Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: LazyBonesz_    21/07/2019    1 recensioni
“Questa canzone mi faceva pensare a te”, mormorò il ragazzo, contro un mio orecchio quando la musica cambiò. Mi concentrai sul testo. Ascoltammo la canzone in silenzio fin quando, verso la fine, Eren non parlò nuovamente, quasi cantando.
“But I just cannot manage to make it through the day without thinking of you, lately.”
Accennai un breve sorriso e mi sporsi verso di lui, senza aprire gli occhi. Riuscii a baciare le sue labbra piene e sentii il sapore delle lacrime su di esse.
“Eren”, sussurrai confuso. Sollevai le palpebre e vidi qualche goccia salata sulle sue guance. Però sorrideva.
“Sono felice, non preoccuparti. E penso che ti dedicherò un’altra canzone perché questa è fottutamente triste”, mormorò e decisi di bloccare la sua parlantina con un altro bacio. Un altro ancora e ancora un altro finché non ci addormentammo con le labbra stanche ma i cuori felici.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Los Angeles- 17 dicembre 2019 


Levi 


Tutto ciò che provavo era rabbia. Rabbia verso il destino, verso mia madre che mi aveva abbandonato, verso mio zio che me la ricordava, verso il dolore, verso i miei amici, verso Eren e verso me stesso che non provava altro che questo fottuto sentimento. 

Non riuscivo a pensare a qualcosa di positivo, non riuscivo nemmeno più a studiare e i miei voti si erano abbassati alla velocità della luce nonostante l’occhio di riguardo che avevano i professori verso di me. In particolare Erwin. 

Poi c’era il gruppo di teatro, dove mi ero sempre sentito bene, ma che ora non riuscivo a sopportare. I ragazzi mi parlavano come se stessi per cadere a pezzi e odiavo i loro sguardi preoccupati. Odiavo quando mi chiedevano come stavo e cercavano di darmi una mano. Marco e Petra avevano insistito particolarmente, portandomi ad evitarli per poter stare meglio. 

Tutta questa rabbia che imperava dentro di me si era placata per poco tempo, quando mi ero allontanato dalla casa che sapeva troppo di mia madre. 

Nel centro dove alloggiavo non stavo sicuramente meglio, anche lì tutti si preoccupavano per me ma il pensiero che fosse semplicemente il loro lavoro, e che, quindi, fosse per finta, mi consolava leggermente. Era meglio di stare a casa dove Kenny non faceva altro che provare pena per se stesso e per me. 

Infine c’era Eren con cui non sapevo mai come interagire. Era l’unico che mi trattava senza pesare ogni parola che pronunciava e aveva il coraggio di prendermi in giro. Allo stesso tempo il solo vederlo mi ricordava il periodo della nostra amicizia e la rabbia ritornava, sopratutto verso me stesso. L’unica cosa che potevo fare era evitarlo ma era diventato fottutamente difficile da quando mi ero aperto nella caffetteria. Quella volta mi sentivo troppo esausto e triste per potermi arrabbiare. 

Non sapevo cosa fare per poter stare meglio e non credevo che ci sarebbe stato un rimedio. Prima o poi tutta questa rabbia mi avrebbe consumato. 

Sfortunatamente, la psicologa che mi aveva seguito, mi aveva costretto ad andare a scuola e ora mi trovavo sull’autobus che mi ci avrebbe portato. 

Quando entrai nell’edificio che poco sopportavo, trovai Marco all’entrata. Dallo sguardo che mi rivolse capii che mi stesse aspettando. Sospirai e feci un passo verso di lui, non potendo ignorarlo. 

“Levi, volevo parlarti”, mi disse lentamente, con un tono accondiscendente che mi irritò nel giro di pochi secondi. Strinsi una mano a pugno, cercando di non rispondere male. 

“Non abbiamo niente da dirci.”

Sapevo che fosse una bugia anche perché c’erano così tante cose che avrei potuto rivelare ma il mio orgoglio mi impediva di farlo. Avrei tanto voluto passare quella giornata senza parlare ma si stava rivelando qualcosa di impossibile. 

“Invece si e lo sai. Io non posso capire tutto quello che stai passando però vorrei starti vicino. E anche gli altri lo vogliono. Ti prego, dicci qualcosa”, disse speranzoso. Avevo sentito quelle parole fin troppe volte e mi stavano facendo venire un forte mal di testa. 

“Sto bene”, tagliai corto e cercai di allontanarmi, sperando che la campanella suonasse il prima possibile. 

“Smettila di dire cazzate”, sbottò un’altra voce meno dolce e più alta. Mi voltai e incrociai lo sguardo di Jean, sollevando leggermente la testa. 

“Smettila perché vogliamo solo aiutarti. Tutti quanti e anche Petra”, continuò, facendomi alzare gli occhi al cielo. Mi rendevo conto di aver rotto con quella ragazza solo per colpa di questa rabbia cieca che prendeva possesso del mio corpo. Ma era stato meglio così, sia per me che per lei. 

“Interessante”, commentai con sarcasmo, trattenendo altre parole meno gentili, “ma non me ne frega un cazzo. Ho lezione, ci sentiamo.” 

“Sei davvero uno stronzo”, si lasciò sfuggire Jean ma poi si pentì a giudicare dalla sua espressione. 

“Sei patetico, non riesci neanche a insultarmi senza starci male”, sibilai e poi mi allontanai definitivamente e per tutto il giorno riuscii ad evitarli. Ne loro mi cercarono anche se li beccai guardarmi quando a pranzo presi posto in un tavolo diverso.
 

**********


“Ma tu hai sempre un palo su per il culo?”

Mi voltai verso la voce che mi aveva appena parlato e incontrai il viso sfacciato di un ragazzo poggiato al muro, vicino alla porta da cui ero appena uscito. 

Ero appena uscito da un incontro su come tenere a bada la rabbia, il mio più grande problema dalla morte di mia madre. 

Decisi di ignorare quel commento insolente e camminai lungo per il corridoio, diretto verso la mia camera. Sfortunatamente quel ragazzo decise di seguirmi. 

“Tu sei quello nuovo, hai un’aura terrificante”, commentò, camminando al mio fianco. Rimasi in silenzio e accelerai il passo, inutilmente dato che per lui fu facile adeguarsi grazie all’altezza. 

“Sei sicuramente il tipo arrabbiato con il mondo e che crede che la sua sia la vita più sfigata e brutta. E con questo giustifica il proprio comportamento”, continuò, facendomi irritare notevolmente. 

Mi voltai e con uno scatto gli afferrai il tessuto della maglietta, stringendo la presa. 

“Tu non sai nulla”, sbottai ma lui ridacchiò, mostrandosi ben poco sorpreso dal mio gesto. 

“Beh, neanche tu”, mi rispose a tono e mi costrinsi a lasciare andare la sua maglietta. Le sue parole bruciavano ancora dentro di me. La voglia di prenderlo a pugni prende possesso di me. 

“Iniziamo con qualcosa di facile, come ti chiami?”, chiese, riuscendo a farmi smettere di pensare all’irritazione che stavo provando. Era difficile calmarmi una volta che iniziavo ad arrabbiarmi. Non riuscivo più a pensare lucidamente e sentivo il bisogno di fare star male anche gli altri. Non era giusto che dovessi essere l’unico a sentirmi così. 

“Non ti interessa”, borbottai, stringendo una mano a pugno. Lui abbassò lo sguardo su di essa e si lasciò sfuggire un sorrisetto. 

“Volevo parlarti quindi si, mi interessa. Io sono Farlan”, si presentò, porgendomi una mano. La guardai dubbioso e rifiutai il contatto. 

“Levi”, risposi, sperando che mi lasciasse in pace ora. Feci un passo avanti e continuai a camminare. 

“Ho bisogno di stare da solo”, mi lamentai, sentendo la fastidiosa presenza di Farlan vicino. 

“No, hai bisogno di relazionarti con qualcuno. Chiuderti non fa che peggiorare le cose e io lo so.”

“Non mi interessa la storia della tua vita”, commentai, riuscendo a raggiungere la mia camera. 

“E a me non interessa la tua, ti stavo solo dando un consiglio.” 

La sua risposta mi calmò leggermente. Era qualcuno che non si stava preoccupando per me e che mi trattava senza riguardo. 

Mi appoggiai con la schiena alla porta e lo fissai, assottigliando leggermente lo sguardo, “e perché volevi parlarmi?”, chiesi. 

“Non so, mi ispiravi. E mi annoio a morte, qui. A me interessa parlarti e per farlo non ho bisogno di sapere il motivo per cui sei qua.”

Mi passai la lingua fra le labbra, soppesando le sue parole. Non era male parlare con qualcuno che non era cauto per paura che potessi spezzarmi. Mi ricordava Eren ma cercai di mandare via il pensiero che mi turbava ogni volta. 

“E va bene, neanche a me interessa il tuo trauma”, dissi, sollevando un sopracciglio mentre cercavo di capire la sua reazione. 

“Allora facciamo un patto, nessuna domanda sul perché siamo qui. Intesi?”

Mi porse la mano e stavolta la strinsi, trovando il gesto un po’ infantile. Sembrava una cosa da bambini ma, in realtà, era perfetto. Potevo fingere che fosse tutto normale e potevo essere semplicemente Levi e non il Levi a cui era morta la mamma. 

“Comunque sai di cosa hai bisogno? Di una sbronza. E si dia il caso che io so come uscire da qui e so anche dove andare”, mi propose con un sorrisetto beffardo, parlando a bassa voce come se dovessimo commettere un crimine.
 

**********


L’ultima volta che avevo bevuto non era andata molto bene ma era stata colpa di tutti quei commenti e occhiate su di me. C’era l’intera scuola a quella festa. Invece, ora ci trovavamo in un locale dove sicuramente non potevamo prendere nulla da bere se non fosse per il falso documento d’identità di Farlan. Molti americani minorenni ne possedevano uno. 

La musica pompava nelle mie orecchie e le luci soffuse del bar mi impedivano di vedere bene dove ci trovassimo. Inoltre c’era una gran calca e stavo iniziando a sudare. 

Farlan mi trascinò per un braccio, riuscendo a muoversi meglio di me grazie alla sua altezza, e mi portò al bar per iniziare a prendere qualcosa da consumare. Fu lui a scegliere e pagare, mostrando prima il documento falso. 

“È il tuo regalo di benvenuto”, disse contro un mio orecchio per sovrastare il rumore. Afferrai il bicchiere in vetro e bevvi un sorso di quel liquido rosso, sentendo il sapore dell’alcol bruciare nella mia gola. Non mi era mai piaciuto bere ma sembrava un buon modo per dimenticare la mia vita. 

Avevo portato con me un po’ di soldi e mi pagai il resto dei drink che consumai. Per non far passare troppo tempo tra l’uno e l’altro avevamo optato per shottini, birre e liquori che avevo sempre odiato per il sapore troppo forte. Al momento non mi interessava e continuavo a ingerire quelle bevande, sperperando stupidamente i miei risparmi. 

La testa mi girava e pulsava da un po’ e se mi muovevo troppo in fretta barcollavo o vedevo sfocato. Farlan mi guardava sorridendo ampiamente e mi prese un braccio, trascinandomi nella ressa di corpi che ballavano. 

A ogni passo sentivo un capogiro e il calore, la musica e l’alcool mi stavano permettendo di non pensare lucidamente. 

Il ragazzo biondo ballava scomposto, facendomi ridere per i suoi passi poco precisi e decisamente improvvisati. Una ragazza rimase colpita dal suo piccolo spettacolo e lo attirò a se, iniziando a baciarlo. 

Distolsi lo sguardo e mi concentrai, senza neanche volerlo, sulla musica che rimbombava con forza, annullando ogni mio pensiero. Chiusi gli occhi e mi mossi al suo assurdo ritmo, privo di parole.  Mi riscossi solo quando sentii l’improvviso bisogno del bagno. 

Mi feci spazio fra le persone, cercando di non far tremare le gambe a ogni passo che facevo. Trovai i bagni e fu piuttosto difficile chiudermi dentro con la vista annebbiata. 

Fu ancora più difficile pisciare nel giusto modo e alla fine rinunciai. Mi lavai il viso con acqua fredda per schiarirmi le idee e ci riuscii parzialmente, anche grazie alla musica che sentivo più distante. 

Quando uscii decisi di cercare Farlan, portando il mio sguardo ovunque mentre barcollavo per il locale. Iniziai a sentire un po’ di fastidio ed ero anche piuttosto sudato. 

Andai via dal locale e presi una boccata d’aria fresca, poggiandomi al muro vicino all’entrata. Ben presto iniziai a sentire freddo e cercai di scaldarmi, strofinando le mani sulle maniche della mia felpa. 

Non avevo idea di dove andare, non ricordavo nemmeno dove fosse la clinica e sicuramente non sarei riuscito a risalire le scale antincendio come avevamo fatto all’andata. 

I miei occhi erano sempre più pesanti e dovetti combattere all’impulso di raggomitolarmi per terra. Afferrai il mio telefono e chiamai Eren, senza pensarci troppo. Potevo rivolgermi solo a lui. 

“Che vuoi?”, una voce scocciata e assonnata rispose alla mia chiamata. Sentivo la bocca impastata e cercai qualcosa da dire. 

“N-non so dove andare, ehm, puoi venire?”, biascicai verso il mio telefono, sentendo la mia testa far male come se stessero battendo con un martello direttamente sul mio cranio. Mi rendeva difficile pensare, parlare e anche ascoltare la voce di Eren. 

“Che cazzo... Dove sei?”, mi rispose e ci impiegai un po’ a realizzarlo. 

Mi guardai attorno e trovai la via così gliela dissi, dovendo ripeterla un po’ di volte. 

“Stai fermo lì. Arrivo.” Chiuse la chiamata e io misi il telefono in tasca, decidendo di sedermi perché le gambe non mi reggevano più. Non chiusi gli occhi, avendo paura di addormentarmi, e rimasi ad aspettare, premendo le mani fra i miei capelli come se in questo modo potesse passarmi il mal di testa. 

Non so quanto tempo dopo sentii due mani afferrare le mie braccia. Sollevai il viso e vidi quello di Eren. Era un misto tra l’irritazione e la preoccupazione. 

“Tu devi essere impazzito. Ti riporto alla clinica”, disse scocciato e mi aiutò ad  alzarmi. Camminammo verso l’auto e sospirai per il calore presente all’interno. Poi realizzai cosa mi avesse detto. 

“No!”, esclamai a voce troppo alta e scossi la testa, avvertendo altri capogiri.

“Non posso andare lì.” 

Guardai Eren che mi sembrava esasperato, e sperai che mi ascoltasse. Lo fece. Guidò in silenzio verso il nostro quartiere e si fermò davanti a casa sua. 

Anche stavolta mi aiutò a camminare, avvolgendo un braccio attorno ai miei fianchi. Sentii stranamente un piccolo brivido per quel contatto. 

Mi intimò di stare in silenzio ed entrammo in casa, raggiungendo infine la sua camera in cui non entravo da anni. Però ero troppo malridotto per pensarci. 

Mi fece stendere sul letto e sentii la testa farmi ancora più male. Però ricordai anche il suo consiglio e mi misi seduto. 

“Ah, giusto, te lo avevo detto io”, borbottò grattandosi la nuca e dal suo sguardo capii che volesse sovrastarmi di domande. Però si trattenne. 

“Mi lavo il viso”, sussurrai stancamente. L’effetto dell’alcol stava lentamente svanendo. Non ero totalmente ubriaco ma ero anche oltre all’essere brillo. 

Raggiunsi il suo bagno e mi chiusi dentro, iniziando a lavarmi il viso con acqua fredda. Passai le dita bagnate fra i miei capelli scuri e mi sentii un po’ meglio. 

Tornai nella camera e provai a stendermi, sentendo un po’ meno capogiri. Mi tolsi le scarpe e mi rannicchiai sulle coperte calde, avvertendo l’odore familiare di Eren su di esse. Mi tranquillizzò e immaginai di avere nuovamente dodici anni. 

Il ragazzo non era nella sua stanza e ci ritornò tenendo fra le mani un bicchiere d’acqua fresca da cui bevvi prima di sistemarmi nella posizione di prima. 

“Perché mi hai chiamato?”, chiese stancamente, “dopo tutto quello che mi hai detto.” 

“Ero arrabbiato,” mormorai, non riuscendo a provare altro che non fosse rammarico. Questo era il lato negativo dell’alcol. 

“Non ti ho fatto niente.” 

“Con me stesso ed è meglio che tu mi stia lontano. Faccio una marea di danni”, sussurrai avvolgendo le mie gambe con le braccia. Eren mi guardava e non era più scocciato. 

I suoi grandi occhi verdi erano confusi e allo stesso tempo sofferenti. Ed era colpa mia. 

“Sei un idiota e dovrei odiarti, invece tengo fottuttamente tanto a te”, si lasciò sfuggire e per un attimo credetti che i suoi occhi fossero lucidi. 

“Non dovresti.” 

“Lo so che non dovrei, cazzo”, sbottò, passandosi furiosamente una mano fra i capelli. Rabbrividii. 

“Non riesco a controllare questa maledetta rabbia e litigheremo ancora e starai di nuovo male”, provai ancora una volta ad allontanarlo. 

“Lo so.” 

Aggrottai la fronte e lui riprese il discorso. 

“So come sei, Levi. E so anche come reagisci e non ho idea di come aiutarti, è questa la verità. So anche che odi quando la gente si preoccupa per te o ti tratta come se fossi di vetro. Però eravamo migliori amici, cazzo, non posso scordare l’affetto che provavo per te! So anche che starò di nuovo male e sai cosa? Non mi interessa perché le cose non possono essere perfette. Anche se non dovrei per niente starti vicino io lo voglio fare comunque. Non ti tratterò come se fossi fatto di fottuto cristallo e mi incazzerò quando mi insulterai, ma mi preoccuperò comunque per te.” 

Il suo discorso mi lasciò senza parole e non seppi cosa dire. Sentii un forte senso di colpa formarsi nel mio petto ed ero tentato di reagire con rabbia, magari gridare e andarmene via ma cercai di trattenermi. 

Le sue parole mi avevano fatto piacere, mi avevano fatto sentire un po’ meglio. E io non stavo un po’ meglio da giorni. 

“Okay”, dissi semplicemente e lo vidi sorridere. 

Ci stavamo dando una seconda possibilità.

 
   
 
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