虹
– Aspettando l’arcobaleno
Quando
la
tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu
come hai fatto ad
attraversarla e a uscirne vivo.
Anzi, non
sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
Ma su un punto
non c’è dubbio.
Ed è che tu,
uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi era entrato.
Era
notte fonda quando squillò il telefono. Quel rumore
fastidioso gli fece
spalancare gli occhi e battere il cuore come solo i peggiori incubi
riuscivano
a fare: odiava i rumori forti e improvvisi. Si stropicciò
gli occhi per qualche
istante, si rigirò nel letto inquieto, fino a quando non
decise di alzarsi e
andare a rispondere. Gli cadde casualmente lo sguardo
sull’orologio a forma di
gatto appeso sopra la porta della stanza e realizzò con
amarezza di avere
ancora solamente due ore di riposo.
«Pronto?»
disse con voce ancora impastata dal sonno, lasciando fuoriuscire un
po’
d’asperità. Dall’altra parte, solo
silenzio. L’udito che aveva imparato a
sviluppare grazie al suo lavoro poteva percepire un sottile brusio
provenire dall’altra
parte della cornetta, il ronzio tipico di un apparecchio elettronico.
«Pronto!»
ripeté con durezza. Nessuna voce sembrava sovrastare
quell’irritante vibrazione,
per cui decise di riagganciare il telefono e tornarsene a letto.
Una
nuova e faticosa giornata sarebbe iniziata prima che Ninomiya se ne
potesse
rendere conto.
˜
Durante
le prove del giorno successivo, si resero tutti rapidamente conto che
c’era
qualcosa che non andava in Ohno Satoshi. Si era assentato dal lavoro
chiedendo
delle ferie per malattia per una settimana, posticipando tutti gli
impegni della
band e mandando su tutte le furie il manager e gli organizzatori. Quel
giorno
si era finalmente presentato alle prove, ma era chiaro che non stava
affatto
bene. Era arrivato in ritardo e in camerino lo avevano accolto
calorosamente,
ricevendo in risposta solamente un grugnito.
Nino
era genuinamente preoccupato, ma non aveva avuto il tempo di
rivolgergli una parola
fino alla pausa per il pranzo. Appena raggiunse il camerino, lo vide
accovacciato
sul divanetto con le ginocchia al petto, prendendo posto accanto a lui.
«Satoshi»
lo interpellò con tono severo, «mi vuoi dire che
cosa c’è che non va?» si
addolcì, osservandolo attentamente in viso. Lo sguardo del
leader si era posato
su qualcosa di indefinito sul pavimento, disperso nel vuoto; le labbra
scarlatte erano semiaperte e Ohno sembrava assorto nei propri pensieri
come un
bambino che, appiccicato alla vetrina di un negozio, osserva il proprio
giocattolo preferito sapendo di non poterlo mai avere.
Nino
aprì il proprio bentō¹
senza fretta, mescolando
il riso bianco con la verdura accuratamente tagliata a lato del
contenitore.
«Kazunari»
si sentì chiamare con un suono simile a un sibilo, che
doveva essere appena
uscito dalla bocca del giovane uomo accanto a lui, nonché
l’unica persona
presente nella stanza in quel momento. «Ho deciso di
mollare» concluse il più
grande quasi sussurrando, con un tono che di deciso stavolta non aveva
assolutamente nulla. Nino lasciò che le bacchette gli
scivolassero dalle mani.
Si voltò incredulo, cercando un contatto visivo che
però rimase soltanto un
desiderio.
«Vuoi
mollare? Ho sentito bene?» chiese osservando il ragazzo con
occhi sbarrati. Un
fragoroso silenzio calò nella stanza come la musica col
volume più alto che
esista.
Un
violento mal di testa colpì improvvisamente il
più giovane, che si vide costretto
a posare il contenitore sul tavolino accanto al divano per prendersi la
testa
tra le mani: «Ma non puoi farlo!»
sbraitò subito dopo. Satoshi lo guardò negli
occhi. Non ne aveva avuto il coraggio fino ad allora, ma ormai la
verità era
stata svelata e tutt’a un tratto la paura di affrontare i
propri compagni era
svanita.
Sarebbe
stato sincero, avrebbe dato le giuste motivazioni, anche se in fondo
non sapeva
darne nemmeno a se stesso. Voleva solo essere felice, perché
non lo era più da troppo
tempo.
Ne
aveva il sacrosanto diritto anche lui.
¹
bentō: contenitore porta-pranzo con coperchio, molto utilizzato in
Giappone.