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Autore: NPC_Stories    26/07/2019    3 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Della vita segreta di Johel come venditore porta-a-porta di pentole magiche


Aphedriel, Freya e la piccola Jaylah fecero una pausa verso mezzogiorno per mangiare qualcosa, e le due elfe ebbero il primo assaggio di cosa volesse dire prendersi cura di un bambino. Jaylah non era viziata e di solito mangiava un po’ tutto, ma aveva una vera passione per i dolci e per le due ragazze fu una vera sfida tenerla sotto controllo perché non saccheggiasse la cucina.
"Amore?" Biascicò Freya, dopo una mezz'ora estenuante in cui aveva cercato di nascondere ogni tipo di sostanza dolce che avessero in casa. Non aveva mai realizzato che fossero così tante. "Tu sei proprio sicura che sia magicamente possibile avere un bambino, io e te?"
"Non sono sicura per niente, ho solo detto che avrei fatto ricerche" precisò Aphedriel.
"Smetti di farle" ordinò l'elfa dei boschi, in tono categorico, tombale.
L'elfa della luna scoppiò a ridere. "Non avevo neanche incominciato, e non pensavo di farlo per molti anni ancora!"
"Pensi che vorrai dei figli un giorno?" Domandò ancora la stregona, in tono incerto. "Perché io sto cominciando a pensare che non li voglio. Magari è solo che non sono pronta, ma penso che sia una responsabilità troppo grande per me, non tanto diversa da diventare capoclan."
Aphedriel abbassò gli occhi, riflettendo seriamente su quella domanda mentre ripuliva il tavolo della cucina da tutto il disordine che avevano lasciato.
"Io so che i tuoi genitori ci terrebbero, e so che qualunque elfo dovrebbe essere felice alla nascita di un figlio. Penso che se un giorno tu volessi figli io potrei assecondarti. Però la cosa non partirà da me; sono anch'io figlia di un'elfa che sentiva il thiramin, e so molto bene cosa vuol dire non poter essere la persona più amata da tua madre. L'amore che si prova per i figli è diverso dall'amore di due amanti, ma mi rendevo conto di non essere io la persona per cui mia madre apriva gli occhi ogni mattina." La maga deglutí a vuoto e sollevò lo sguardo sulla sua compagna. "Spero che tu non mi giudichi immatura o sciocca per questo, ma io non voglio questo per i miei eventuali figli. Non voglio che sentano di non essere la mia priorità. Ho sempre promesso a me stessa che nel remoto caso in cui avessi avuto figli li avrei messi al primo posto, ma ora so che non potrei farlo."
"Capisco, ma questo non significa che non li ameresti…"
"No, non capisci" il tono di Aphedriel tranquillo, posato, quasi rassegnato. "Forse potrei essere una madre migliore di mia madre. Lei era maledetta da un amore non corrisposto e quindi viveva nella depressione, il fatto che io non fossi abbastanza per lei era lampante. Adesso invece io ho te, e se avessimo dei figli crescerebbero nell'amore di due persone che si amano e che li amano… quindi potrebbero perfino non accorgersi mai del fatto che amerò sempre te più di loro. Io però lo saprei. Mi sentirei come se avessi tradito… la mia integrità, le mie promesse. Mi sentirei come se avessi tradito me stessa."
"Oh, amore" Freya corse ad abbracciarla, allentando il controllo su Jaylah che ne approfittò per scappare verso una credenza. "Se per te l'idea di avere figli porta con sé tutti questi problemi, avresti dovuto dirmelo subito. Io dopotutto non ci ho mai pensato seriamente, davo per scontato che un giorno ne avremmo avuti perché è quello che tutti vogliono sempre, però per me la tua serenità viene prima di tutto… e sto seriamente cominciando a pensare che la maternità non faccia per me, dopo solo qualche ora ad occuparmi di Ja… dove diamine è finita?"
Il rumore di un’anta che si chiude attirò lo sguardo di entrambe verso un angolo della cucina.
“Jaylah, vieni fuori da lì!” Freya spalancò l’antina, rivelando una bimba elfica rannicchiata fra i pentoloni. “Non ci sono dolci qui dentro, furbetta!”
“Ci sono io, che sono un brownie” ridacchiò lei.
Rimase lì, con un sorrisetto scaltro, in attesa di una risata che non arrivò mai.
“Un brownie è un follettino, che vive nelle cucine” spiegò Jaylah con pazienza. “Ma è anche il nome di una torta.”
“Ah… quand’è così, ammetto che è una battuta carina. Sì, è un po’ più di quello che mi aspettavo da te, ma è carina” ammise Freya, senza sbilanciarsi.
“Una battuta da umani” borbottò Aphedriel, adombrandosi. “Questo è proprio il tipo di cose da cui ti mettevo in guardia, tesoro. Meno parla, meglio è.”
Freya dentro di sé sapeva che la maga aveva ragione, ma cominciava a pensare che far stare zitta Jaylah fosse un’impresa.
“Dai, vieni fuori, piccola brownie.”
“Solo se prometti di no’ mangiarmi” pretese la piccola.
“Lo prometto. Non ti mangerò, e nemmeno Ariel.” Promise Freya. “Vieni fuori e continuiamo a truccarci?”
Jaylah era tentata, si vedeva chiaramente, ma stava anche occhieggiando la maga con sguardo sospettoso.
“Io ho deciso di non mangiare più dolci perché sto ingrassando” mentì Aphedriel, ma in tono molto solenne. “Con me sei perfettamente al sicuro.”
“Va bene” la cuginetta uscì, facendosi spazio fra le pentole. “Però prima devo fare la cascatella.”
Freya e Aphedriel sbatterono le palpebre un paio di volte e si guardarono negli occhi, ma le loro identiche espressioni perplesse non fornivano alcun indizio. Poi, vedendo le movenze contenute di Jaylah, l’elfa dei boschi ci arrivò.
“Ah! Hai bisogno di usare il vaso magico?”
“Il vaso delle meravillie” scherzò Jaylah.
“La pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno!” Rilanciò Freya.
“Siete volgari come solo gli elfi dei boschi sanno essere volgari!” Le rimproverò Aphedriel, storcendo il naso.
“Dai vieni Jaylah, ti porto in bagno” propose Freya, indicando con la mano verso l’alto. Le case degli elfi si sviluppavano in verticale, erano costruite su piattaforme di legno sui diversi rami del proprio albero-casa. Jaylah era troppo piccola per sapersi arrampicare bene (e nella casa di sua madre non aveva mai avuto bisogno di imparare), quindi a Myth Dyraalis le serviva sempre l’aiuto di un adulto che la portasse sulle spalle.

Cinque minuti dopo, Jaylah guardò con interesse scientifico le sue deiezioni scomparire magicamente dal vaso da notte incantato. Le rune incise nel metallo avevano brillato per un attimo, e poi puff!, tutto sparito.
“Ma com’è che lo fa?” Domandò, notando che il vaso adesso era perfettamente pulito. “Anche quello dei nonni è così ma non ho mai capito com’è che lo fa. E ce l’ha anche la mia mamma!”
“Immagino, deve averglielo portato Johel. Tuo padre viaggia tanto, quindi a un certo punto ha avuto il compito di diffondere il più possibile questi vasi magici, specialmente nelle locande.” Spiegò Freya, mentre aiutava la bambina a lavarsi le mani.
“Ma dov’è che va a finire la pipì? E la cacca?” Chiese la bambina, curiosa. “O ss-parisce e puff?”
“Eeeh…” sospirò Freya. “Questo è un segreto conosciuto solo da pochi elfi e gnomi della foresta. Non lo so con certezza nemmeno io.”

Qualcun altro, in quel momento, quella certezza ce l’aveva. Le zaffate erano assolutamente inconfondibili, pestilenziali.
“Ma gli elfi non cacavano arcobaleni?” Si lamentò il drow, avvolgendosi una pezza davanti al naso e alla bocca.
Lo gnomo non rispose, perché per parlare avrebbe dovuto prendere fiato. Si limitò a scuotere la testa con un’espressione di sconforto.
Daren e Wilhik avevano deciso di cominciare a esplorare il sottosuolo dalla zona meglio protetta: le grotte e i passaggi che conducevano dalle Montagne del Cammino al dedalo di gallerie che si apriva sotto la foresta. Si trattava di una vasta area che copriva una fascia virtuale di territorio che correva sotto alle pendici delle montagne, dove cominciava la foresta, formando una lunga L rovesciata. In quella zona le difese erano state disposte in modo da costringere i drow a convogliarsi in pochi cunicoli, selezionati con cura e disseminati di incantesimi di allarme e di focus per la divinazione. Erano stati scelti anche per una particolarità: avrebbero costretto un esercito a dividersi, solo per poi riunirsi molto più avanti, rendendo gli invasori dei bersagli più scoperti.
A quell’epoca non era stato semplice pensare a come i difensori di Sarenestar avrebbero potuto convogliare i drow dove volevano loro. Gli elfi non conoscevano abbastanza le strategie drow, e in aggiunta non avevano familiarità con il sottosuolo; anche le mappe più accurate non rendevano l’idea. Daren aveva fatto tutto il possibile per rendersi d’aiuto. Era stato in grado di spiegare agli elfi quale fosse il più grande punto debole dei drow, che li accomunava tutti, indipendentemente dalla fede e dalla provenienza geografica: erano schizzinosi e odiavano essere sporchi o trasandati. Pensare a come utilizzare quell’informazione a loro vantaggio, però, non era stato semplice. Era un piano che aveva richiesto grande creatività e capacità di pensare fuori dagli schemi.
L’elfo scuro non ricordava di preciso chi se ne fosse venuto fuori con quell’idea, ma sicuramente era stato uno gnomo. Un piano malvagio come “Ehi, perché non riempiamo le gallerie di merda?” poteva solo essere il parto di una mente gnomica.
Sempre gli gnomi si erano messi al lavoro per realizzare quel piano: i migliori metallurghi e fabbri avevano cominciato a produrre in serie i vasi di metallo, perché il metallo era il materiale che reagiva meglio alla magia. Gli elfi dei boschi non sono quasi mai esperti di magia arcana, quindi il compito di mettere a punto quelle difese creative era ricaduto tutto sulle spalle degli gnomi. Questo non era stato un male; aveva rafforzato i legami di amicizia e fratellanza fra le due razze, e in certa misura aveva anche richiesto che Sarenestar commerciasse con il Tethyr, sempre per mezzo degli gnomi (gli elfi non commerciavano direttamente con gli umani, non in quell’epoca oscura, in cui gli umani del Tethyr perseguitavano gli elfi uccidendoli per divertimento).
“Qui bi sebbra tutto in oddine” affermò Wilhik, con voce nasale perché due dita tenevano le sue narici ben serrate. “Gli iccattesibi non sono tati banobessi.”
“Eh? Ah… gli incantesimi non sono stati manomessi” bofonchiò il drow da dietro lo strato di tessuto. “Bene, passiamo a un’altra zona.”
Il loro lavoro era appena cominciato, avevano ancora molte miglia di cunicoli da controllare, e quel lavoro andava ripetuto anche in strati più profondi perché sotto la foresta si estendevano gallerie per un’altezza di circa un miglio, e in alcuni punti le caverne si inabissavano verso gli strati inferiori del Buio Profondo. Era un lavoro sporco, ma qualcuno doveva farlo. Per fortuna non avrebbero dovuto controllare tutto il sottosuolo di Sarenestar, solo le possibili vie d’accesso dalle città drow.
Ci avrebbero messo almeno mezzo mese, comunque, per fare un lavoro fatto bene.

Lord Fisdril, Tazandil, Johel e gli ospiti di Shilmista passarono il pomeriggio a ipotizzare schemi di attacco e di difesa, vagliando possibili candidati per la missione a Shilmista e decidendo quali ranger esperti sarebbero dovuti rimanere a Sarenestar per aiutare Johel nel suo nuovo compito. Ad un certo punto i capipattuglia di stanza a Myth Dyraalis e nei dintorni della città vennero chiamati a partecipare all’incontro, e tutto quel parlare e pianificare si protrasse fino a sera. Il giorno dopo avrebbero ripreso il discorso, era previsto che arrivasse anche lord Ailmar, il capoclan degli elfi Teasen'aear che abitavano la zona meridionale della foresta. Quella sera però avrebbero cercato di mettere da parte momentaneamente le preoccupazioni e i tristi ricordi. Quando i guerrieri uscirono dalla Sala del Consiglio, si accorsero che qualcuno si era dato da fare per organizzare un banchetto di benvenuto per i loro ospiti.
Gli elfi selvaggi rimasero molto sorpresi e colpiti, perché non erano molto avvezzi agli eventi sociali su larga scala; l’unico momento in cui si riunivano erano le celebrazioni religiose o spirituali, come il Daoine Teague Feer, la danza rituale per ricevere la benedizione delle stelle. Questa però non sembrava una celebrazione religiosa, gli elfi dei boschi di Myth Dyraalis avevano organizzato una festa mondana solo per mostrare che erano felici di riallacciare i rapporti. Per gli schivi elfi selvaggi era un’esperienza nuova e strana.
Anche i pochi elfi dei boschi di Shilmista furono presi in contropiede, perché si erano sempre adeguati alle abitudini e ai costumi degli elfi selvaggi. Si trattava però di una piacevole sorpresa, che li fece sentire più vicini a questi altri elfi dei boschi, loro simili.
La piazza principale era stata addobbata di luci festose come se fosse Mezzestate. Qualcuno aveva portato fin lì tutti i tavoli e le sedie della Casa degli Scapoli, e anche quelli di alcuni elfi che avevano deciso di mettere a disposizione le loro cose per l’occasione. Molte persone avevano contribuito per cucinare. Johel vide lady Aphedriel che accendeva con la magia alcune luci, mentre Freya dava direttive ad alcuni giovani elfi su come sistemare le portate sul tavolo più grande. Poi passò a parlottare con il suo vecchio amico Illianar, il migliore bardo di Myth Dyraalis, che annuì con sguardo innamorato e si mise a suonare una famosa ballata elfica pizzicando le corde della sua lira. Un altro bardo lo seguì con il flauto.
In quel momento un gruppetto di bambini passò correndo davanti a loro, e un piccoletto di otto o nove anni si fermò per invitare al gioco anche i due bambini di Shilmista. Loro non risposero, si limitarono a fissare il coetaneo con occhi vuoti. Questo rafforzò la teoria di Johel, che quei bambini fossero stati traumatizzati dalla guerra. Chissà se avevano perso qualcuno di caro? Un genitore, un fratello? Non lo sapeva, ma dal loro sguardo poteva immaginarlo.
Un’altra bambina, che sembrava in tutto e per tutto un’elfa selvaggia, si lanciò verso le gambe di Johel e ci si attaccò con un abbraccio entusiasta.
“Papà!” Esclamò Jaylah, al colmo della gioia. “No’ ti ho viss-to pe’ tutto il giorno!”
Il ranger si chinò per essere allo stesso livello della figlia e la guardò stranito per qualche momento. Era lei, eppure non era lei. Aveva qualcosa di diverso. Era difficile a dirsi nella penombra, ma forse i suoi capelli erano un po’ più scuri, più simili ai suoi? E quell’acconciatura elegante e i vestiti elfici, da dove spuntavano fuori? Di solito Jaylah indossava gli abiti che le aveva dato sua madre, comodi e semplici e di foggia umana.
“Ti piace, papà?” domandò lei con un gran sorriso, beandosi di tutte quelle attenzioni. “Freya e Ariel mi hanno vess-tita come una principessa! Freya mi ha dato i suoi vess-titi di quando era grande come me!”
L’intelligente elfo dei boschi comprese al volo quello che Freya e Aphedriel avevano fatto per sua figlia: l’avevano resa più elfica possibile. L’acconciatura, i vestiti, ed era sicuro che avessero cambiato leggermente anche i suoi colori… se c’era un momento per presentare formalmente Jaylah, era quello. La prima impressione era fondamentale.
Sempre a proposito di prime impressioni, Johel osservò i vestiti di Jaylah mentre la prendeva in braccio: erano abiti eleganti, ma non cerimoniali. Non quelli che avrebbe potuto indossare la figlia di un capoclan. Grazie al cielo, pensò fra sé e sé, sarebbe stato molto inappropriato. Sembra che mia cugina conosca bene i fronzoli della politica, anche se finge che non le interessi.
“Jaylah, saluta come si deve i nostri ospiti. Vengono da fuori, hanno fatto molta strada per venire a trovarci.” Le sussurrò, girandosi in modo che lei potesse guardare in faccia gli elfi di Shilmista.
Trovandosi davanti tutti quegli estranei che la guardavano, la bambina rimase spiazzata per un momento e alzò una manina, salutando timidamente.
“Sia lieto il noss-tro incontro, perché i noss-tri cuori sono leggeri e… e le noss-tre spade sono ingua… inguaianate... abbiamo la pace nelle noss-tre mani e… la sua luce ci guida” recitò la piccola con grande fatica, poi arrossì e nascose il volto nell’incavo della spalla di Johel.
Il ranger le passò una mano sulla schiena per confortarla, perché la piccola sembrava in imbarazzo, ma era esterrefatto che sua figlia avesse memorizzato una frase così lunga in elfico. Doveva avergliela insegnata Freya, perché lui non si era mai curato di far imparare a Jaylah le frasi rituali del suo popolo.
“Molto brava” disse una delle anziane elfe selvagge, più che altro per gentilezza. Jaylah alzò lo sguardo su di lei e le rivolse un gran sorriso. L’espressione di fredda cortesia dell’elfa si ammorbidì un po’, e Johel capì che quelle persone non erano rigide per loro natura, erano solo provate dalle difficoltà e dal dolore.
“Io sono Jaylah” si presentò allora, con rinnovato coraggio. “Voi due volete venire a giocare?” Quell’invito naturalmente era rivolto ai bambini degli elfi selvaggi.
Questi scossero la testa, aggrappandosi alle gambe degli adulti che conoscevano. Jaylah si dimenò per farsi mettere giù, e Johel la poggiò a terra. Tirò fuori dalla scarsella un paio di biscotti e li offrì a quei bambini, con un gran sorriso. Loro, cautamente, accettarono il dono.
“Io e i miei amici andiamo a giocare. C’è un albero grosso grosso, che è un…” si fermò, perché non conosceva i nomi degli alberi “uno con il tronco nero. Lì c’è una fontanella. Dicono che di notte ci vanno le fate, ma io no’ le ho mai viss-te. Noi andiamo lì, pe’ cercare di vedere le fate. Se volete venire, tutti sanno dov’è l’albero nero grosso grosso” spiegò, cercando di essere più precisa possibile. Johel si accorse che arrancava ancora sulla pronuncia elfica, ma sperò che la cosa passasse in sordina grazie alla sua giovane età.
La piccola salutò con la manina e corse via, buttandosi in mezzo alla fiumana di elfi indaffarati e sgusciando con maestria fra le loro gambe.

Gli elfi di Shilmista si unirono volentieri al banchetto in loro onore, perché dopo la sorpresa iniziale non poterono fare a meno di apprezzare la buona volontà dietro a quel gesto gentile. Non gli era stato riservato un tavolo speciale, perché l’idea era che fossero liberi di sedersi dove volevano e mescolarsi con gli elfi di Myth Dyraalis, se questo era il loro desiderio.
Non lo fecero. Gli elfi selvaggi si sedettero tutti vicini, e anche gli elfi dei boschi di Shilmista rimasero con loro, forse si sentivano troppo al centro dell’attenzione e tutta quella baraonda li stava mettendo a disagio. Jaylah sedette fra suo padre e suo nonno, ma per tutta la sera si mosse fra il loro tavolo e quello degli ospiti, portando altri biscotti e leccornie ai bambini.
“Quess-to è il mio preferitissimo!” Affermò, porgendo ai bambini due identici panini dolci ricoperti di semi. “È il pane pe’ la colazione delli gnomi, ma è buono buono!”
Ogni volta i ragazzini accettarono i suoi doni in silenzio, ma poco a poco cominciarono a rispondere ai suoi sorrisi.
Quando tornò al tavolo della sua famiglia per l’ennesima volta, Tazandil la guardò storto.
“Hai le mani sporche di terra” notò.
“Sono caduta” spiegò Jaylah, senza scomporsi. “Sono ciampata nel mio vess-tito che è bellissimo ma è lungo e ci ciampo sempre!”
“Vai a lavarti le mani prima di sederti a tavola” la freddò il vecchio elfo. “E smetti di correre in giro come un’invasata.”
Jaylah era una bambina dolce, attenta alle parole degli altri, per quanto potesse esserlo un’elfa di quattro anni. Però le lamentele di Tazandil non le sopportava proprio.
“Sono un’elfa selvaggia” rispose, con aria altezzosa. “Posso correre in giro e cadere e mangiare colle mani.”
“No, non puoi!” Il vecchio elfo la fulminò con lo sguardo. Quello sguardo aveva messo in soggezione molti giovani ranger, e anche il suo stesso figlio, ma la testarda nipote rispose mettendo il broncio.
“Quello che il nonno vuole dire” intervenne Johel, più conciliante, “è che elfo selvaggio non significa elfo che si comporta come un barbaro. Gli elfi selvaggi sono un popolo fiero che ha uno stretto legame con le foreste, ma sanno come comportarsi. Forse vedi qualcuno dei nostri ospiti tutto sporco di terra?”
Jaylah si voltò brevemente verso il tavolo degli elfi forestieri, come per controllare.
“No” ammise.
“Tu in questo momento sei una mezza elfa selvaggia, lo so che per te è un gioco, ma loro ci credono davvero e devono continuare a crederlo. Se tu ti comporti in modo rozzo e se non ti lavi le mani, per loro sarà un insulto. Lo capisci, tesoro?” Johel afferrò l’otre d’acqua che portava sempre con sé e tolse il tappo. “Tendi le mani, ci penso io.”
Jaylah non aveva capito proprio tutto, ma era felice che suo padre avesse cercato di spiegarle la situazione anziché sgridarla e basta. Anche sua madre faceva sempre così, e Jaylah era abituata ad essere trattata come un essere senziente e razionale, non come un soldatino che deve obbedire e basta. Si tirò su le maniche e porse le mani a suo padre, che le lavò brevemente con l’acqua. Una volta pulita, Johel la sollevò e la fece sedere di nuovo a tavola con loro.
“Nonno, io però vollio andare ancora a trovare quei bambini” annunciò, indicando con un cenno del capo gli elfi selvaggi. “Ci posso andare ancora, se no’ corro e no’ ciampo?”
Tazandil finalmente abbandonò la sua espressione corrucciata, perché era sorpreso e anche un po’ soddisfatto che quella scimmietta incontenibile gli stesse chiedendo il permesso per fare qualcosa. Non lo sfiorò nemmeno il pensiero che Jaylah potesse aver agito così proprio per fare pace con lui. Non la credeva capace di una simile sottigliezza.
“Certo che puoi” borbottò, cercando di mantenere un’aria severa ma senza riuscirci troppo. “Tu hai un grande cuore e sei molto gentile ad occuparti di loro. Stai solo attenta a mantenere un comportamento dignitoso.”
“Sì nonno.” Promise la piccola, poi si voltò a sussurrare a suo padre: “che cosa vuol dire dinnitoso?

Verso la fine della serata, Johel riuscì a trovare un momento per parlare con Freya e Aphedriel. Le trovò che stavano chiacchierando con i bardi che avevano allietato la cena, due giovanotti e la loro maestra. Avevano portato loro da bere per ringraziarli per l’impegno.
Johel per un momento si sentì vecchio e fuori posto, ma poi quell’istante passò e si fece avanti con un sorriso.
“Mie carissime e operose cugine, posso dirvi due parole?” Domandò, facendosi avanti con Jaylah che gli saltellava accanto. Vedendo i bardi con gli strumenti musicali, la bambina andò subito a chiacchierare con loro, sommergendoli di complimenti e domande curiose.
Freya e Aphedriel si congedarono dal gruppo e seguirono Johel qualche passo più in là, in modo che la loro conversazione restasse privata.
“Non so come ringraziarvi per aver reso mia figlia presentabile. Sarebbe stato un guaio se a qualcuno fosse venuto il sospetto che lei fosse… quello che è.”
La giovane figlia del capoclan era così orgogliosa di quel complimento che sembrava brillare di luce propria, e Aphedriel le strinse discretamente una mano per comunicarle la sua vicinanza. L’elfa della luna era davvero felice che quel piccolo stratagemma avesse rivalutato Freya agli occhi della sua famiglia.
Jaylah scelse proprio quel momento per tornare da suo padre, con un’espressione un po’ mesta.
“No’ mi volliono press-tare i loro ss-trumenti” mugugnò. “Propio come mio ratello Luel.”
“I bardi sono fatti così, tesoro” Johel si strinse nelle spalle. “Ormai dovresti averci fatto l’abitudine.”
“Hm” Jaylah andò a nascondersi dietro ad Aphedriel, che aveva una gonna lunga e fluttuante. “E se da grande vollio fare il bardo? Potrò avere uno ss-trumento?”
Aphedriel le mise una mano sulla testa, come per calmarla, ma approfittò di quel contatto per rinnovare l’incantesimo che manteneva la sua pelle un pochino più chiara del normale.
“Se da grande vorrai fare il bardo, ho paura che tuo zio non ti vorrà più parlare” sospirò Johel, ignaro del sotterfugio in atto. Freya si lasciò sfuggire una risata e Aphedriel sollevò un sopracciglio. Non pensava che un seguace di Eilistraee potesse avere qualcosa contro la musica.
“Ah, allora no” decise la bimba, uscendo di nuovo allo scoperto. “Allora farò la dudula, è deciso. Così il nonno non può più ss-gridammi se metto le mani pe’ terra. E se mi ss-grida, divento un lupo e lo mangio!”
La risatina di Freya si trasformò in un sussulto incontrollabile. La giovane elfa si mise perfino una mano sulla bocca per non diventare sguaiata.
“Oh, cielo” Johel sospirò, prevedendo guai. “Jaylah, tu hai un grande cuore, come tua madre, ma hai anche la sua stessa elasticità nell’accettare le critiche.”
La piccola elfa lo guardò senza capire e forse stava per fare una domanda, ma qualcun altro si inserì con entusiasmo nella loro conversazione.
“Johlariel!” Chiamò una voce allegra. Era Azadeth, il chierico degli elfi dei boschi di Shilmista. Johel accolse il suo arrivo con un gran sorriso, e i due elfi si abbracciarono come vecchi amici.
Cinquant’anni prima, il villaggio di Azadeth era stato attaccato dai drow e metà degli abitanti erano stati uccisi, fra cui la madre del giovane elfo. In quei giorni Daren stava viaggiando sulle pendici delle montagne Fiocco di Neve, appena fuori dai confini di Shilmista, e gli elfi l’avevano catturato e giustiziato pensando che fosse coinvolto nell’attacco. L’intera vicenda era ancora un ricordo doloroso, sia per gli elfi che per il drow, ed era quello il vero motivo per cui lord Fisdril aveva voluto allontanarlo: anche se in seguito era stato resuscitato, Daren aveva attraversato un brutto momento dopo il disastro di Shilmista, e ancora dopo cinquant’anni sentiva fitte di senso di colpa solo a sentir nominare quella foresta.
Azadeth era l’unico elfo di Shilmista a sapere com’erano andate davvero le cose, e a riconoscere Daren come sincero Amico degli Elfi. Nel breve periodo che Johel aveva passato a Shilmista, Azadeth era diventato un amico per lui, più che un alleato.
“Chissà perché, ma non mi sorprende trovarti circondato da bellissime ragazze!” Scherzò il sacerdote, rivolgendo un inchino galante a Freya, Aphedriel e Jaylah.
“Freya è la più bella di tutte!” Intervenne la bimba, credendo di essere d’aiuto. “Ma Ariel ha l’uccellino cicciotto”, aggiunse, come se fosse un elemento che faceva pendere l’ago della bilancia in suo favore.
Johel si intrufolò fra le due giovani e mise un braccio sulle spalle a ciascuna. “Sì, splendide ragazze, ma sono le mie cugine, quindi sai… sono fuori dai giochi.”
A quella notizia, il giovanotto emise un mugolio di dispiacere, strappando alle due elfe un sorrisetto sornione.
“E… c’è qualcun altro che dovrei salutare? Il tuo amico forse? Hai più dato seguito al tuo proposito di farlo… tornare?”
“Daren è tornato” confermò Johel, con un sorriso. “Ma non è qui. Per lui è molto penoso ricordare gli eventi di quel periodo, e lord Fisdril ha organizzato perché andasse in pattuglia. Non sa nemmeno che siete nostri ospiti.”
“E non sa nemmeno della guerra, immagino.”
“Se lo sapesse, sarebbe già lì a cercare di infiltrarsi fra i nemici cercando di non farsi scoprire da voialtri…”
Azadeth sospirò, alzando gli occhi verso le stelle, ma poi riuscì a sorridere tiepidamente. “Non posso negare che sarebbe un grande aiuto, ma non è giusto chiederglielo. Partecipare ai conflitti di Shilmista sarebbe un peso per il suo animo e ha già fatto abbastanza cinquant’anni fa. Come hai detto oggi alla riunione… meglio chiedere l’aiuto dei nostri cugini elfi.”
“Voi due avrete sicuramente molte cose di cui parlare” Freya scivolò via da sotto il braccio di Johel “quindi forse è il caso che vi lasciamo, adesso.”
“Certo” Johel sollevò anche l’altro braccio, lasciando libera Aphedriel. “Andate a divertirvi, finché è possibile.”
“Vieni Jaylah, chiediamo a quei suonatori se possono dedicarci una ballata” la invitò Freya, sapendo che la piccola cugina non poteva resistere al suo fascino.
Azadeth e Johel rimasero da soli, e per un momento il chierico non riuscì a distogliere gli occhi dalle due elfe girate di spalle. Johel lo toccò con un gomito, per farlo tornare in sé.
“Oh, sì” disse il chierico dal nulla, come se si fosse ricordato una cosa importante, “sai che Tintagel è diventato una specie di eroe di guerra? Ormai è senza dubbio il nostro mago migliore. Nell’ultima battaglia è quasi morto, perché vuole stare sempre in mezzo all’azione! Se non ci fosse stato quel sacerdote umano a curarlo…”
Passarono il resto della serata a parlare della guerra, degli eroi che si erano distinti per la loro baldanza e le loro strategie, e delle persone che Johel aveva conosciuto cinquant’anni prima. Nonostante tutto, i due vecchi amici riuscirono a mantenere alto il morale.

           

   
 
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