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Autore: Leotie    14/07/2019    1 recensioni
Un bambino vittima di abusi. Un uomo dal passato oscuro. Riuscirà l'amore a smacchiare le due anime da ogni ferita e colpa?
Genere: Drammatico, Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Lily Evans, Petunia Dursley, Severus Piton, Vernon Dursley | Coppie: Lily/Severus
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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//Miei gentili lettori, mi preme avvisarvi che questa storia è in revisione e aggiornamento. Spero che la lettura sia gradita!
A presto.


Un gesto. Sarebbe bastato un semplice gesto per mettere punto a quella squallida vita che non meritava di essere vissuta come tale. Ma il piccolo bambino rinchiuso nell’armadio sotto le scale, unico posto che aveva considerato “casa” da quando aveva memoria di sé stesso, non poteva saperlo.

Era considerato comunemente strano che un infante ricordasse eventi o dettagli che, invece, altri non avrebbero rammentato. Harry, però, lo faceva.

Alcuni incessanti colpi diruppero all’interno dello squallido armadio, provocando il tremolio delle ragnatele lì annidate e svegliando l’occupante di soprassalto, il quale, di solito, non si addormentava mai così profondamente, vista la perenne allerta che intirizziva ogni centimetro del magro corpicino.
Allungò una manina verso i suoi occhi e li strofinò, scacciando via la sonnolenza che reclamava nuovo possesso, mentre tra le sue palpebre si faceva strada la fioca luce direzionata dalle fessure dei bordi di legno della porta, consumatasi a causa del continuo e violento sbattere dell’anta contro lo stipite.

Fece scivolare via con qualche spazzata di braccio la logora copertina scolorita, cui sopra erano disegnati una manciata di personaggi Disney, che suo cugino, Dudley, aveva cominciato a detestare dopo una settimana dalla ricezione del regalo. Harry, invece, la adorava ed era davvero felice che sua zia l’avesse donata a lui. Se ne prendeva cura come se fosse un grande tesoro (ed effettivamente, lo era, visto che il piccolo non possedeva altro).

La sua “cameretta” era uno spazio angusto: a terra giaceva un piccolo materasso, con buchi qua e là. Era sporco, con diverse chiazze gialle di pipì. A volte, i suoi zii non lo lasciavano uscire per giorni, nemmeno per recarsi in bagno. Cercava di trattenersi, ma l’urgenza era talmente troppa da non farcela più e lasciar andare. L’odore era sgradevole, ma Harry si era così abituato da essere diventato insensibile. Dopotutto, era lì da quando aveva imparato a camminare. E quella era stata una delle imprese più ardue. Non fu di certo una felicità: quello che doveva essere l’orgoglio di ogni genitore, per Harry era stato solo una sofferenza. Imparò nel modo più duro. Ginocchia sbucciate e sanguinati, qualche dente scheggiato per l’improvvisa caduta. Tutto solo. Non c’erano braccia ad afferrarlo. Non c’era nessuno. E lui lo ricordava molto bene.

Petunia Dursley, all'apparenza, dava di una donna ben curata: non lasciava mai casa se non vestita con abiti firmati, capelli lucenti, morbidi e boccolosi, manicure impeccabile, sia di mani che di piedi. Nessuno si sarebbe mai aspettato che una Mistress amichevole, perfetta moglie e adorabile madre potesse essere tanto insensibile e così senza cuore da lasciar dormire un bambino di sei anni in uno striminzito sgabuzzino. Lei era testimone e, alle volte, carnefice delle violenze fisiche e verbali subite dal nipote, delle botte, degli insulti, delle manipolazioni mentali; eppure, all’esterno era conosciuta come una madre premurosa: suo figlio, Dudley, era considerato il signorino di casa. Possedeva ben due camere da letto e troppi giocattoli per un solo bambino, di cui una bella manciata ridotti in rottami e pochi altri miracolosamente finiti tra le manine di Harry. Ogni sua richiesta era ordine e ogni suo capriccio prontamente servito da madre e padre. Spesso definito l’”orgoglio di famiglia”, cozzava con l’immagine dipinta del suo cuginetto, chiamato, invece, “mostro”. Nonostante incombesse un severo divieto sul capo dell’orfano, cantante il non toccare la roba altrui, Petunia e Vernon costringevano il piccolo a svolgere le più pesanti faccende domestiche.
Vernon Dursley, invece, era un tipico padre di famiglia: dipinto da molti come un grande lavoratore, in realtà i suoi soldi non erano, poi, così puliti come tutti credevano, cosa di cui l’uomo, però, non era a conoscenza, tontolone com’era. Orgogliosamente fiero della sua bellissima moglie e del suo intelligentissimo figlio, non alzava mai un dito per aiutare Petunia in casa, poiché considerava le faccende domestiche una “roba da donne” (e “da mostro”, ovviamente). Rincasato da lavoro, non faceva altro che stravaccarsi sul divano e guardare stupidi programmi di televisione, lamentandosi, di tanto in tanto, di avere fame e chiedendo con voce grossa quando la cena sarebbe mai stata pronta. Insomma, in casa Dursley, ciò era un must.

L’anta di legno sobbalzò ancora una volta e, dall’esterno, si levò una voce conosciuta, prematuramente isterica, contratta tra un ringhio ributtante e un sussurro noioso.

«Potter, alzati in questo istante e vieni a preparare la colazione prima che Vernon si alzi.»

Era Zia Petunia.

Harry non aveva ancora voglia di affrontare la giornata a venire, ma, diligentemente, infilò le consunte scarpine ai piedi e aprì la porta, sbattendo più volte le palpebre per fuorviare il probabile accecamento da sole. Si fece strada, silenzioso, per qualche metro, fino in cucina: non era un suicida e, anche se non sapeva ancora bene cosa significasse quella parola, era sicuro che lo scalpiccio dei suoi piedi avrebbe fatto arrabbiare ancora di più zia Petunia.

“Tanto è sempre arrabbiata con me” pensò il bambino e sulla boccuccia comparve un piccolo broncio: cercava sempre di seguire le regole e si sforzava così tanto per compiacerla, ma a lei non sembrava importare davvero.

“Forse oggi, se sarò bravo, sarà orgogliosa di me!”. Non ne era, però, così sicuro. Si domandò, quindi, se, con l'inizio della scuola, avrebbero potuto finalmente cominciare ad amarlo.

I suoi pensieri furono presto interrotti a causa del dolore pungente che si diffuse a macchia d’olio su tutta la nuca: sua zia gli aveva appena tirato uno schiaffo. Avvertì le lacrime pizzicargli gli occhi. Cercò di trattenersi, ma una goccia si ribellò alla sua volontà e decise di abbandonare il nido. La spazzò via velocemente, prima che la donna potesse accorgersene.

“Io sono un mostro…”

Quelle parole gli ronzarono per la mente per diverso tempo. Strinse le labbra con tutta la forza che aveva e raggiunse il frigo, che aprì: preparare la colazione sarebbe stata la faccenda più semplice tra tutte quelle che avrebbe svolto nell’arco della giornata.

Ma come avrebbe raggiunto le uova, che erano collocate a metà altezza dell’anta superiore del frigorifero? Harry era basso per la sua età: ne aveva preso consapevolezza il giorno in cui Dudley aveva afferrato un Kinder Pinguì con molta più facilità rispetto a lui.

Il bambino guardò sua zia per chiederle il permesso per l’utilizzo di uno sgabello. Bastò un semplice cenno del capo per far sì che tutto procedesse per il verso giusto, secondo gli standard della famiglia Dursley: contò sulle piccole dita quante uova avrebbe dovuto prendere. “Sei, sì!”. Le raccolse a coppie, per evitare di farle cascare in terra. Non fu così fortunato, però, con l’ultimo set.

“Vorrei mangiarne uno…”. Peccato che lui non fosse considerato un membro della famiglia: Harry era nutrito a pane e acqua, svezzato ormai da un bel pezzo.

Un crack ovattato lo fece rinvenire dal mondo dei sogni: con uno sguardo di puro orrore, si volse indietro, per dare un’occhiata al disastro: un uovo, crudo, era spiaccicato sulle mattonelle preferite di Zia Petunia. Strappò goffamente due pezzi di carta da cucina dal rotolo che riposava sul piano e tamponò il foglio assorbente sull’albume e sul tuorlo, viscidi, cercando di rimediare al disastro. Sperava che sua zia non avesse sentito o visto nulla, ma le sue speranze furono messe a tacere dalla visione della faccia bordeaux della donna, su cui risaltavano le labbra assottigliate e gli occhi socchiusi per la furia.

Nessun urlo si fece eco all’interno della stanza altrimenti vuota; invece, risuonò il rumore di uno schiocco e, poi, di un tonfo: Harry era sul pavimento; il segno rosso di una mano si stagliava sulla sua guancia sinistra. Poi, la donna lo afferrò per un braccio e lo gettò letteralmente nello sgabuzzino.
Questa volta, il bambino non riuscì a non piangere. Portò le gambe al petto e le cinse con le sue magre braccia: cominciò a dondolarsi sul materasso sporco, intonando, con voce bassa e spezzata dai singhiozzi, la ninna nanna che la sua mamma soleva sempre canticchiargli prima di dormire.

Prima di dormire, per sempre.

«La tua mamma è… è una far-farfalla... vola in cie... lo e... gioca l-lassù...»
Si addormentò così, immaginando di essere cullato dalla donna dai capelli rossi. Gli sembrò, per qualche istante, di poterne percepire il profumo, ma, forse, fu solo una allucinazione.

Harry spalancò gli occhi: era sicuramente nel suo armadio, certo di ciò grazie alla rassicurante presenza della copertina sulle gambe. Tutto era buio, non filtrava nemmeno un raggio di luce dalle fessure dell’anta. Che fosse già notte? Aveva dormito tutto quel tempo e nessuno era corso a svegliarlo? Forse si era addormentato come la sua mamma… ma perché era tutto così buio? Il bambino cominciò a tremare dalla paura, mentre il cuore batteva accelerato, risuonando forte nelle orecchie del piccolo.

D’un tratto, il soffitto tremolò, sbalestrando ragnatele e polveri. Dai rumori sordi provenienti dall’alto, sembrava che qualcuno stesse saltando sulle scale, proprio in direzione dell’armadio. Probabilmente era solo Dudley, eppure Harry si coprì il corpo e la testolina con la coperta.

Ci fu un forte scroscio: qualcosa gli cadde addosso e si fece sempre più pesante. Il bambino si sentì mancar l’aria.

Il soffitto era ceduto.

Una manina tirò via il nascondiglio di tessuto e Harry sbirciò: fu colto da un sussulto quando notò due occhi rossi a qualche centimetro di distanza dal suo viso, accompagnati da una fragorosa risata.

«Harry Potter» sibilò una voce serpentina, inquietante. «…sto arrivando...»


E, poi, così com’era iniziato, tutto svanì.
Harry si risvegliò nel suo armadio, raspando: i suoi polmoni cercavano aria. Si tastò il busto: il soffitto non era crollato.

«Uh oh» sussurrò.

Si era fatto la pipì addosso. Non era la prima volta che ciò accadeva: l’uomo dagli occhi rossi aveva sempre regnato i suoi incubi. In quel momento, più che mai, desiderò ci fosse qualcuno ad abbracciarlo forte; ma nessuno corse a raccoglierlo.

«Ti prego, Dio, fa che zia Petunia domani mi vuole bene e non mi sgrida. Non volevo fare la pipì sul letto… Farò il bravo bambino, promesso»
Incrociò le dita e ci posò un bacio, a sigillo di quella promessa.


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