia e far volare via il poveretto dalla sella. È stato allora che il vigliacco ha smesso di deriderci e ha iniziato a tremare… e si è pisciato addosso come un inutile mostro: forse voleva provare lui a rispettare l’ordine che ci aveva impartito. E quindi eccoti qui il suo corpo, Bennor.»
L’uomo dalla pelle pallida squadrò il prigioniero con gli occhi gelidi di chi osserva con disgusto, come se attorno a quel pover uomo gravasse l’aria fetida di un corpo in decomposizione. «Portatelo in cella». La sentenza fu dura, rapida e tagliente come l’acciaio di una daga appena affilata e pronta per conficcarsi sul collo di un condannato.
«NO!» urlò il prigioniero mentre già veniva tirato indietro da ser Henry. Provò a scalciare, ma non fece altro che aggravare la sua situazione: cadde a terra e venne assalito dalle due guardie sedute sui troni laterali al sedile regale. Il prigioniero fu soffocato tra tre corpi, prima di essere messo a tacere da un violento pugno sul petto. Come un sacco di pane bucato, fu trascinato di peso verso il bordo del salone, dietro ad una colonna e dentro ad una porta che si apriva sulla destra, con l’unica differenza che ciò che perdeva a flussi copiosi dalla bocca non era farina, ma sangue. 
Fu poi il turno del secondo prigioniero. Un ser dai lineamenti del tutto ordinari, il viso contratto e il collo taurino gli si posizionò alle spalle. Bennor gli si impuntò dinanzi, il dito sotto al mento e sorretto verso l’alto.
«Devi essere stato un tipo attraente, garzone». Il castellano allentò la presa dal mento e ritrasse le mani dietro alla schiena. «Chi sei e da dove vieni?»
L’uomo si ostinò a non rispondere. Bart capì che per lui stava arrivando una tempesta molto più distruttiva di quella che aveva colpito il precedente prigioniero.
«Ti è stata posta una domanda» evidenziò il cavaliere alle sue spalle. «Rispondi, prigioniero.»
«Non mettergli fretta, ser Owarck. Il nostro giovanotto avrà modo di rifarsi subito se non vorrà che a lui tocchi una sorte peggiore di quella che potremmo riservare ai maiali da macello.»
E infatti il prigioniero si rifece subito. «Scusatemi, signori… io non volevo… mi hanno pungolato per farmi entrare ad Ockswert. Io non volevo fare niente di niente… non volevo nemmeno nascere, in verità, ma mio padre aveva altre idee la notte in cui decise di mettermi al mondo.»
Un risolino sfuggì alle labbra incartapecorite dell’aggressore comune. «Siete ridicoli, uno dietro l’altro. Compiere determinati soprusi contro la nostra corona vi gratifica tutti, o questo vorrebbero farvi credere, e quando la giustizia si interpone tra voi e il vostro oro… ecco cosa riuscite a farneticare: scuse, solo scuse… e con le scuse non si può costruire un palazzo, non si può vincere una scommessa, non si può coltivare la terra, non si può mangiare… e non si può frenare la guerra!»
Il prigioniero mantenne il silenzio. Aveva saggezza, quantomeno, questo non si poteva negare.
«Chi ti ha ordinato di entrare?»
«Ser Varymar». Nel pronunziare quel nome il prigioniero non si fece alcun problema. Fu come sputare fuori un piatto mai veramente digerito.
«Questo ser Varymar deve essere diventato un tipo potente, suppongo.»
«Dicono che la Signora dei Merletti lo ha scelto come capitano della sua guardia personale: i Cavalieri della Seta. Sapete, signori? Nei vicoli più bui di Giardino Fiorito c’è chi sostiene di averli visti… lui e la vecchia Signora dei Merletti… da soli… avvinghiati l’uno al corpo dell’altra… le braccia che andavano a sfiorare i loro corpi quasi indemoniate…»
«Basta! Quella baldracca ha sempre tradito il nostro signore… e un giorno pagherà il pedaggio più brutto dell’altro mondo. Se Roscart dovesse saperlo… Ma, ad ogni modo, i suoi peccati non espieranno i tuoi, garzone. Per quale motivo ser Varymar ti ha commissionato quel compito?»
«Dovevo spiarvi, a detta sua. La Signora dei Merletti ha bisogno di ogni possedimento del suo regno per ottenere il pieno potere su Giardino Fiorito, e voi – così dicono, eh – glielo state fregando tutto. Da quando ha cacciato via Roscart Wargrave, la signora ha acquistato di nuovo la sua giovinezza!»
«E che se la tenga stretta con tutte le sue forze!» tuonò il vecchio Bennor. «E tu sei un uomo così vile da cedere a qualche frivola puntura d’acciaio piuttosto che restare fuori da questo ingorgo?»
Il prigioniero mantenne nuovamente il silenzio.
«Fai bene a stare in silenzio: sono sicuro che saprai quanto sei caduto in basso, garzone. Non ci sarà più gioia per te qui dentro… e il processo sarà molto duro nei tuoi confronti. Hai commesso un grave errore: dovrai pagarne le conseguenze che ti spettano… e sappi che saranno molto più dure di qualche carezza d’acciaio. Le celle anche per lui, cavalieri: prendetelo!»
Il prigioniero non riuscì neppure a balbettare qualcosa che, come fossero stati mastini dinanzi ad un pezzo di carne, lasciati chiusi in una gabbia aperta solo dall’ultima sentenza, i due cavalieri si avventarono su di lui e afferrarono di forza i lacci ai suoi polsi. Non furono necessarie le sue forze, le sue urla, i suoi latrati di dolore o i suoi lamenti… dell’uomo non si udirono neppure più i passi nel salone in meno di un battito di ciglia.
Bennor si mosse appena, neppure per un momento sconvolto dalla violenza utilizzata dai suoi uomini. “Una coda di uomini poveri, innocenti… ed un leone bianco, anziano, pronto a divorarci tutti. Non devo aver e paura…”. Null’altro che un’incitazione, forse. In realtà Bartimore aveva timore di quel che stava per accadere.
Un solo passo, l’ultimo, che risuonò più pacato degli altri, e Bennor fu dinanzi a lui.
Come fosse una formula di rito, Bennor posizionò il suo gelido indice sotto al mento scarno di Bartimore e tirò su il suo volto. Bartimore fu costretto a guardarlo negli occhi: bulbi bianchi infuocati da vene rossastre, sui quali s’illuminavano d’odio pupille nere come l’inchiostro appena prodotto. Le folte sopracciglia bianche aggrottate così fortemente da sembrare che stessero per crepare la fronte e la testa con questa. Il collo dell’uomo dalla pelle pallida come il latte era macchiato in diversi punti da nei rossi e punti neri, che costrinsero Bart a ripensare al Fiore Rosso, quel dannato morbo mortale, e al suo più grande amico e confidente: Dalton Kordrum. La pelle raggrinzita sotto al suo collo, cascante come quella di un anziano cavaliere, era più bianca dei suoi sparuti capelli.
«Un giovane alquanto abbronzato. Dovrò ammettere che gli dèi non sono stati giusti con noi due, giovanotto. A me hanno dato una pelle fin troppo trasparente e a te una vergognosamente scura.» mormorò sommessamente, come quasi non volesse che altri sentissero le sue parole. «Chi sei e da dove vieni?»
A rispondere per lui furono ser Henry e ser Walifer. «Questi quattro sono tutti colpevoli del medesimo reato nei confronti della corona Wargrave: ognuno a proprio modo e ognuno in modo più grave dell’altro.»
«Che genere di empietà, nostro buon cavaliere Henry?»
Ser Henry parve arrossire. Con un gesto rapido sfilò la manica della sua toga e lasciò scoperto il moncherino che gli aveva lasciato Bartimore al posto della mano. Alzò il braccio mozzato e lo mise in mostra alla fievole luce del salone.
Bennor rimase allibito, gli occhi fattisi più gelidi che durante una tormenta di carboni ardenti e lapilli.
«Chi ti ha fatto ciò, ser Henry?»
«Il giovane che hai appena definito abbronzato, castellano.» rantolò prontamente ser Henry, la voce macchiata di stizza.
Un gesto rapido di Bennor falciò l’aria. Il manrovescio che colpì Bartimore mandò a rotoli il suo senso dell’udito. Iniziò a sentire dei sibili lungo tutte le direzioni del salone. Bart fece per alzarsi, trattenne la rabbia mordendosi nervosamente le labbra. Fu Steffon a fermare la sua ira sul nascere, afferrandogli rapidamente il braccio. Bart gli rivolse lo sguardo giusto un secondo, ma l’esperto non ricambiò l’occhiata. 
«Non abbiamo colpe, mio signore» cominciò Steffon sussultando. «Noi non volevamo arrecarvi alcun fastidio. Come poveri affamati, innocenti uomini distrutti dalla guerra, ci siamo recati inconsapevolmente nel vostro possedimento terriero e… e… lo ammetto, lì abbiamo messo le nostre mani sul vostro cibo, sulle vostre riserve… ma…»
«Nessuna colpa?». Bennor avanzò verso Steffon, gli pose l’indice sotto al mento e gli ordinò di guardarlo fisso. «Occhi pieni di risentimento, giovane… e di saggezza. Guai a chi oserebbe dire che tu non sei un esperto!». Il castellano ritrasse la mano. «Si direbbe che un uomo dall’acume tanto sviluppato sappia che le mani di un individuo non cadono senza una ragione, come foglie di un albero in autunno. E ser Henry non è un albero, prigioniero.»
«Mi scuso per il comportamento del mio compagno: il suo è stato un gesto meschino, senz’altro.»
Il mio Lenticchia sta ancora piangendo nel cielo” pensò Bart. “La ragione c’era eccome. Meschino? Avrei dovuto ucciderlo, per di più.
«Il problema più grande» s’intromise ser Henry «È che tutt’e quattro sono implicati nella stessa congiura dei precedenti condannati, Bennor. Questo giovane qui…». Diede uno strattone ai lacci dei polsi di Bart. «… è il peggiore del gruppo. E sono sicuro che quella viscida Signora dei Merletti abbia a che fare con il furto messo in atto da questi… banditi!»
«Come potrei essere implicato in questa situazione?» domandò Steffon con poca forza. «Sono un esperto, votato all’Accademia da anni ormai… inviate un messaggero al mio accolito, Wylwor il Monco, a Città dell’Osso, oppure spedite un emissario alle nicchie dell’Accademia. Tutti vi sapranno dire chi sono quando saranno portati dinanzi al nome di patres Steffon.»
«Un patres ignorante» sibilò Bennor. «Una piaga più grande di quel che avevo previsto. Se fossi stato onesto, avresti saputo che l’Accademia non consente più l’accesso a nessuno che non sia uno di loro. I messaggeri sarebbero impiccati o lasciati fuori dalle mura a morire di fame e sete.»
Steffon cambiò tattica. «Mio signore» mormorò. «I miei compagni sono sfiniti, ser Mark e ser Dayn sono sul punto di abbandonarci. Abbiamo bisogno di cure, necessitiamo ardentemente di un incantatore che sappia cosa fare con le nostre ferite fasciate nel peggiore dei modi. Io… io… io non potrei ma perdonarmi di aver causato la loro morte. Volevo solo salvarli… vi prego, abbiate un po’di pietà per noi.»
«La stessa pietà che voi avete avuto per l’arto di ser Henry? No, amico o non amico, chi mette le mani sui nostri raccolti verrà immediatamente punito in modo consono alle accuse avanzate dai miei uomini. E la pena è alta per chi agisce in nome della megera che governa su Giardino Fiorito.»
Bartimore riuscì ad avvertire il risolino del ser panciuto alle sue spalle, divertito dalla cattiveria della situazione.
«Ma io ho detto di non essere al suo servizio. E con me non lo sono neppure i miei compagni». Il tono di Steffon si fece molto più tonante, rabbioso.
«E i miei uomini hanno parlato chiaro, esperto.»
«La mia parola contro la loro, allora, castellano.»
«Ma la loro vale cento volte di più qui dentro». Bennor si fece scuro in volto. «La scaltrezza non è ancora stata introdotta all’Accademia come corso di studio per gli infimi?»
«Quindi è questo il vostro modo di portare giustizia in un territorio del genere? Ora, durante un periodo di così forte squilibrio? Dove si trova il vostro signore? Dove si trova il vostro onore?»
La mano di Bennor saettò contro la guancia di patres Steffon e si schiantò contro la sua pelle producendo un sonoro schiocco che rimbalzò sulle pareti dell’intero salone. Calò immediatamente il silenzio.
La voce sibilante di Bennor riecheggiò cupa nel grande salone. «Tu cerchi giustizia in un mondo privo di sensi, dove il cane azzanna il cane e il fratello pugnala la sorella, dove la moglie avvelena il marito e la figlia pugnala infine la madre. Cosa credi che possa valere un po’ di buon senso in un mondo cieco e senza scrupoli? Si tratterebbe di un lume, una fiammella, un flebile bagliore ovattato dall’oscurità più totale… e nessun uomo ha occhi per vedere una goccia di luce nelle notti più buie e senza stelle.»
Bartimore si prese un momento per osservare i suoi compagni silenziosi. Dayn e Mark erano in pessime condizioni. I lineamenti dei loro volti erano completamente perduti, sporchi di sangue raggrumato, fanghiglia e melma marrone. Mark non aveva ancora riacquisito i sensi, perciò era stato adagiato sul pavimento in posizione fetale. Ser Dayn, nonostante fosse sveglio, giaceva sulle natiche posate contro il pavimento gelido della sala, immobile e innaturalmente stravaccato sulla gamba del cavaliere alle sue spalle: ser Dalwar.
«Se è ciò che la corona Wargrave vuole offrire a noi poveri uomini» iniziò sconsolato patres Steffon. «Sono e siamo pronti ad accettare la sentenza, dura o dolce che sia. Ma sappiate che io sono un esperto piuttosto intransigente e la mia memoria è poco malleabile. Terrò a mente le vostre parole e ne farò uno scudo, una barriera. Ci sarà un processo, dite? Me ne ricorderò, tra le tante altre cose.»
Bennor annuì, come a voler lasciare che continuasse per capire dove volesse andare a parare il suo prigioniero.
«Ebbene, sono sicuro che sappiate quanto sia importante la presenza di un consiglio di esperti ad un processo, qualunque sia il motivo della convocazione di un concilio. E gli esperti mi conoscono tutti.»
«Non ci sono esperti qui ad Ockswert» pronunciò rapido Bennor. «Povero, poverissimo patres… un peccato per te che ognuno degli accademici sia rimasto legato al governo della Signora dei Merletti piuttosto che a quello del mio buon signore Roscart.»
E questo dovrebbe bastare a capire chi ha torto e chi ragione in questa confusa disputa amorosa.”
«Allora non ci sarà nessun giudizio contro o a favore della nostra causa» replicò crudo Steffon. «Non mi pare di essere stato così meschino in vita mia da non potermi permettere un processo all’altezza del mio buon grado. Peraltro, la legge parla chiaro: un regno può esistere solo se possiede il giusto numero di impresari, amministratori ed esperti.»
Bennor gli riservò un altro schiaffo, questa volta sull’altra guancia. Steffon socchiuse gli occhi e rimase ammutolito.
Il castellano impose il silenzio con il suo sguardo glaciale. Poi arrancò indelicatamente su per gli scalini del soppalco della sala, si avvicinò al sedile regale e vi sedette sopra, le braccia incrociate al petto e l’espressione corrucciata.
«L’arroganza di un esperto dovrebbe rimanere silenziosa nella sua bocca. Le celle di questo palazzo vi daranno modo di riflettere sulle vostre parole e sui miei gesti, nonché sulla vostra situazione da sporchi menzogneri e beceri ladri». Si rivolse al suo gruppo di uomini in acciaio. «Ser Henry, ser Walifer, ser Dalwar e ser Uggwar, scortate quest’uomo meschino e i suoi infidi compagni nelle Galere Rosse. Ser Dalwar, da’ a Cargo l’incarico di ammaestrarli a dovere. Che vada giù di scudiscio e correggia, se necessario, ma che li induca a confessare le loro pene e le loro colpe.»
«Mio signore». Ser Herny chinò il capo e fece quanto gli era stato ordinato per primo. Steffon non osò più fiatare oltre, si lasciò afferrare per i lacci e strattonare a dovere, prima di essere preso di forza e trascinato lontano. Lo stessa sorte fu riservata a ser Dayn e ser Mark, entrambi sollevati di peso da ser Dalwar e da un ser del tutto sconosciuto. Ser Walifer afferrò Bart per la collottola, lo tirò violentemente su ed iniziò a strattonarlo.
«So camminare da solo, Cavaliere della Forca». Furono parole dure le sue, del tutto inaspettate per il cavaliere dalla forza poderosa.
Ser Walifer puntò i suoi occhi su di lui. Il bulbo vitreo color sangue roteava instabilmente all’interno dell’incavo del suo occhio, vuoto e ferito da una immane cicatrice rossastra. Quell’occhio era freddo come una lamina di ferro, capace di intimorire qualsiasi uomo capitato per caso sotto allo sguardo devastante del cavaliere. C’era anche l’altro bulbo posato pesantemente sugli occhi di ser Bart, ma quello era meno sfarzoso del primo. Nonostante ciò, Bartimore riuscì a vedervi stagliato dentro l’irritazione del cavaliere, una potenza soffocata, un nervosismo inconsueto e, peggior cosa di tutte, il terrificante sapore delle tenebre. Quel suo unico occhio nero era la notte meno illuminata che Bart avesse mai visto, scura e tenebrosa come l’ombra. Il giovane ser credé di aver visto per davvero la cosa più scura del mondo, ma nulla, in verità, fu più buio di ciò che vide la mattina successiva: un’alba senza la tipica luce del sole.

 


♣ Angolo d'autore ♣
Ci sono? Sì. Dovrei esserci. E' passato più di un anno da quando ho dovuto abbandonare forzatamente gli aggiornamenti della mia storia. Mi sono scusato con tutti voi lettori tramite messaggio privato, ma volevo rifarlo in questa sede. Spero che la mia storia continui ad interessarvi e che voi siate sempre certi di volerne seguire lo sviluppo. Ritornerò ad aggiornare regolarmente, benché un viaggio si trovi alle porte e due possibili aggiornamenti salteranno... ma non sparirò di nuovo xD

I nostri si ritrovano catapultati in una situazione più complessa del dovuto. Cosa pensate della loro sorte? E cosa della combriccola di uomini di Wargrave? 
Che vi è parso della figura del castellano Bennor? Ritenete che tutto ciò che Steffon ha detto sia giusto? Come credete che si potrà risolvere - se si potrà risolvere - l'equicovoco in cui sono incappati?


Insomma, ditemi tutto ciò che pensate. Vi lascio i miei ringraziamenti per essere ancora qui in compagnia della mia storia. Io aspetto domande e curiosità, semmai ne avete, a cui sono più che lieto di rispondere. Un abbraccio a tutti, 

Makil_
   
 
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