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Autore: Happy_Pumpkin    27/06/2019    1 recensioni
La nonna di Abel Mahogany sosteneva che nella vita ci fossero due tipi di scelte: quelle obbligate dalle circostanze e quelle fatte d'istinto. A volte certo erano connesse, ma di una cosa la vecchia signora Abigail era sicura: le decisioni istintive erano le migliori.
Tim Westfield però, con il suo cognome dal sapore inglese, la cadenza ignorante della Louisiana e la sequela effettivamente incontestabile di sfighe, manifestava le sue rimostranze in merito, proprio perché si trovava nella condizione di aver fatto una scelta d’istinto poche ore prima, più precisamente nella fase disperatissima del ‘rielabora a mente fredda quello che hai appena fatto, idiota’.
Un viaggio on the road ironico e a tratti malinconico, fatto di scoperte, di scelte, di personaggi eclettici e ricordi.
[Partecipante alla challenge Somewhere over the Rainbow indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia in onore del Pride Month]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I walked through the fire and I fly through the smoke:
mama, I'm a voodoo child.

3. Sunlight




Se ti comporti male, Tonton Macoute ti porta via.”


Tonton Macoute, Zio Sacco di Juta. Ancora a distanza di anni, Tim ricordava i moniti secchi di sua nonna paterna. Seduta sulla sua grande poltrona a fiori, con il camice largo e le ciabatte da cui spuntavano i piedi, fasciati dalle calze contenitive per combattere la pessima circolazione, la signora Westfield aveva un aspetto imponente, persino autoritario, e parlava di Tonton Macoute con talmente tanta convinzione da far credere all’allora nipotino che potesse evocarlo così, da un momento all’altro, come se fosse stato un suo vecchio amico.
Il giovane Tim ne era inquietato e affascinato al tempo stesso, anche se sua mamma gli diceva di non dare ascolto alla vecchia Tina, perché era spostata come suo figlio; e, considerando che suo figlio la mamma di Tim se l’era sposato, in fin dei conti al bambino non sembrava una posizione poi tanto credibile quella della sua genitrice.
Nonostante questo, e nonostante pochi anni dopo Tina fosse morta d’infarto, l’ombra di Tonton Macoute era rimasta; a modo suo infatti Timmy aveva provato a essere buono, per quanto, si era reso conto con la crescita, la definizione di buono nel mondo degli adulti fosse molto relativa. Così, mentre sua sorella maggiore cresceva e usava l’ironia come scudo, Tim aveva provato a interpretare cosa fosse buono o meno e ribatteva se qualcosa non gli andava giù: tenere le cose nascoste era pessimo, di certo non voleva che Tonton Macoute si barcamenasse fino all’Eight Street di Lafayette per punirlo e portarlo via.
Altra realizzazione in parallelo, però, era che agli adulti tendenzialmente non piaceva quando un ragazzino li contestava, o si esprimeva liberamente, quasi come se temessero di vedere mistificato il loro piccolo mondo fatto di principi inattaccabili per colpa di un marmocchio, sputato da una scatoletta di lamiera che ricordava un container, più che una casa. Questo dunque gli aveva dato un sacco di problemi, specie con suo padre e gli altri adulti con cui il piccolo Timmy aveva costantemente a che fare, eccetto sua madre, a detta di molti eccessivamente comprensiva.
“Sono le sue radici francesi che la rendono debole. Cajun: loro e come parlano. Pensano che qui sia l’Europa” sbottava suo padre, mentre Tim si teneva il labbro spaccato da un suo ceffone, quasi per farlo smettere miracolosamente di sanguinare.
In qualche forma, comunque, nonostante gli alti e bassi della vita Timmy era arrivato fino ai sedici anni senza troppi impedimenti di sorta, eccetto la normale lotta per la sopravvivenza, tra lavoretti pagati con qualche mancia per aiutare con le spese di casa, oppure i racconti sui loa trasmessi da Mama Hazika e quindi narrati in cambio di cibo ai bambini del vicinato, per quando i genitori non c’erano. Giunto a quell’età era arrivata anche la progressiva consapevolezza che, tanto, dal suo personale ghetto di povertà Tim non sarebbe mai uscito, come i professori, le sue uniche guide, si erano premuniti di ricordargli: non sei intelligente e sei svogliato per studiare, Westfield, quindi non pensare nemmeno di avere una borsa di studio. Il college puoi anche dimenticartelo. Anche se intelligenza e svogliatezza spesso venivano confusi con un precoce senso di arrendevolezza a un mondo di falliti; ma Tim aveva creduto a quello che dicevano i suoi insegnanti, dunque non si era mai scomodato a far cambiare loro opinione.
Tutto questo
insieme di fragili equilibri, però, aveva cominciato a mutare nel momento in cui Tim si era ritrovato a fare due conti con se stesso riguardo le proprie preferenze sessuali. E se in principio aveva attribuito lo scarso interesse ed eccitazione verso il genere femminile a un suo complessivo senso di disagio, alla rabbia e alla frustrazione per la situazione a casa, con il tempo Tim aveva realizzato che qualcosa non andava come doveva: nel masturbarsi davanti a qualche patetico ritaglio di uomini in intimo, rubati da una delle riviste recuperate di fortuna, o con in testa corpi maschili di compagni di scuola, piuttosto che di compagne.
Non si parlava mai di cose come l’omosessualità, anche se era un argomento sicuramente meno tabù di quanto avveniva decenni prima, né lui aveva amici, o parenti a cui rivolgersi
per chiarire i propri dubbi. Sua madre da un po’ di tempo a quella parte sorrideva raramente, stava sempre più a letto e si lamentava delle proprie frustrazioni meno di quanto facesse anni primae quante ne aveva, di frustrazioni: la carriera come insegnante naufragata per un matrimonio riparatore e dei figli avuti troppo giovane, dei libri che non leggeva con la stessa frequenza di una volta, soprattutto la sua amata Virginia Woolf, della generale ignoranza in cui suo marito Waltie era sprofondato e che stava risucchiando tutti loro, in un quartiere povero e con lavori precari.
Sua sorella c’era sempre meno a casa, impegnata a cercare di succhiare con avidità quel poco di libertà che trovava in amiche e ragazzi che sosteneva di amare, per poi dimenticarsene o piangere di delusione, quasi fosse una questione di sopravvivenza ultima, l’amore di un’altra persona.
Poi, Tim conobbe Mathieu.
Suo padre si era trasferito da Baton Rouge per lavoro e, come
Waltie Westfield, lavorava in una fabbrica che produceva zanzariere per porte e finestre; certo, a differenza del proprio vecchio, quello di Mathieu era un ingegnere, quindi assicurava al figlio tutto ciò che invece a Tim mancava. Ma quest’ultimo nemmeno da ragazzino era mai stato tipo da sentirsi sminuito o invidioso per le questioni materiali, seppur persino troppo conscio del peso del denaro: liquidava tutto con un pacifico pazienza, a lui è andata meglio, c’è gente a cui è andata meglio ancora e altri che stanno peggio. Così è la vita.
Difatti di Mathieu, più che i soldi, Tim aveva notato il fisico slanciato da corridore – una gazzella con il colorito d’ebano – i capelli ricci, acconciati in splendide treccine corte che tracciavano linee perfette sul cranio altrettanto armonioso. Gli occhi erano di un castano più chiaro, quasi nocciola, e alla luce del sole sembravano medaglie di legno contornate da un mare di ciglia folte, con una strada luminosa di denti attorno a cui si distendevano le labbra piene.
“Marie Laveau, eh? Deve essere stata davvero un portento!”
Aveva esordito all’improvviso Mathieu, con le mani nelle tasche dei jeans tagliati fino al ginocchio, il sorriso e un occhio chiuso per via del sole del tramonto. Tim era seduto sulle scale del porticato in Eight Street, stava infilando in un sacchetto della spesa le merendine, il boudin o altri contenitori di cibo portati dai bambini del vicinato che ora, finiti i racconti, stavano rientrando a casa; alzò lo sguardo, rimanendo in silenzio qualche istante perché non sapeva proprio cosa dire, troppo stupito che la gazzella fosse arrivata fino a lì.
“Sì. Mama Hazika però ci terrebbe a ricordare che il voodoo è una religione, la magia nera un’altra cosa. Ma ai bambini non sembra interessare.”
Il giovane allora aveva riso, con quella risata calda e vibrante che sembrava venire direttamente dai polmoni per far scuotere di piacere la trachea; forse, effettivamente faceva ridere che un cajun dai capelli biondi parlasse di voodoo a un creolo di origini haitiane. A quest’ultimo, però, in realtà sembrava non importare, esattamente come ai bambini: “Piacere, sono Mathieu. Mio papà ha conosciuto il tuo a lavoro, so che andiamo alla stessa scuola e allora, sai...”
Aveva scrollato le spalle, muovendo le pieghe della polo stirata. Aveva una scarpa di tela slacciata, quasi come se fosse uscito di fretta.
A quel punto Tim mosse le labbra in un sorriso; poi, le mosse per presentarsi a sua volta: “Tim. Dove abiti?”
Mathieu si guardò un istante attorno, grattandosi la testa: “Ehm, abito… non distante. Forse.”
Gli aveva sorriso di nuovo e, per la prima volta, Tim si era sentito consapevole della propria stupidità, dell’inesperienza, di tutto ciò che aveva di non chiaro nella propria vita. Mentre il cuore, ah, batteva con entusiasmo palpitante, lo stesso di quando il ragazzino si lanciava a tutta velocità giù per le discese con la bici del vicino, che cigolava e gli ricordava di fermarsi, ma lui attendeva fino all’ultimo solo per poter sentire fino in fondo l’eco dei propri battiti folli nelle orecchie.
“Vuoi entrare? Ho del succo” gli aveva proposto d’istinto, parlando più veloce, con la speranza luminosa che dicesse di sì, quel giorno, e poi altri, che passasse ancora nel suo vicinato per ascoltare qualche stupido racconto al tramonto del sole, quando la città si impigriva e i vecchi sedevano sulle sdraio per contemplare i raggi immergersi fin dentro le rive del Vermilion.
Mathieu aveva accettato senza nemmeno pensarci.
Da allora avevano avuto un anno per conoscersi e per rivelarsi l’uno all’altro, per ciò che erano: innamorati, come potevano essere innamorati due ragazzini di poco più di sedici anni, quindi senza pensare al futuro, ma comunque consapevoli del tempo. Così, mentre da una parte Tim vedeva sua mamma sparire tra le pieghe del letto, dall’altra usciva dalle mura di casa e lì tornava a vivere, con Mathieu. Prendeva con lui il bus per andare fino a New Orleans, aveva visto mesi dopo il Mardi Gras, sperimentando i colori e la festa, la musica e i balli; avevano chiesto passaggi di fortuna nel cuore della notte, tra gente che andava nei campi a lavorare e altri che, come loro, ritornavano nelle città vicine. Era andato nei locali a sentire suonare musica blues, aveva fatto lunghe nuotate nel lago Pontchartrain nei giorni d’estate in cui non aveva scuola, dormendo all’aperto o in una tenda di fortuna.
Aveva visto il sole riverberare sulle superfici dell’acqua, con il mare poco distante e le paludi simili a trame troppo larghe di un tessuto, dopo aver fatto l’amore con Mathieu in maniera di volta in volta meno impacciata ma mai davvero esperta, con quell’irruenza maschile che mascherava la paura di fallire, di essere troppo femmina, di star facendo un immenso sbaglio e svegliarsi, magari un mattino, con una voce sordida che gli diceva sei malato, Tonton Macoute ti porterà via.
Ma Mathieu era bello, era quel riverbero di luce sull’acqua, era i baci più sicuri, meno tormentati dell’animo perennemente in contrasto di Tim. Era le unghie perfette che gli grattavano la pelle o la schiena quando le zanzare gliela pungevano, era il modo in cui la lingua accarezzava e cercava quella del compagno senza vergognarsi, era la presa gentile quando lo masturbava e gli chiedeva di abbracciarlo perché aveva freddo e poi gli faceva il solletico, ma solo dopo, più tardi, perché in realtà realizzava di aver caldo e smascherava il suo pretesto.
“Sai, pensavo di dirlo a mio padre un giorno. Che sono gay” aveva confessato all’improvviso Mathieu. Era fine marzo e loro si trovavano sulle rive del lago, all’alba.
Tim era seduto accanto, con le braccia allacciate attorno alle gambe dalle ginocchia spigolose, i capelli biondi lunghi fino alle orecchie, fradici, perché si era fatto un bagno gelido e suo malgrado tremava. Con le labbra viola e un asciugamano di fortuna sulla schiena, Timmy si era girato verso Mathieu, guardandolo come se fosse stato un alieno:
“Dirà che sei una femminuccia – lo aveva detto con tono tiepido, un po’ tremante per il freddo – Capirà anche di noi due?”
Gli occhi azzurri, di vetro dorato per le prime luci del sole, si erano dilatati in un moto di panico involontario, anche se l’espressione era stoica, quella di un prigioniero che accettava la sentenza.
Mathieu, che non aveva più le treccine ma i capelli erano tagliati cortissimi, aveva sollevato le spalle: “Non sono una femminuccia, questo lo sa pure lui. Poi, anche fosse, dai, mi vuole bene. Crede in me. Non gli dirò di noi due, però forse lo immagina. Sai – mosse una mano, come se stesse spiegando un concetto fondamentale – credo si veda, che io e te ce la intendiamo.”
In un altro contesto, Tim sarebbe stato lusingato da quell’affermazione. Gli sembrava una bella e impacciata dichiarazione d’amore, se solo non fosse stato troppo impegnato a calcolare il peso delle scelte per riconoscerla.
“Mio padre… no, non lo capirebbe mai” aveva sbottato Tim, coinciso. Stava per alzarsi in piedi, quando Mathieu ancora seduto lo aveva fermato per dirgli: “Tuo padre è uno stronzo, Tim. Un omofobo razzista. Ce l’ha coi francesi, pensa di essere di origini inglesi e ce l’ha pure con noi negri – aveva fatto il segno delle virgolette con l’altra mano – perché è piccolo e frustrato. Sbattigli in faccia la verità: se lo merita, per come tratta te e per cosa sta facendo a tua madre.”
Tim per un attimo non aveva parlato. Con grande lucidità e un fare molto più adulto dei suoi reali anni, si era tolto dalla presa di Mathieu con un gesto però morbido, per poi ribadire apparentemente incolore:
“Sì, sì, mio padre è un pezzo di merda, lo so, non ho bisogno che me lo ricordi tu. Hai uno splendido rapporto con tuo papà, è un grande uomo, e ti auguro che le cose tra voi due vadano sempre così, anche quando gli parlerai di chi sei. Ma non voglio che ciò che sono diventi una punizione per il mio, di padre, capisci? E lascia fuori mia mamma. La depressione è una malattia, non uno scarico di responsabilità.”
Si era infine strizzato i capelli, per poi togliersi le mutande bagnate, asciugarsi e fare per rientrare nella tenda a vestirsi. Mathieu allora si era corretto, i muscoli più definiti di giovane atleta sembravano una molla tenuta sotto tensione: “Non volevo esprimermi così – una risata morbida, quasi come se si sentisse in difetto, tanto bambino, rispetto a quell’uomo rinchiuso nel corpo di un ragazzino – prendi tutto troppo alla lettera, sai che tuo papà mi fa arrabbiare e… è che sarebbe bello, no? Se potessimo parlare liberamente. Magari baciarci.”
Aveva arricciato il naso, i denti bianchi svettanti in un altro sorriso spontaneo. Tim non gli aveva risposto. Una volta aperta la tenda, si era infilato le mutande e una canottiera, per poi riemergere coi pantaloncini in mano e uno sguardo stanco, ma al tempo stesso malinconico:
“Vivi in un mondo di favole. Dai, rientriamo che devo arrivare a Lafayette prima che cominci il mio turno da Donny Burger.”
Mathieu allora aveva smesso di sorridere. Più alto, era scattato in piedi e con quel fervore giovanile ma lucido degli oppressi, il ragazzo aveva ribattuto: “Non sono io a vivere in una favola, Tim! Sei tu a essere rimasto confinato in un mondo retrogrado e stupido – aveva indicato con un dito oltre il lago, con alle spalle costantemente il mare, in un punto indefinito dei maestosi U.S.A. - là marciano per i nostri diritti. Là ci sono locali, là ci si tiene per mano, là ci sono associazioni e spettacoli, show televisivi, pagine su facebook, su instagram, su twitter. Smettila di credere che sarai sempre e solo un poveraccio figlio di operai incapace di uscire dal ghetto!”
Stava ansimando. Aveva urlato.
Tim aveva al contrario serrato le labbra e faceva fatica a respirare; aveva gli occhi lucidi: di rabbia, rabbia verso suo padre, verso sua madre che si era dimenticata di lui, verso sua sorella che lo pensava ma fuggiva, verso Mathieu che non capiva, verso il suo paese stupido, verso la sua casa così povera da essere patetica, una parodia di un tetto e di quattro pareti, verso il suo quartiere che odorava di asfalto sciolto, di peperoni e cipolle, di sudore, quando l’afa era insopportabile e l’odore del fiume portato dal vento caldo ricordava le insenature di Delacroix, stagnanti ma paradossalmente salate.
Allora, di riflesso, ancora incapace di gestire tutti quei sentimenti, anche se avrebbe dovuto, perché già lavorava, era dovuto maturare in fretta, si ingegnava per pagarsi i libri, per andare a scuola, per trovare il modo di non gravare sulla sua famiglia, Tim aveva digrignato i denti per poi urlare, facendoli quasi tremare. Aveva dato ancora una spinta a Mathieu che aveva compiuto un passo indietro, perdendo per qualche istante l’equilibrio, sorpreso ma non troppo da quello scatto furente. Westifield aveva urlato ancora, più forte, senza parlare, per poi aprire la bocca e continuare a gridare, con le vene sul collo che pulsavano e gli occhi gonfi. Non riusciva a piangere, anche se li sentiva lucidi per l’esasperazione.
Aveva afferrato poi Mathieu per la maglia; lo vedeva spaventato, come consapevole di aver tirato troppo la corda. Per un attimo la giovane gazzella d’ebano aveva creduto che Tim, coi suoi lineamenti nervosi, spigolosi ma al tempo stesso ancora intinti di un eco adolescenziale, gli avrebbe tirato un pugno.
Invece, Westfield aveva solo dilatato le narici, lo guardava e ammetteva, con voce rauca, senza piangere anche se il volto era arrossato: “Lo so. So di essere rimasto indietro, Thieu.”
Scosso, sconvolto, dopo essere tornato a respirare questi aveva balbettato qualcosa, la sua sicurezza di diciassettenne svanita con la stessa rapidità con cui smetteva di sorridere. Poi, aveva scosso la testa e gli aveva ribadito:
“Non ce l’avevo con te. Non è colpa tua.”
Di cosa ci fosse qualche colpa, esattamente, non lo sapeva nemmeno lui. Sentiva di volerglielo dire.
Tim aveva annuito, senza dire più nulla, quasi come una constatazione genitoriale dopo aver sentito le scuse del figlio, poi si era messo i pantaloncini e con un saltello le scarpe da ginnastica mentre, ancora nudo, in piedi, Mathieu lo guardava, incerto. A quel punto Westfield lo aveva guardato a sua volta, i capelli fradici che gli avevano bagnato la canotta; si rendeva conto di essersi allontanato, nella sua maniera particolare in cui stava imparando a distaccare i sentimenti, simili a un germoglio troppo precoce da togliere e tenere da parte per momenti migliori:
“Hai ragione e non ce l’ho nemmeno io con te. Forse... davvero, tirare fuori tutto, parlarne, è la cosa migliore. Grazie” lo aveva detti sinceramente, con quel fare semplice e diretto che gli apparteneva e che, negli anni, gli aveva creato tanti problemi.
Mathieu si era portato una mano sulla testa, massaggiandosela appena mentre aveva risposto: “Prego. Non… non devi ringraziarmi, Tim. Siamo assieme, no?”
Gli occhi sembravano più grandi quando glielo disse, quasi col timore di essere smentito, o peggio ancora che Tim lo lasciasse così, su due piedi.
“Quest’estate Ellie darà una festa. Siccome non ci è riuscita per i sedici e nemmeno ha mai avuto una macchina, ha pensato di approfittarne per i ventuno e portare alcolici. Ci possiamo andare assieme” aveva proposto l’altro, all’improvviso. Mathieu aveva fatto una faccia strana, di quelle apertamente confuse, poi era scoppiato a ridere, battendo le mani mentre saltellava sul posto; suo malgrado Tim rideva a sua volta, contagiato dal buonumore rinnovato dell’altro, capace di farlo sorridere anche nei momenti più impensabili.
“E facciamo festa, e facciamo festa, festa, festa sì!”
Aveva canticchiato Mathieu, mimando un balletto un po’ seducente, un po’ festoso, con immaginari ritmi haitiani insiti nel suo sangue creolo.
Poi, sempre ballando, aveva baciato Tim che, più leggero dopo aver urlato, o forse era la luce nel sorriso del suo ragazzo, si era lasciato sedurre sulle sponde placide del lago, anche se dentro di sé era acqua, lacrime e sudore.

Due mesi dopo, Tim aveva perso sua madre e, di riflesso, aveva smesso di nuotare: aveva creduto che forse le storie di Tonton Macouta non erano bugie, anche se inesatte. Lo zio Sacco di Juta l’aveva di sicuro punito per essere stato bugiardo, codardo e vigliacco, ma anziché rapirlo gli aveva portato via sua madre.
Sua sorella invece aveva lasciato definitivamente casa, quasi fosse stata anche lei stregata dall’uomo nero; però, aveva confessato a Tim che in sogno le era apparsa la loro mamma, chiedendole quando sarebbe arrivata l’estate di celebrare la vita e il mondo che aveva lasciato. Tim aveva pensato che forse Ellie avesse bisogno di una giustificazione per provare a essere felice e permettersi, egoisticamente, di avere ancora un compleanno.
Laissez les bons temps rouler. Sua mamma lo diceva sempre, ma non ci aveva creduto fino in fondo; forse, per questo almeno i suoi figli dovevano provarci.


“Tchoupitoulas” scandì lentamente Tim mentre guardava con attenzione le labbra di Abel, tenendo una mano sul suo cockatil che gocciolava fino al portabicchiere.
L’altro assottigliò gli occhi, come se ciò gli garantisse una maggiore concentrazione: “Cia… – poi si bloccò, rise e replicò – maddai, non è nemmeno una parola. È… è un insieme cacofonico di consonanti.”
“Certo che è una parola, esiste: Tchoupitoulas Street, sul Missisipi – specificò Tim, per poi far tintinnare con un certo sapore di vittoria il bicchiere contro quello del suo compagno – il vostro accento di New York è ridicolo.”
“Il vostro fa ridere, non il mio; bah, compreso il ciupitapa, o come si dice, e quella schifezza che mangiate... bubin, quella roba lì” liquidò Abel, che aveva bevuto poco e piano, ma mal sopportava non sapere qualcosa o non esprimerlo al meglio.
Ciupitapa? Cosa tiri fuori, che tipo sei – scosse la testa Tim, divertito da quella pronuncia per lui bizzarra di qualcosa di tanto scontato e domestico – il boudin comunque. Non lo mangio da una vita, secondo me ti piacerebbe: una volta o l’altra lo proviamo.”
Lo osservò e Abel fece un sorriso più morbido, affettuoso, dimenticando la competizione su accenti e geografia: “Volentieri. Se me lo prepari tu.”
“Auguri allora” commentò Tim, anche se abbassò lo sguardo con fare schivo e quell’imbarazzo leggero dietro il suo fare austero di difesa. Tornò a guardarlo, realizzando la fortuna di poter parlare di cibo con Abel, di promettergli di cucinare della carne con la speranza che lui l’avrebbe davvero mangiata, anche se non sarebbe mai stata buona come quella preparata da mamma nei suoi anni più felici.
A quel punto Abel gli mostrò la lingua, contemplando il modo in cui Timmy corrugava le sopracciglia e poi roteava gli occhi, in un ormai noto tentativo di mistificare il sorriso spontaneo. Poi spostò lo sguardo verso la terrazza dove la gente, esattamente come loro, beveva, ballava e chiacchierava; le luci percorrevano i porticati simili ad arredi a festa, assieme a rampicanti decorativi, mischiandosi all’illuminazione del resto del Cultural District, dove Edith Labelle aveva invitato loro e gli altri suoi ospiti a festeggiare dopo lo spettacolo teatrale. Poco oltre, l’Allegheny si preparava a incontrare l’Ohio ed era come se, con quelle luci e quelle chiacchiere, ognuno degli astanti si stesse preparando a dire addio a un fiume, contemplando le sue acque scorrere un’ultima volta.
Ma d’altronde così era Pittsburgh, la Città dei Ponti: un crocevia di acque e di cultura. Ad Abel faceva effetto trovarsi lì, con Tim che gli aveva stretto più forte la mano quando avevano passeggiato vicino alla riva, per riuscire ad arrivare al quartiere dopo aver lasciato le cose all’hotel; era come un presagio della propria promessa di vedere un giorno Tim tornare a nuotare.
Adesso erano lì, su una terrazza ricca di persone interessanti, alcune più estrose delle altre, parte di quel mondo queer che Abel tanto amava e conosceva ma che Tim, invece, ancora guardava un po’ a distanza, come se non lo capisse o fosse incerto di avere il permesso per farne parte fino in fondo. Lo vedeva, coi suoi occhi chiari, severi, di chi aveva contato le bollette e ogni singolo centesimo e tolto oggetti dalla lista della spesa, anziché metterli, ma allo stesso tempo erano occhi curiosi, assetati di quelle luci scintillanti narrate da qualcuno più esperto o sognatore di lui.
Abel allora gli si avvicinò di più, sussurrandogli in un orecchio: “Secondo me quel tipo con la giacca a quadri se la intende con l’altro.”
Tim lo guardò un istante, con una sorta di sorriso perplesso, poi seguì lo sguardo di Abel, che aveva puntato con un cenno l’oggetto del suo pettegolezzo frivolo: “Il tipo con le macchie dici?”
“Ghepardato, è ghepardato, piccolo Ciupitapa – lo prese in giro Abel, contemplando il volto dell’altro che, coi capelli sciolti, la maglietta dipinta da lui addosso e dei semplici pantaloncini, continuava a ignorare gli elementi base del vestiario consapevole – comunque sì, è lui.”
Ciupitapa” ripeté Tim, scuotendo la testa apertamente divertito, per poi sfiorarsi la cicatrice e aggiungere: “E invece di quei due che si tengono per mano, che pensi di loro?”
“Uno è l’amante di Ghepardato. Sì, si vede che è un tipo che ama tenersi impegnato” dedusse Abel con fare saccente e altrettanto divertito, circondando però il suo ragazzo con un braccio. Un movimento morbido, persino elegante e leggero. Annusò i suoi capelli: “Sai di shampoo dell’albergo.”
Tim lo lasciò fare, anche se temeva non si sarebbe mai abituato a quei gesti:
“Ed è una brutta cosa? Perché hai anche tu lo stesso odore” scherzò Westfield, per poi vedere Abel mordersi un labbro e sorridere.
Allora, in quella terrazza, in una festa con gente che non conosceva in cui Abel aveva insistito per portarlo ed essere lui a pagare, esattamente come l’aveva spronato per farlo viaggiare e mandare a fanculo il suo datore di lavoro che lo sfruttava e non lo pagava, sì, in quella terrazza ripensò a tutti i sorrisi delle persone che aveva amato e che gli avevano rivolto. Ed erano più di quanti pensasse. Sua madre, sua sorella, i bambini del quartiere quando lui era un ragazzino cantastorie, Mama Hazika, la vecchietta del 24/7 che lui ogni tanto aiutava sistemandole gli scatoloni della merce, oppure l’insegnante di inglese, l’unica che premiava la sua creatività. Mathieu. Che aveva lasciato dopo la festa di Ellie, coperto di sangue e lacrime.
“Laissez les bons temps rouler” mormorò, per poi vedere Edith Labelle alzare un calice e rispondere al brindisi di uno dei suoi amici. La trovò bellissima, coi suoi abiti in bianco e nero, i capelli pallidi, il trucco di un’attrice d’altri tempi. Con la sua simpatia travolgente aveva detto una battuta capace di far sorridere tutti, così, come se si trattasse di accendere e spegnere una lampadina. Essere interessante, divertente, coinvolgente era un dono, alla stregua di Abel che sapeva affascinare anche solo dal modo in cui muoveva le labbra, articolava il corpo, rivolgeva uno sguardo.
Portò un dito sulla mano di Abel, appoggiata sul tavolo, e ammise, per poi guardarlo negli occhi e calamitare il suo sguardo, nonostante il fiume che risucchiava vita e trasportava memorie, le luci e le risate: “Con mio padre non è andata bene, lo sai. Ma ora sono qui, in questo posto, e… sono convinto di aver fatto la cosa migliore anche se più pazza della mia vita.”
Si grattò di riflesso la cicatrice, come per accertarsi che fosse ancora lì e avere appunto conferma che, purtroppo, non se ne sarebbe mai andata.
Abel gli osservò il dito, il modo in cui lui gli toccava la mano. Si alzò poi in piedi, lasciando la sigaretta elettronica sul tavolo; quella sera aveva fumato poco. Si tolse le ciabatte, infine tese una mano verso il suo compagno e gli propose, con fare tranquillo:
“Dai, balliamo, amore.”
Tim rimase immobile, quasi l’altro stesse scherzando; poi si guardò attorno, sospirò, come se gli costasse una grande, immensa fatica, ma alla fine annuì e commentò tranquillo, avvicinandoglisi dopo avergli afferrato solo un dito:
“Ti ho fatto un discorso serissimo prima, ora ci tieni proprio a fare qualcosa di ridicolo. Non so ballare, Abel.”
Quell’ammissione fu un sussurro, quasi avesse qualcosa di cui colpevolizzarsi, o non fosse al passo coi tempi. Ma Mahogany si limitò ad annuire, a mettergli la mano sul fianco e a prendere quella dell’altro, intrecciando le dita.
La musica era ritmata, in una rievocazione di gusti musicali tra gli anni ‘70 e ‘80 che nessuno dei due aveva mai vissuto, ma che in qualche modo erano passati di generazione in generazione. Nonostante questo Abel ballò piano, scalzo, coi suoi capelli che stavano crescendo ma non sarebbero mai stati lunghi quanto quelli di Tim, l’accenno di barba non rasata, qualche ruga d’espressione assieme a quelle piccolissime d’età, mentre Tim nonostante fosse più giovane, per il sole delle sue terre, per la vita meno curata, attorno agli occhi e alla pelle arrossata aveva già delle prime rughe, che si vedevano di più quelle volte importanti in cui sorrideva, anche se la cicatrice sembrava mangiare tutto il resto.
Abel appoggiò con lentezza la fronte su quella del compagno e chiuse gli occhi. Sentì poi la sua mano appoggiarsi a sua volta sul fianco; in quell’occasione, Westfield una volta di più fu felice di non sentire le costole del suo ragazzo, la pelle sottile e tesa, al contrario di quando l’aveva visto le prime volte: un’ombra nervosa che fumava sigarette, in una soffitta inondata di luce tiepida, delle insegne di una città che era anche un mondo, con le sue idiosincrasie, le etnicità e le subculture. Tim allora non aveva avuto idea di cosa fosse l’anoressia, di come la fame, il cibo, il corpo potesse essere allo stesso tempo l’alleato più importante ma anche il nemico più formidabile con cui avere a che fare.
Quando si erano conosciuti sapeva di essere inadeguato, ferito e rattoppato malamente, forse lo era anche adesso, eppure nella sua ignoranza, persino nella sua semplicità, magari all’epoca era stato quello che serviva ad Abel; per questo, più entrambi crescevano, più temeva che avrebbero potuto allontanarsi, che presto le serate mondane per le esposizioni delle sculture, i giri nei locali LGBT, i circoli letterari avrebbero potuto assorbire Abel e sputare fuori Tim, che non era altro che un normale essere umano intento ad arrancare per sopravvivere con ciò che aveva, anche se poco.
Poi, però, in occasioni come quella Westfield sentiva di avere una connessione speciale con lui, basata non solo sulle sofferenze e le difficoltà, ma anche su una percezione diversa delle piccole cose, di sogni condivisi verso un futuro più luminoso.
Abbassò lo sguardo e cercò di seguire Abel nei suoi passi di danza, anche se questi si muoveva poco e sembrava più cullarlo. Lo guardò negli occhi, però, quando questi sussurrò, socchiudendo i propri:
“Mio papà non è mai stato di molte parole. Ma quando gli ho rivelato di essere gay, mi ha detto che l’aveva già capito, anche se era un dottore, con la sua scrittura orrenda, le sue lauree e la capacità di aprire i cuori, ma non certo di leggerli. Mi ha chiesto di te qualche mese fa, sai? È aggiornato sul fatto che adesso ho un ragazzo vero; stabile, capisci. Dopo Lyanna non ci credeva nemmeno più lui.”
Accennò a una risata, poi fece un profondo respiro. Odorava del mentolo della sigaretta elettronica, di un profumo vagamente floreale che Tim gli sentiva addosso quando usciva, ma anche del cocktail che aveva sorseggiato: bastava un istante per assorbire ciò che si prendeva, tanto o poco che fosse.
Tim non disse nulla. Era sempre un’esperienza totalizzante venire messi a parte delle fragilità di Abel, dietro la sua maschera di sicurezza, così come sentire rivelazioni d’affetto che davano un nuovo spessore al loro rapporto, anche se mischiate con il ricordo di Lyanna, di cui non gli aveva mai parlato.
Riconobbe poi una canzone di George Micheal, sentita tanti anni addietro in un’occasione non troppo felice. Pensò che anche lui, come altri artisti provocatori, capaci di lasciare un messaggio e un’eredità, era morto; ritenne assurdo che fino a pochi anni fa conosceva poco o niente di musica, se non per passaggi in radio, nelle scampagnate in bus o grazie a sua sorella che lo rendeva partecipe dei suoi interessi, quando si incrociavano a casa e loro padre non c’era. Si sentì felice, per quel momento e per tante sue scelte, al punto che scomparve il peso portato nel cuore per aver lasciato il lavoro, per i soldi che andavano, più che venivano, per la paura che non sarebbe mai riuscito a risalire.
Abel allora continuò: “Mia madre invece l’unica cosa che è riuscita a dirmi è stata non puoi essere gay e obeso. Saresti ridicolo. Visto che la prima situazione non cambierà mai, vedi di modificare la seconda. Lo ha detto così, come se fosse una pratica da sbrigare. So per certo, anche se non me lo ha mai specificato, che è persino felice che io sia gay, ma solo perché come artista è quasi una garanzia, uno status, capisci? 'Sta puttana.”
Sollevò a sua volta la testa e incrociò gli occhi con Tim, che non aveva mai smesso di guardarlo. I suoi occhi chiari, incastonati in un volto di chi era stato al sole e non sembrava progettato per farlo, avevano così tante sfumature di saggezza, dispiacere e una forma di orgoglio stanco, da far rimanere l’altro sempre affascinato.
“Sono uno stronzo a trattarla così, vero? Se ho tutte queste mostre ed esposizioni è perché mia madre mi promuove e sfrutta i suoi contatti. Da solo non avrei fatto nulla. Eppure, davvero, non riesco a...”
Si umettò il labbro e volse gli occhi verso il cielo. Per via delle luci non riusciva a vedere le stelle.
Tim pensò in quel momento di contestarlo com’era giusto che fosse, ribadirgli che sua mamma lo promuoveva perché era certa del talento del figlio e perché era una donna contorta, capace di fare ammenda e dimostrare il suo algido affetto elogiandolo di fronte a estranei, piuttosto che davanti ad Abel. Ma quella non era una serata per deduzioni emotive e, ormai lo conosceva, quando sembrava piangersi addosso Abel non amava essere contestato neanche dal suo ragazzo.
“Davvero eri un ragazzino obeso? Non ci credo nemmeno se mi fai vedere una foto” commentò infatti all’improvviso Tim, pacato, con un sopracciglio sollevato e un accenno di sorriso.
Abel non rispose subito, preso piacevolmente in contropiede. Gli sorrise a sua volta, poi spostò la mano dal suo fianco per portargli una ciocca di capelli dietro le orecchie e, dopo un istante, confermare:
“Oltre quindici chili in sovrappeso. Per mia madre ero già l’Anticristo in pratica.”
Scrollò le spalle, poi rise, per tranquillizzare Tim sul fatto che, soprattutto a distanza di anni, anche se ancora era infinitamente difficile fare pace col proprio corpo, almeno non c’erano più argomenti tabù sul peso, il cibo e sua madre.
Timmy allora fu meno in tensione e lasciò andare un sorriso, istintivo ma quasi tagliente, così maturo e saggio, di quelli capaci di far sparire la cicatrice e rendere più belli gli occhi; li deviò poi verso Edith Labelle, con i suoi vestiti dal taglio anni ‘50 e la parrucca gonfia, piena, che svettava ad adornare il volto splendidamente truccato, in quel modo esagerato eppure femminile tipico dell’essere drag queen. Infine ammise:
“Ero un po’ incerto, sul fatto che dovessi vedere Johnny o, questa sera, Edith. Temevo sarebbe stato difficile per te ritrovarlo, dopo quello che entrambi avete passato e l’esperienza in clinica. Mi chiedevo infatti come avrebbe combattuto lui che, più di chiunque altro, si trova sotto gli occhi della gente e mostra il proprio fisico in quanto parte di sé, del personaggio che si è costruito. Poi, guardando lo spettacolo ho capito, e ti ringrazio: usa l’ironia. Scherza sul proprio problema, lo prende in giro, come se fosse un amico di vecchia data.
A volte non sempre combattere e abbattere il problema è la soluzione: già, a volte bisogna prenderlo sotto braccio e portarlo con sé, plasmandolo, riadattandolo, come tu hai fatto con le statue, o Johnny con gli spettacoli.”
Avrebbe voluto che sua mamma avesse fatto lo stesso, avrebbe voluto essere più coraggioso, più saggio, più esperto… quanti più avrebbe voluto essere stato, per poter tornare indietro nel tempo e dirglielo, anche se la stessa vita di Tim era stata un continuo alternarsi tra una rumorosa lotta disperata d’arena e un leggero planare sull’acqua, in attesa di riprendere il volo o di andare più a fondo, ma sempre discreto e silenzioso.
Abel lo guardò, in quel caso eccezionalmente incapace di ribattere. Respirò appena attraverso le labbra impercettibilmente dischiuse, con gli occhi scuri che non battevano ciglio. Poi, se le morse e sorrise.
Abbracciò di più Tim, appoggiando la guancia sulla sua spalla dalla clavicola spigolosa, come un tempo era spigolosa la propria, e ritenne che non fosse poi così male avere qualche chilo in più di lui, anche se una voce di disprezzo e paura cercava di fargli credere il contrario; semplicemente, però, la voce di Tim, la sua presenza quieta, a tratti imbronciata, matura eppure tanto giovane, era più forte, più carica di luce, come il sole immenso delle sue terre.
Anche quella sera, in quel viaggio, il voodoo di Timmy aveva scacciato ogni male.


Grazie all’aiuto di alcuni amici e conoscenti, quella sera estiva al Pa Davis Park era stato possibile allestire tavoli e festoni in uno spazietto dedicato, tra il golf club comunale e le altre attività ricreative, complice la serata più tranquilla in cui la gente non lo frequentava.
Era una bella festa, con la musica di chi aveva portato la chitarra e di chi lo stereo, l’alcool, le ghirlande hawaiane e un po’ di cibo spazzatura che dava la carica e riempiva lo stomaco. Anche Tim stava riuscendo a godersela, sebbene un po’ in tensione, perché qualche giorno fa Mathieu aveva parlato con suo padre, tenendo fede alle intenzioni confessate su di un lago. Era andata benissimo, anche se c’era stato quel vago iniziale imbarazzo genitore-figlio così tipico di quell’età.
Carico di pensieri, Tim aveva bevuto qualche birra e ora sedeva sulla panchina con le gambe aperte, i gomiti appoggiati sulle cosce e lo sguardo rivolto verso Ellie che ballava. Mathieu era poco distante e ballava a sua volta, con il suo sorriso scintillante, i capelli un po’ più lunghi rispetto a quel giorno di marzo in una tenda; visto così, sembrava avere una maggiore consapevolezza dentro di sé, quasi avesse appena varcato una soglia per Tim ancora proibita.
Stasera lo dico a mio padre. Glielo sparo in faccia. Che sono ricchione.
Si tormentò le dita in cui teneva una bottiglia di birra, tamburellando un piede. Sentì una canzone di Lady Gaga, che Ellie amava, e pensò che poteva essere di buon auspicio. Poi partì George Micheal che allora lui nemmeno conosceva. Poche note dopo scorse qualcuno voltare la testa, all’improvviso; allora, anche Tim spostò lo sguardo.
La bottiglia gli cadde di mano, in un tonfo attutito dall’erba.
Il vetro si scheggiò e la birra, in una schiuma bianca, affondò tra i ciuffi verdi, espandendo nell’aria odore di luppolo e di spezie, mischiato a quello del prato tagliato da poco.
Gli mancò il respiro, quando vide suo padre – il vecchio, stanco, rancoroso Waltie Westfield – avanzare a passo di carica nel prato, fendendo la gente che si spostava un po’ irritata, i festoni, ignorando la musica e le chiacchiere. Con il cuore che batteva sempre più veloce Tim si alzò in piedi, lanciando un’occhiata prima a Ellie, che aveva sgranato gli occhi, poi a Mathieu che aprì e richiuse la bocca più volte.
Per un istante, soltanto per uno, Tim pensò che suo padre fosse lì per Ellie. Perché invidioso della festa, perché lo reputava ingiusto, quando lui non aveva avuto mai niente e sua moglie si era annegata in un fiume – Dio, teatrale ed eccessiva fino all’ultimo – lasciandolo con due figli ingrati.
Stupido. Era stato stupido a pensarlo: Waltie era lì per lui.
Senza parlare,
infatti, se lo era trovato davanti. Si erano guardati, come prima di un duello ma già destinato a decretare vinto e vincitore. Infine, Tim vide la sua luce negli occhi: una luce cattiva, pericolosa, un guizzo improvviso di rabbia, di odio e di paura profonda, come qualcosa di ineluttabile che non si poteva combattere.
Nonostante la realizzazione di quello sguardo, Tim non riuscì a evitarlo: suo padre lo colpì in pieno volto con un pugno, scaraventandolo sulla panchina per poi fargli
sbattere la schiena contro il tavolo. Qualcuno urlò. Ellie e Mathieu corsero incontro a entrambi, gridando spaventati e furenti, ma, prima che potessero fare qualcosa, con un ringhio feroce, terribile, l’uomo afferrò suo figlio per i capelli, i capelli che non gli faceva tagliare perché costavano soldi e lui non ce li aveva da spendere per un parassita, e gli urlò, a pochi centimetri dal volto:
“Come cazzo ti permetti? Come? Dopo tutto quello che ho fatto per te, che ho sacrificato! Vai – mosse una smorfia di disgusto, come un rigurgito di rabbia; Tim ricordò l’odore di alcool e di sudore, ma ricordò soprattutto la paura – vai, Cristo Santo, cazzo, a dare il culo agli uomini? È questo che sei? Un frocio? Un finocchio che scopa con… con quel negro?”
Indicò Mathieu sputando, con il volto congestionato dalla rabbia, i capelli non lavati di chi sciattamente si stava lasciando andare.
Tim non riuscì a parlare. Terrorizzato, cercò scoordinato di muovere le mani, ma suo padre gli sollevò di più la testa e con un urlo gliela schiantò contro il tavolo. Il ragazzo vide all’improvviso tutto nero, come se qualcuno gli avesse lanciato addosso della vernice scura, le orecchie fischiarono e fu certo, in quel fischio, di sentire il suo stesso dolore parlargli. Più e più volte, avvertì la testa spaccarsi contro il tavolo, udì uno schiocco secco che non seppe se fosse il legno o il cranio, fino a che qualcuno trascinò via il suo vecchio, che ancora lo insultava, come se ne valesse comunque la pena.
Tim
allora cercò di rimettersi in piedi, anche se barcollava, non aveva più l’equilibrio e il volto era ricoperto di sangue. Non sentiva più niente eppure al tempo stesso avvertiva male, né si accorse di avere uno squarcio sul lato destro della fronte. Cercò di toccarselo, senza vedere altro che bordi neri attorno a sé, e a malapena udì Ellie urlare e piangere, o Mathieu che gli aveva preso la testa tra le mani, sporcandosele, e cercava di dirgli qualcosa mentre il resto del gruppo allontanava Waltie Westfield che giurava, su tutto quello che era sacro, di disconoscerlo, di non avere più un figlio, che la sua donna si era uccisa perché un rottinculo era un peso troppo grande da portare.
Il ragazzo
non perse conoscenza, ma rimase catatonico per qualche ora.
Fu solo quando uscì dall’ospedale
, con dei punti e il volto gonfio, che Tim si bloccò in mezzo alla strada, per poi guardare Mathieu; ah, Mathieu, che non la smetteva di dispiacersi e di arrabbiarsi con quel patetico figlio di puttana razzista e omofobo. Anche se davanti aveva un altrettanto patetico ragazzino sporco, ormai senza genitori, squarciato e privo di soldi, dall’educazione scolastica precaria e privo di alcun reale talento, fascino o pregio.
Senza parlare, con gli occhi azzurri sgranati, Tim invece puntò all’improvviso il dito oltre il suo compagno; oltre i tetti bassi, oltre i negozi dall’intonaco che si staccava, le insegne vecchie e i marciapiedi dissestati. Oltre. Dove un tempo l’aveva puntato Mathieu: attraverso il lago, i fiumi, le distese paludose della Louisiana. Verso New York; poi, il resto del mondo.
“Là” annunciò Tim in un sussurro roco.
Per un istante Mathieu non capì. Aveva ancora le mani sporche di sangue e gli occhi liquidi di paura. Poi, realizzò di cosa Tim stesse parlando, e si sentì stupido, per avergli detto all’epoca quelle parole con tanta rabbiosa indignazione.
Sorrise.
E quando sorrise, Tim realizzò che Mathieu non lo avrebbe seguito in quel . Ciò che erano finiva in quella strada, il loro viaggio, ma i ricordi sarebbero stati per sempre, come cartoline mai spedite.
Tim sarebbe partito comunque. Con autostop, passaggi di fortuna, spendendo ciò che aveva messo da parte in pullman, bibite e merendine. Dormendo dove capitava, lavandosi ai bagni delle stazioni, utilizzando qualche ulteriore centesimo per telefonare a Ellie e scusarsi, mentre lei a sua volta gli chiedeva scusa e lo pregava di stare attento.
Mathieu gli aveva ancora scritto un paio di volte, dicendogli che gli mancava e si pentiva di non aver avuto la sua forza. Ce l’aveva con se stesso e con Waltie Westfield:
Tonton Macoute ti ha portato via da me. Un giorno riandremo sul lago, anche se magari staremo con persone diverse e saremo cambiati: torneremo a nuotare, senza paura, alla luce del sole.

Sproloqui di una zucca

Questa volta il prompt era coming out. Ho giocato molto sui parallelismi in questo capitolo, sperimentando su una struttura narrativa a più riprese, con collegamenti e il riferimento alla canzone di George Micheal collegata, Outside. Spero di aver trasmesso le atmosfere della Louisiana, con riferimenti alle tradizioni, alla cultura cajun, creola, al voodoo, ma anche al cibo e ai luoghi. Allo stesso modo in cui ho cercato di dare qualche atmosfera di Pittsburgh e degli U.S.A. in generale, per quanto non sia facile rendere per scritto le differenze d'accento. A questo proposito ci sono un sacco di video a tema simpaticissimi.

Grazie per aver letto, spero mi accompagnerete ancora in questo percorso.

   
 
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