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Autore: Gaiaww    18/07/2019    0 recensioni
"Chi sono io? Ciò che vedo allo specchio, ciò che penso o ciò che dicono?"
La storia di un ragazzo sospeso tra due costrutti opposti e la propria realtà, diversa da entrambi. A cosa lo porterà la volontà di chi, forse inconsciamente, ha determinato dal principio cosa avrebbe dovuto essere?
Matthew Lloyd, futura stella del pattinaggio su ghiaccio, è un ragazzo di sedici anni da sempre addestrato all'amore per la sua disciplina... ma cosa prova davvero? Nessuno si è mai posto questa domanda. Nessuno, tranne forse una persona...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I signori Lloyd erano fieri di annunciare che la loro prima figlia sarebbe stata addestrata, sin da piccola, ad essere una delle migliori nel mondo del pattinaggio; avevano progettato tutto: Frank Lloyd, il padre della bambina che sarebbe nata di lì a poco, aveva deciso di acquistare una piccola villetta nei pressi della March Flowers Professional School, un istituto per ragazzi e ragazze di varie età che li avrebbe lanciati nel mondo del teatro, della danza, della musica e del pattinaggio artistico e su ghiaccio. La casetta si apriva su un vialetto di ghiaia bianca curato e pulito, costeggiato da una fila di mattoncini smaltati e circondato, come il resto della villetta, da un verde pratino all'inglese, curato da un anziano giardiniere che da trent'anni prestava i suoi servigi all'istituto d'arte. La signora Brenda, moglie del signor Lloyd e di allora solo ventisette anni, portava elegantemente una larga maglia rossa sopra il pancione liscio, dei jeans attillati e delle scarpe di cuoio con tacco a spillo. La bimba, che si sarebbe dovuta chiamare Lydia, sin da una tenera età avrebbe imparato a camminare con impeccabile eleganza e, subito dopo, a tenere l'equilibrio su un paio di pattini a rotelle; solo allora avrebbe potuto iniziare la sua carriera.

Brenda Lloyd era ormai al settimo mese di gravidanza e avrebbe dovuto tenere l'ultima ecografia di lì a pochi giorni; avevano preparato tutto: dai vestitini firmati alle borsette accessoriate, dai biberon ai bavaglini, la nuova cameretta munita di culla a dondolo infiocchettata di colori pastello, il fasciatoio di legno chiaro e una lista di oggetti e accessori in rosa dei quali la piccola Lydia avrebbe fatto uso.

Per i Lloyd, però, l'ultima ecografia non fu una bella sorpresa: con stupore dei genitori, medici e tutti i presenti in sala, la bambina che la Lloyd avrebbe dato alla luce dopo nove lunghissimi mesi d'attesa, non era altro che un tenero e adorabile maschietto.

~

E ancora un altro, noiosissimo giorno di scuola. E poi ancora pattinaggio. "E tieni la schiena dritta, e il braccio sostenuto, e attento alla testa, e ricordati di sorridere... Basta. Odio la mia solita routine. Perché non posso essere come tutti gli altri ragazzi? Perché non posso praticare Hip-hop o Break Dance come ogni ragazzo che si identifichi tale in questa scuola vorrebbe fare?

Matthew Lloyd odiava la sua vita. Era stato costretto, sin dall'età di tre anni, a praticare una disciplina da ragazze, in una classe di sole ragazze, obbligato a svolgere esercizi da ragazze. Per quanto avesse insistito, i genitori non avevano ammesso che era solo il risultato di un grosso sbaglio. Il ragazzo aveva sempre odiato le attenzioni che la famiglia gli rivolgeva, che sembravano indirizzate alla sua sola carriera da ballerino su ghiaccio. Avrebbe voluto scappare, lontano dalla sua vita. Avrebbe voluto non entrare in classe, quella mattina, restarsene lì fuori a fumare con i ragazzi più grandi, gli stessi che ogni giorno lo prendevano in giro con frecciatine e commenti. Non reagiva per un solo motivo: dava loro ragione. Trovava appropriati i loro commenti, sul suo indirizzo in quella dannata scuola, sul suo atteggiamento eccessivamente femminile. Era per questo che odiava suo padre e odiava se stesso. Era stata sua la brillante idea di desiderare una stella del pattinaggio tra la sua progenie. Matthew avrebbe tanto voluto una sorella alla quale lasciare tutta quella gloria, ma per sua sfortuna sua madre non riuscì ad avere altri figli, così fu lui a subirsi le attenzioni di due genitori decisamente troppo esaltati per riuscire a focalizzare il bene del ragazzo.

~

Matthew percorse a passo rapido il cortile ordinato della March Flowers, le braccia appese alle bretelle del suo zaino e le movenze decisamente troppo effemminate per un ragazzo. Guardava fisso la punta bianca delle sue scarpe da tennis, muovendo periodicamente la testa a sinistra per levarsi un ciuffo troppo lungo di capelli castani dal volto. Nemmeno quelli si decideva a tagliare, per non ricordare ai suoi genitori che tutti i loro sforzi non erano serviti.

I Lloyd pagavano una retta mensile per consentire al proprio unico figlio di frequentare i suoi corsi alla March Flower, e Matthew sapeva che avrebbe dovuto provare un minimo di riconoscenza per tutto ciò che gli davano. Ma purtroppo non si sentiva di ringraziarli per la sua vita, al contrario, sentiva di star facendo tutto quello per loro, perché potessero sentirsi realizzati nell'investire i propri risparmi nel loro sogno per lui.

Trovo che tutto questo sia ingiusto. Odio il pattinaggio. E mai una volta che abbia tenuto le compagne, mai. Sono sempre io ad essere sollevato. Ma andiamo, chi mai potrei reggere, con i miei miseri cinquantadue chili?

Matthew varcò il portone della scuola e si diresse al secondo piano senza salutare nessuno. Percorse il corridoio principale fino a metà, dove era collocato il suo armadietto; inserì la combinazione e lo aprì, lasciando al suo interno il deodorante nuovo e lo shampoo per il pomeriggio, per una doccia calda a fine lezione.

Chiuse l'armadietto e addrizzò il lucchetto, come era di sua abitudine fare, e voltandosi per entrare in classe intravide Logan, che salutò con un sorriso e una pacca sulla spalla. Il suo migliore amico gli scompigliò i capelli e restò ad osservarlo divertito quando il ragazzo si mise le mani tra le ciocche brune per sistemarsi, specchiandosi sullo schermo del suo smartphone spento.

«Buongiorno, Matt» lo salutarono gli altri ragazzi del gruppo di pattinaggio sul ghiaccio tra gli sbadigli e i bicchierini di caffè.

«Salve, ragazzi» ricambiò lui con un sorriso.

«Oggi non ho proprio voglia di entrare», si lamentò Logan come al suo solito «non vedo l'ora che arrivi il pranzo. Così saluto i libri e, soprattutto, mi abbandono al cibo». Matthew roteò gli occhi, come se conoscesse a memoria quel ragionamento.

«Sta' attento che ingrassi, ippopotamo. E poi chi la sente la signorina Wickleman?» La loro insegnante di pattinaggio era sempre stata piuttosto rigida riguardo al fisico di ogni suo allievo, sia ragazzo che ragazza, non poteva sopportare nemmeno un chilo di troppo, nei maschi così come nelle femmine, senza distinzione.

E non era l'unica regola su cui era inflessibile: le ragazze, ad esempio, dovevano presentarsi in palestra con lo chignon senza alcuna variazione, se non volevano beccarsi una sfuriata davanti a tutta la classe.

Anche Matthew era costretto a legarsi i capelli; le sue ciocche brune volteggiavano ad ogni suo movimento quel tanto che bastava ad impedirgli la totale visuale o comunque ad infastidirlo. Se avesse potuto, era certo che sarebbe venuto a scuola con le mollettine laterali a reggergli la frangia.

Logan salutò l’amico e si avviò verso la propria classe: la prima ora non la avevano insieme.

~

Il ragazzo dalla folta e liscia chioma bruna rientrò in casa, come ogni giorno, alle cinque e mezza del pomeriggio. Posò le chiavi sul tavolino nel corridoio e lo percorse fino alla fine, varcò la soglia del salotto, alla sua destra, e si accasciò sul divano con poca eleganza. Aveva lasciato lo zaino di tela viola sulla poltrona del padre, sopra al giornale lasciato arrotolato lì dalla mattina. Sua madre non era ancora rientrata dal lavoro. Lo trovò insolito, visto che normalmente lo precedeva di alcuni minuti.
Alzò le spalle e senza porgersi ulteriori domande salì al piano superiore, dove dormivano i tre famigliari.

La casa possedeva perfino uno studiolo, nel quale il padre si ritirava a pensare durante i periodi di crisi più intensa per via del lavoro, ma che spesso veniva usato dallo stesso Matthew per studiare o esternarsi dal mondo. Avrebbe potuto farlo anche nella propria camera, se non fosse stato che le pareti tendenti al giallo e al violetto, l'arredamento chiaro e la tappezzeria con motivi floreali gli ricordavano la stanza di una femmina. Probabilmente, se fosse stato un ragazzo normale, non gli avrebbe dato tanto fastidio quell'atmosfera delicata e quel tenue bagliore che la stanza emetteva, così pacato e tranquillizzante, ma nelle sue condizioni si ritrovava ad essere anche piuttosto suscettibile all’argomento “rosa”. In quel momento voleva solo avere qualcosa che lo facesse sentire un uomo, nonostante non si rispecchiasse affatto in quella definizione. Ogni volta che qualcuno lo chiamava “bel ragazzo”, “giovanotto”, o con altri termini spesso usati dalle amiche di sua madre, sentiva come se un meccanismo fosse appena scattato in lui, qualcosa che lo portava a rispondere rapidamente con un “La prego, mi chiami semplicemente Matthew”, ma quando poteva, cercava di limitare anche quello. A scuola pregava gli insegnanti affinché lo chiamassero per cognome tutti quanti, giustificandosi per mezzo dell’imbarazzo che diceva di provare in un colloquio troppo informale con un professore, ma questi ultimi, vedendo che la questione giovava anche al suo rendimento scolastico, lo lasciavano fare. Nessuno si era mai domandato il vero motivo dell’insicurezza del ragazzo.


 

La signora Lloyd rientrò in casa poco dopo, trovando Matthew nello studiolo intento a risolvere un esercizio di matematica. La trovava uno strazio. Con la sua disgrafia, i numeri che la penna tracciava sui grandi quadretti del suo quaderno uscivano sempre storti e deformi.

Sua madre si fermò sulla soglia, ad osservare il figlio mentre alzava lentamente il capo dal quaderno e la guardava con aria annoiata, gli occhi trasmettevano la sconfitta che il ragazzo sentiva, quasi oppresso da essa. Non appena quest’ultimo sollevò totalmente lo sguardo, Brenda lo salutò con un lieve bacio sulla fronte liscia e lo informò che, se avesse avuto bisogno di lei, l’avrebbe trovata di sotto in cucina, a stillare il menù per la cena del sabato seguente. Matthew si limitò ad annuire, tornando a concentrarsi sul copiato di quell’infinita espressione algebrica, che avrebbe saputo risolvere, se non fosse stato che riusciva a malapena a comprendere la sua pessima grafia.

Chiuse il quaderno e la matita in mezzo ai libri e li sistemò su una mensola che sovrastava la piccola scrivania bianca, prendendo poi il cellulare e scendendo in giardino. Aveva abbandonato lo studio, per quel giorno, lasciandolo con la promessa che avrebbe finito di ripassare quella stessa sera, sul tardi, giuramento che non venne mantenuto.

Matthew rimpiazzò lo studio con una breve chiacchierata di appena due ore al telefono con Logan, che non permise all’amico di parlare a causa delle continue frecciatine che gli lanciava, al fine di distrarre e tirare su il morale al bruno, sentendolo giù per via della situazione familiare complessa.

Logan era una persona di cui Matthew poteva senz’altro fidarsi; il ragazzo sapeva tutto, e malgrado gli scherzi con i quali continuamente tirava in ballo il più piccolo, non si sarebbe mai preso gioco di lui e lo trattava sempre con il massimo rispetto. Il ragazzo aveva solo quattro mesi più di Matthew, ma se messi al confronto, Logan poteva sembrare molto più grande. Non era tanto mentalmente quanto fisicamente che il maggiore appariva più imponente: sfiorava il metro e ottantacinque, e i capelli scuri accuratamente pettinati all’indietro gli facevano guadagnare quei poi centimetri necessari a fargli superare la maggior parte dei suoi compagni di scuola, di qualsiasi disciplina. I suoi occhi tendevano all’azzurro, sebbene avessero delle sfumature verdastre che li rendevano più movimentati.

Anche quel pomeriggio, il confronto tra i due aveva aiutato Matthew a sentirsi bene, come se non dovesse sentirsi costretto ad indossare maschere. Solo con Logan, però.

Matthew si lasciò andare sulla sedia di pelle dell’ufficio di suo padre, sbilanciando il capo all’indietro tanto da scostargli totalmente i capelli dalla forte. Quegli attimi di benessere erano andati, come acqua corrente, impossibili da recuperare. Gli sembrava che in quel momento la gravità fosse doppia rispetto al solito, perché sentiva le braccia così pesanti da non riuscire a tirarle su. In quel momento non percepiva nulla, se non il peso di quello che sapeva avrebbe fatto di lì a poco. Non lo voleva, non pienamente, ma sentiva che sarebbe stato giusto farlo.

Poi le lacrime. Una dopo l’altra, pesanti e abbondanti. Sembravano non voler cessare di uscire copiose dalle sue palpebre socchiuse, sembravano voler cancellare, con scarsi risultati, l’essenza del ragazzo. Loro non ce l’avrebbero fatta, ma Matthew sì. Voleva dimenticarsi di quella storia, voleva farla finita con l’imbarazzo che provava in quel divario tra la sua personalità e quello che gli altri volevano che diventasse, voleva, per una volta, che i suoi genitori si sentissero fieri di lui. Logan era uno solo, non sarebbe bastato ad ancorarlo a ciò che era, la maggioranza avrebbe sempre avuto la meglio. Voleva poter provare, almeno una volta, cosa volesse dire essere accettati da tutti gli altri e sentirsi bene in un corpo che, malgrado non gli appartenesse, sentiva suo. E così fece.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

   
 
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