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Autore: NPC_Stories    06/08/2019    4 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Guerra e pac… e treg… e un po’ meno guerra


“Nonno, cos’è la guerra?” Chiese Jaylah il giorno dopo la festa, mentre aiutava, a modo suo, a rimettere a posto la radura.
“Non starmi fra i piedi, ho delle cose da fare” fu la replica sbrigativa del vecchio elfo.
“No!” la bambina lasciò cadere a terra le decorazioni che stava trasportando e trotterellò dietro al ranger. “Me lo devi dire!”
“Devo andare a controllare l’arsenale, non puoi seguirmi. Ci sono spade e coltelli ed è pericoloso.”
“Anche la mia mamma ha un coltello” osservò lei, con l’aria di voler fare conversazione. “Non è pericoloso, bass-ta che non lo tocco.”
“E io ti dico che non puoi seguirmi, quindi non darti disturbo.” Affermò l’elfo, lapidario, e per sottolineare il concetto si arrampicò sul primo albero che gli capitò davanti, per proseguire il percorso camminando sulle passerelle sospese e sui ponti che collegavano gli alberi.
La bambina lo vide sparire in pochi secondi, e rimase lì con le pive nel sacco.
“Vecchio bargiabanni!” Gli gridò dietro, in uno scoppio d’ira. Alzò perfino un pugno verso il cielo. “Vai a fare la cacca su un riccio!”
Per fortuna aveva urlato in lingua chondathan, il dialetto umano delle zone in cui era cresciuta, e nessun elfo poteva capire le sue parole.
“Jaylah, cosa succede? Non volevi aiutarmi a mettere in ordine?” Amaryll si affiancò alla piccola, anche lei con le braccia piene di decorazioni che stava riportando al loro posto.
“Sì è vero, Amyl” bofonchiò la bambina, guardando per terra e passando automaticamente alla lingua elfica. “Ma poi ho viss-to il nonno e gli dovevo chiedere cosa è la guerra.”
“La guerra? Perché, tesoro?”
“Perché…” la piccola si guardò intorno, con aria circospetta. “Ho sentito tanti che dicevano, ieri sera, che c’è la guerra in un altro boss-co. Ma papà non mi ha detto cos’è quess-ta parola. Ho anche sentito che tanti ci volliono andare. Allora magari è una cosa bella e ci vollio andare anche io.”
“No” la parola le uscì fin troppo brusca, ma la locandiera era davvero presa in contropiede da questa uscita della bambina. “La guerra non è una cosa bella.”
“Ah” l’entusiasmo di Jaylah si sgonfiò subito. “Pensavo che forse era la neve. Non so la parola di voi elfi per dire neve, ma a me piace tanto. Si può fare a palle di neve ed è tutta morbida e bianca.”
Amyl non conosceva il dialetto chondathan, ma era abbastanza simile alla lingua comune degli umani, e riuscì a estrapolare dal contesto ciò di cui la piccola stava parlando.
“La parola che cerchi è sige. La guerra è un’altra cosa. In guerra non ci si diverte, le persone combattono, uccidono e a volte muoiono. È una cosa molto pericolosa e brutta.”
I bambini elfi dell’età di Jaylah di solito avevano già familiarità con il concetto della morte, almeno in teoria. Amyl non si aspettava che la piccola mezzadrow fino a quel momento avesse vissuto una vita protetta.
La nanerottola spalancò gli occhi, guardando l’elfa adulta con orrore.
“E il mio papà deve fare quess-ta cosa guerra?”
“No, lui no!” Esclamò subito Amaryll, rendendosi conto del suo errore.
“E la zia Mary? Lo zio Daren? La nonna?”
L’elfa dai capelli rossi scosse la testa.
“Il… nonno?” Chiese alla fine Jaylah, in tono strano, incerto.
“Lui sì. Sicuramente.” Confermò la locandiera.
Jaylah esitò, mostrandosi pensierosa.
“No’ mi piace il nonno” ammise cautamente, “però mamma dice che è l’unico nonno che ho. E mamma dice pure che la famiglia è… non so come si dice… sacra” disse in chondathan.
“Sour” l’aiutò Amyl. Il significato non era identico, ma era il termine che ci si avvicinava di più.
Jaylah sospirò come faceva sempre lo zio, dandosi un tono da adulta, mentre incamerava tutte quelle nuove informazioni. Non aveva capito bene quella storia della guerra, ma non le piaceva.

Due giorni dopo Tazandil e alcune decine di ranger di Sarenestar si stavano preparando a lasciare Myth Dyraalis e la sicurezza delle loro case, diretti a nord. Verso Shilmista, verso la guerra.
Mezza città si era radunata alla Porta delle Spade per salutarli e augurare loro buona fortuna e un sicuro ritorno a casa. Anche la famiglia di Johel non faceva eccezione, anzi, era in prima linea. Lord Fisdril si rammaricava di non poter andare a sua volta, ma naturalmente non era compito di un capoclan abbandonare il territorio e andare in guerra, nemmeno per aiutare degli alleati.
Tazandil salutò Johel con grande solennità, ribadendo la sua decisione di lasciare temporaneamente il comando a lui. Poi salutò sua moglie, con più familiarità e affetto, perché quello era consentito. Quando fu il turno di salutare Jaylah, la bambina decise che se ne fregava delle convenzioni sociali e impugnò a due mani un vecchio orsacchiotto di tela, porgendolo verso l’anziano ranger come se fosse un tesoro.
“Nonno, prendi il mio orsetto Lacis. Ti aiuterà quando ci sarà la guerra e quando avrai paura!”
Tazandil rimase interdetto per un istante, mentre intorno a lui calava il silenzio. Quel pupazzo era grande quanto il pugno di un elfo e sembrava sopravvissuto a più eoni di quanto sarebbe lecito per un giocattolo, era pieno di rammendi e pezze e gli mancava un occhio. Metà dei presenti guardò la marmocchia con tenera indulgenza, l’altra metà cominciò a ridacchiare per quell’offerta assurda. Un guerriero tutto d’un pezzo come Tazandil non aveva mai paura. O se l’aveva, non la mostrava. Di certo non aveva bisogno di un simile conforto.
“Non mi serve. Sono un guerriero esperto, nipote.”
Jaylah non desistette.
“Ma devi prennerlo. Lo ha fatto la mia mamma e porta fortuna. Era di Kore prima. E poi di tutti gli altri i miei rate…”
“Grazie, piccola” la interruppe Tazandil, togliendole il pupazzo dalle mani prima che potesse citare i suoi fratelli. Non era il caso che gli elfi di Shilmista, pronti a partire con loro, si facessero troppe domande. “Lo accetto come un pegno d’affetto, ma non ne ho bisogno. Te lo riporterò sano e salvo.”
Qualcuno continuò a sogghignare, questa volta per il disagio del vecchio elfo. Stava tollerando da sua nipote dei comportamenti che non avrebbe mai accettato da suo figlio, e questo era evidente a tutti, tranne che alla nipote in questione. Il ranger, dal canto suo, era troppo in imbarazzo per potersi commuovere per quel gesto, e non desiderava altro che partire il prima possibile. Molto meglio la guerra che questo. Per il momento infilò sbrigativamente l’orsetto nello zaino. Durante il viaggio, però, approfittando delle ridotte dimensioni del pupazzo, lo legò con attenzione alla cintura, appena dietro al fodero della spada. Non era superstizioso, ma passato il disagio iniziale aveva scoperto, suo malgrado, che il gesto di sua nipote gli ricordava l’importanza di avere qualcuno per cui combattere.

Azadeth e i guerrieri che avevano scortato i profughi erano partiti insieme ai ranger, naturalmente; volevano tornare a fare il loro dovere per la loro amata patria. Soltanto i bambini e gli anziani di Shilmista rimasero nella foresta meridionale, al sicuro.
Erano stati invitati a rimanere a Myth Dyraalis, la capitale segreta, protetta da un antico mythal che con la sua magia impediva alla città di essere trovata da chi non era un elfo. Loro però non erano abituati a vivere in mezzo a così tante persone. Un migliaio di gnomi e quasi altrettanti elfi rendevano quel luogo una vera metropoli, per gli standard degli elfi selvaggi, una metropoli cosmopolita. Non erano a loro agio con quel tipo di vita, quindi accettarono l’invito a stabilirsi in un piccolo villaggio nel sud. Avrebbero voluto restare a nord, più vicini a Shilmista, per ricevere notizie più fresche dalla loro patria, ma lord Fisdril e lord Ailmar sapevano che il sud era più sicuro: era meno esposto al pericolo di un’incursione drow (non che se l’aspettassero, ma nel caso), meno vicino ai territori umani e alle montagne che ogni inverno sembravano vomitare mostri.

Con gli elfi di Shilmista lontani dagli occhi, la vita a Myth Dyraalis stava tornando velocemente alla normalità, anche se era strano non avere più quasi nessun ranger in giro per la città. Come previsto da Tazandil, alcune decine di elfi dei villaggi a nord-ovest si trasferirono temporaneamente nella capitale, rimettendo in uso alcune vecchie case elfiche che nel tempo erano andate abbandonate. La popolazione di Myth Dyraalis era sempre stata abbastanza fluttuante, alcune famiglie si erano estinte e altre nuove famiglie si erano formate, e un nuovo nucleo famigliare tendeva a volersi creare la propria casa, come stavano facendo anche Freya e Aphedriel in quei mesi. La conseguenza era che alcune delle case più antiche erano rimaste vuote e abbandonate, e gli elfi vi facevano poca manutenzione, in attesa che il legno marcisse e quelle antiche abitazioni venissero inglobate di nuovo dalla foresta.
Gli elfi dell’ex-clan Gysseghymn presero possesso delle case abbandonate che sembravano più in buono stato e ripararono quel che c’era da riparare, convinti che comunque si sarebbe trattato di una soluzione temporanea.
Johel sperava tanto che avessero ragione. Il compito di ranger capo gli era caduto in testa senza preavviso, e l’elfo si stava rendendo conto che c’era una bella differenza fra essere un buon ranger ed essere un buon capo. Non era spaventato dalle responsabilità, suo zio Fisdril aveva iniziato a utilizzarlo come diplomatico fin da quando era giovanissimo, ma il suo ruolo gli aveva insegnato a pacificare gli animi e a far collaborare persone recalcitranti, non a fomentare e trascinare truppe che ancora non lo rispettavano. Johel aveva quel tipo di fascino da ragazzo della porta accanto, ottimo per avere tanti amici, pessimo per vestire i panni del leader.
Dovrò guadagnarmi il rispetto sul campo, decise, dopo una lunga e attenta riflessione. E so benissimo che non sarà facile. Mio padre ha guidato i ranger del clan Arnavel per centocinquant’anni, dalla morte di sua madre. E anche lei… dopo una vita di servizio militare e dopo aver aiutato zio Fisdril a prendere le redini del clan, è morta combattendo un drago rosso a quasi settecento anni, un’età a cui le elfe normali stanno a casa a dedicarsi al giardinaggio da almeno due secoli. È una famiglia di cui è difficile essere all’altezza.
Aveva promesso a Jaylah di passare le successive due settimane con lei, in città, ma sapeva che non avrebbe potuto mantenere la parola data. Avere il comando gli imponeva dei sacrifici.


Alcuni giorni dopo

Amyl si stava annoiando. Dopo le attività frenetiche di qualche giorno prima, per organizzare il banchetto di benvenuto per gli elfi di Shilmista, la ragazza non aveva più avuto molto da fare. La maggior parte dei ranger della città aveva lasciato la foresta, quindi la locanda aveva perso quasi tutti i suoi clienti elfi. Restavano gli gnomi, che per fortuna continuavano a frequentare il pub in gran numero, ma alla giovane elfa socievole mancavano le chiacchierate con i suoi simili. Lady Freya era di umore altalenante in quei giorni e lady Aphedriel faticava a tenere il passo, Pilindiel era partita e Kalifein aveva messo il broncio perché non le era stato consentito di partire a sua volta. I loro incontri erano stati sospesi per qualche tempo e in città c’era un’aria strana, tesa, perché nessuno voleva ammetterlo ma tutti erano preoccupati per i loro parenti e amici che erano andati a combattere a Shilmista.
A Myth Dyraalis correva voce che sempre più elfi stessero arrivando da nord-ovest, dai territori dell’ex-clan Gysseghymn. Amyl si rigirò in testa quel pensiero, mentre puliva per la terza volta il bancone di una sala vuota. Quella voce aveva iniziato a circolare quando i primi elfi erano arrivati, con famiglie al seguito. La rossa si aspettava che portassero nuova linfa vitale nella locanda, ma così non era stato.
Forse sono abituati a vivere in piccoli villaggi nascosti, dove non c’è tempo né spazio per simili attività comunitarie. Di questo passo, non verranno mai alla Casa degli Scapoli. Anzi, di sicuro si stanno raccogliendo intorno alle loro famiglie, perché già si son dovuti trasferire in una casa che non è la loro… figuriamoci se hanno voglia di separarsi e gozzovigliare.
Amaryll non era sicura di quel pensiero, ma le stava nascendo in mente un’idea. Daren l’aveva lodata diverse volte per la sua capacità di mettere le persone a loro agio. Diamine, era riuscita a stabilire un rapporto con quel drow musone e aveva perfino fatto amicizia con la schiva lady Aphedriel… forse lei era la persona giusta per aiutare quegli elfi ad ambientarsi. Erano cugini, dopotutto, appartenevano a Sarenestar quanto lei. Non avrebbero dovuto sentirsi fuori posto a Myth Dyraalis, una città pensata per essere un porto sicuro per gli elfi.
Sì, decise con nuova risolutezza, chiederò un permesso per uscire prima e andrò a parlare con quelle famiglie. Qualcuno deve farlo, ed è meglio che starmene qui con le mani in mano.


Un paio di settimane dopo, territori settentrionali di Sarenestar

“Ripetimi un po’ dov’è andato Tazandil…”
Johel si irrigidì, perché non voleva rispondere a quella domanda. Non sinceramente, almeno.
“Da qualche parte nella Wealdath” borbottò, nascondendo il suo nervosismo dietro una facciata di fastidio.
“Che strano” ribatté Daren, sedendosi sul ramo dove si erano arrampicati per fare la guardia. “Di solito sei tu che vai in missione diplomatica.”
“Non è una vera missione diplomatica. C’è da discutere di alleanze militari e cose del genere.” Inventò, ma sempre restando nell’ambito della menzogna che lui e i suoi parenti avevano progettato di vendergli. “E forse la città di Suldanessellar è minacciata, anche se non sappiamo bene da cosa.”
“Un’altra premonizione di qualche veggente?” Domandò il drow, con un sorriso sghembo. Johel per un attimo sentì un brivido gelido lungo la schiena. Daren aveva capito che gli avevano mentito sulla premonizione di Hinistel? No, forse la sua era solo una battuta… se avesse capito che gli avevano mentito, Johel sarebbe già stato ucciso nel sonno.
Non si manda un drow a camminare fra la merda impunemente. Non senza un buon motivo.
“Non lo so, ma il pericolo era abbastanza reale da mobilitare metà dei ranger di Sarenestar.” Gli fece notare il biondo.
“E quindi ora sei tu al comando” sospirò Daren, lasciando oscillare le gambe in segno di frustrazione. “Com’è fastidioso. Torno da una missione disgustosa, e per inciso, abbiamo rinnovato le misure di sicurezza… e trovo te al comando dei ranger. Non c’è limite al peggio!”
“Ti domando scusa” scherzò il ranger, con una punta di sarcasmo. “La cosa ti crea così tanti problemi?”
“È ovvio che mi crea problemi. Il pensiero di dover obbedire a te è… è… semplicemente odioso!”
“Se ti consola, l’idea di doverti dare ordini non mi fa riposare tranquillo” ammise l’elfo dei boschi, sottovoce. “Ho paura che mi pugnalerai appena chiudo gli occhi.”
“Splendido.” Daren si fregò le mani. “Mi fa piacere che tu abbia ancora un po’ di sacro timore. Ma non preoccuparti, non ho intenzione di sfilacciare la corda del tuo arco” promise, un modo di dire che per gli elfi equivaleva a metterti i bastoni fra le ruote. “Ho capito che ora sarai tu a decidere i turni e le zone da pattugliare… va bene. Sono tuo amico. Il mio compito è supportarti, non crearti problemi.”
Johel si girò a guardarlo come se credesse di avere davanti un doppelganger, e lentamente avvicinò la mano alla spada.
“Non fare il cretino! Sono io, e non sono sotto controllo mentale!”
“Provalo” intimò Johel sfoderando la sua sciabola elfica e facendo un salto indietro. “Prova che sei davvero chi dici di essere!”
“Testa di legno!” Daren lo fulminò con lo sguardo. “Questa pantomima sta durando anche troppo.”
“Non sto scherzando” ribatté Johel, e in effetti suonava mortalmente serio. “Dimostrami che sei tu, oppure…”
“L’amicizia non genera debiti!” Daren cedette, esasperato, e pronunciò la frase che gli avevano attribuito durante il rituale in cui l’avevano nominato ruathar. Quelle poche parole erano intrise di potere sacro, e lo identificavano immediatamente come Amico degli Elfi di fronte a qualunque elfo di Superficie.
Johel abbassò immediatamente l’arma e il suo volto preoccupato si distese, solo per assumere poco dopo un’espressione sorpresa.
“Ma tu mi hai sempre creato problemi.”
“Solo problemi che potevi risolvere, che ti avrebbero fatto crescere” puntualizzò il drow. “Minare la tua autorità adesso sarebbe un errore, perché non ne hai alcuna. Posso permettermi di essere ribelle con Tazandil, ma non ho mai guidato una ribellione contro di lui, ti pare? Nessuno mette in dubbio che lui sia il capo, tuo padre può sopportare che io gli disobbedisca e può perfino cambiare i suoi piani seguendo i miei suggerimenti, questo non toglie nulla alla sua autorevolezza.”
“E quindi… con me sarai rispettoso e non farai lo stronzo bastian contrario?” Riassunse Johel.
“Già. Penso che possa esserti utile per non sentirti ancora più terrorizzato di quanto già sicuramente sei…” il drow si strinse nelle spalle.
“Riesci a essere odioso anche quando ti comporti da amico. Ho smesso di chiedermi perché lo fai, ma mi sto ancora domandando come ci riesci.”
“Basta mezz’ora di esercizio mentale ogni giorno” rivelò Daren, con l’aria di condividere un grande segreto. “Scrivi una decina di frasi di varia natura, e poi esercitati a rigirarle nel modo più offensivo e ambiguo possibile.”
“Oh? Ad esempio?” Johel non voleva approfondire il discorso, ma cominciava a provare un orripilato interesse, come quando vedi una scena disgustosa e non riesci a smettere di guardare.
“Ad esempio… potrei dire Spargerò dei fiori sulla sua tomba, oppure potrei dire Omaggerò la sua carogna buttandoci sopra degli organi sessuali recisi e putrescenti.”
“Che schifo” Johel distolse lo sguardo, pentendosi di aver chiesto.
“Mi dispiace, ma i fiori sono que…”
“Va bene, basta!” L’elfo agitò una mano come per allontanare quell’immagine mentale. “La prossima volta che ti faccio una domanda, ignorami.”
Daren sorrise come un djinni a cui avessero appena espresso un desiderio formalmente scorretto.
“Non sarà un problema. Ma, parlando di turni, quando potrò tornare a Myth Dyraalis?”
“Ci sei appena stato!”
“Una capatina per togliermi la merda di dosso, non ci sono rimasto nemmeno mezza giornata.”
Johel lo guardò con sospetto. “Tempo fa mi hai detto che stai cercando di abituarti alla città perché pensi che il nostro futuro sia lì. Ora io però ho bisogno di te sul campo, e lo sai. Quali sono quindi le tue vere ragioni? Perché vuoi andare in città?”
Daren non rispose, ma sospirò amareggiato. Si aspettava quella replica. La verità era che, in tutti quei giorni, aveva cominciato a sentire la mancanza di… non proprio di una vita domestica (era ancora traumatizzato dalla disavventura come cameriere), ma di Amyl sì. E anche di Jaylah, e di alcune singole persone che aveva imparato ad apprezzare. Se ci pensava con attenzione, se si concentrava sulle singole persone una alla volta, non brillava dalla voglia di rivederle… Raerlan, Pilindiel, Nelaeryn, Navar, lady Aphedriel, perfino lord Fisdril, e quel simpatico gnomo cuoco con la passione per il caffè, erano le persone meno fastidiose in città. Non significava che Daren morisse dalla voglia di passare più di dieci minuti con loro. Eppure, l’idea di stare in mezzo a loro gli riempiva la mente di sentimenti agrodolci e nostalgia.
Che cosa diamine mi sta succedendo? Si domandò, scuotendo la testa.
“Daren?” Lo richiamò l’amico.
“Eh?”
“Ti ho appena fatto una domanda.”
“Mi hai appena detto di ignorare le tue domande. Non più di un minuto fa!” Protestò il drow.
“Ma…”
Ma niente. Credi davvero che guadagnerai il rispetto degli altri ranger con le tue continue contraddizioni e con questo comportamento indeciso? Cresci un po’, che diamine!”
Daren si alzò in piedi sul ramo e ricominciò a scalare l’albero, per guadagnare una posizione d’osservazione migliore. Improvvisamente era di cattivo umore, e non capiva perché.


Penultimo giorno di Marphenoth, foresta di Shilmista

Tre frecce scoccate quasi in contemporanea, ma dirette su bersagli diversi: non era una cosa difficile per Pilindiel, la migliore arciera di Sarenestar. Tre goblin caddero in un istante, due con la freccia piantata nel collo e il terzo con un occhio trafitto, perché il suo collo era davvero troppo tozzo per essere un buon bersaglio.
“Soltanto goblin” sussurrò Tazandil con disgusto, cercando nuove frecce dalla sua faretra. Non ne trovò alcuna. Scoccava più rapidamente, l’anziano ranger, ma con meno precisione.
“Dovremmo continuare a combattere a distanza” suggerì Pilindiel, poco più che un sussurro. “Chissà quali odiose trappole…”
“Sono solo goblin!” La zittì il suo capo, sfoderando la spada.
Si calò dall’albero, silenzioso come la morte, e insieme ad altri due ranger accerchiò i mostriciattoli da dietro, mentre si affannavano a mettere in piedi una barricata.
Quelle patetiche creature erano un nemico ricorrente, per gli elfi di Superficie. Nel corso dei secoli, innumerevoli goblinoidi erano caduti sotto le spade degli elfi, non solo a Shilmista ma in tutto il Faerûn. Erano comuni un po’ ovunque… ma non a Sarenestar. Ce n’erano pochi, tenuti a bada da mostri più pericolosi di loro. Tazandil quindi non era esperto di tattiche di combattimento goblin, altrimenti avrebbe saputo che non ne avevano.
Di solito erano creature codarde, crudeli ma deboli, pronte a scappare non appena la loro preda si fosse un minimo ribellata. Non era da goblin, costruire barricate per difendere una posizione.
Qualcuno doveva avergli ordinato di farlo. Con la foresta di Shilmista già mezza invasa, era chiaro che le forze degli orchi e dei goblinoidi non avevano intenzione di tirarsi indietro, anche se la loro avanzata era stata fermata e il loro esercito aveva perso il suo leader.
Gli elfi non sapevano chi fosse ora il nuovo leader degli invasori, anzi, forse non lo sapevano neanche i goblin. Forse adesso i nemici erano spaccati in diverse fazioni in lotta per il comando, ma questo non cambiava le cose: gli elfi di Shilmista volevano riprendersi la zona settentrionale della loro foresta, e se la sarebbero ripresa, con l’acciaio e con il sangue.
La foresta di Shilmista si sviluppava per più di centocinquanta miglia da nord a sud, una stretta striscia di alberi fra le montagne Fiocco di Neve e le pianure dell’Amn. Riprendersela tutta non sarebbe stato un lavoro breve, e tutti si aspettavano che in primavera, se non prima, i misteriosi nemici umani che tramavano nell’ombra avrebbero rimpolpato le fila degli orchi e dei goblin, alleandosi con il nuovo capo o imponendone uno di loro comodo. Per questo era di vitale importanza recuperare più terreno possibile e consolidare delle nuove postazioni difensive.
Gli elfi di Sarenestar si erano ambientati subito. Niente come la caccia ai goblin poteva cementare un’alleanza fra elfi. Il contingente di Tazandil era stato diviso in gruppi più piccoli, perché non servivano tanti ranger per distruggere un accampamento goblin. Inoltre era vitale non far accorgere i nemici dell’avanzata delle truppe elfiche.
Insieme a ogni piccola squadra di ranger di Sarenestar c’erano almeno uno o due elfi di Shilmista, perché potessero guidare gli alleati in quel territorio sconosciuto.
Tazandil non conosceva Shilmista e non conosceva i goblin in generale. Nessuno conosceva l’attuale assetto dell’esercito, nel particolare.
Muoversi alla cieca non è mai una buona idea, nemmeno se sono solo goblin.
Nell’accampamento era stata scavata una trincea. Spaventati dalla pioggia di frecce, quei piccoli mostri si erano rifugiati laggiù, coprendosi alla meglio con scudi di legno e di metallo. La trincea era completamente coperta e ora assomigliava più a un camminamento, un sentiero artificiale poggiato sul terreno sconnesso della foresta. La protezione improvvisata li riparava dalle frecce, ma impediva anche a loro di contrattaccare.
In quella mossa Tazandil vide solo codardia, e non una manovra per costringere gli elfi a scendere in corpo a corpo. Eppure, lui stesso era lì.
Tre elfi dei boschi stavano accerchiando il campo goblin con mosse furtive e prudenti, ma non avevano proprio calcolato che potesse essere una trappola.
La trincea non era senza sbocchi, come appariva al primo sguardo: all’interno erano stati scavati dei cunicoli più piccoli, segreti, che sbucavano a qualche decina di passi dal campo. In questo modo, mentre credevano di accerchiare i goblin, gli elfi vennero accerchiati a loro volta.
Due dozzine di nemici assetati di sangue si lanciarono sui ranger, senza preavviso. In pochi mesi quei laidi invasori avevano imparato a muoversi nella foresta quasi senza fare rumore, ma le orecchie fini degli elfi sanno cogliere anche il minimo fruscio. Nonostante la valida tattica, Tazandil e i suoi si accorsero in tempo di quell’agguato alle spalle e riuscirono a prepararsi e a mettersi in posizione difensiva prima di essere assaliti. Respinsero la prima ondata, senza riportare troppe ferite. I goblin li avevano quasi colti di sorpresa e questo gli aveva dato un grande vantaggio, ma di per sé quei piccoletti non erano certo una sfida preoccupante per i formidabili guerrieri. Presto i goblin cominciarono a cadere sotto il filo delle spade elfiche, e alcune frecce di supporto piovvero dall’alto, per mano di Pilindiel e Nelaeryn.
Quello che tutti stavano mancando di considerare, era che doveva per forza esserci una mente dietro quella strategia. Qualcuno doveva aver dato ordini ai piccoli soldati.
Quel misterioso qualcuno si rivelò alla vista proprio mentre Tazandil veniva assalito da quattro goblin in contemporanea; quello che sembrava un sasso coperto di muschio, e fino a un momento prima perfino gli elfi avrebbero giurato che lo fosse, si alzò di colpo in piedi rivelando la sagoma di un bugbear abilmente mimetizzato con il paesaggio. Il bugbear non era armato, ma le sue enormi mani erano dotate di artigli, e i suoi riflessi erano rapidi come quelli di un gatto. Era stranamente intelligente e svelto per uno della sua razza, forse era perfino il nuovo capo dell’esercito goblinoide, o uno dei capi… ma Tazandil non ebbe il tempo di chiederselo, perché una mano artigliata lo afferrò al collo da dietro, strappandolo alla battaglia. Il vecchio elfo si ritrovò sbilanciato all’indietro in un istante, poi sollevato in aria, con i piedi che scalciavano al vuoto.
Pilidiel cercò subito una freccia da incoccare, ma la sua faretra ormai era vuota. Nelaeryn ne aveva ancora, ma si era già lanciato giù dall’albero sfoderando le armi, fuori dalla portata dell’elfa.
Tazandil non era ancora un elfo perduto; cambiò subito presa sulla spada, girandola in modo che la punta fosse diretta alle sue spalle, e cercò di colpire alla cieca il bugbear. Era grosso, perfino per la sua specie, non avrebbe dovuto faticare per colpirlo… e lo tagliò, infatti, conficcando la spada da qualche parte nel ventre o in una gamba, impossibile capirlo. La bestia urlò, ma non lasciò la presa, anzi, strinse ancora di più. Tazandil scalciò senza farlo apposta, era una reazione istintiva per cercare di respirare.
Sarebbe un modo molto stupido di morire! pensò, estraendo la spada dal corpo del nemico e cercando di colpire ancora. Avrebbe lottato fino a quando le stelle che vedeva davanti agli occhi non si fossero spente del tutto. Si rifiutava di morire contro un bugbear. I suoi ranger sarebbero intervenuti. Doveva solo resistere fino a quando… doveva solo…
Il bugbear lo lasciò andare di colpo, con uno strattone laterale che mandò Tazandil a cadere a tre passi di distanza sul terreno sassoso. L’elfo non cercò di resistere alla caduta, anzi, si appallottolò e rotolò lasciando che l’energia cinetica si sfogasse. La mossa lo allontanò ancora di più dal bugbear, e quando finalmente l’elfo riuscì a fermarsi e a rialzare la testa, scoprì che non era stato uno dei suoi ranger a colpire il nemico alle spalle.
Una mostruosa creatura spettrale aveva afferrato il guerriero goblinoide e l’aveva sollevato (anche se il bugbear era tutt’altro che piccolo e leggero!); quella cosa trasparente era grossa quanto un orso crudele, e ne aveva più o meno la forma. L’orso non era del tutto incorporeo, perché era riuscito ad afferrare il nemico fra le zampe anteriori e a sollevarlo alzandosi sulle zampe posteriori, eppure Tazandil aveva la sensazione che non fosse neppure completamente fisico.
Ho le allucinazioni, pensò, tastandosi la gola. La mancanza d’aria, forse…
Per un attimo sembrò che fosse in atto una sfida di forza bruta fra l’orso e il bugbear, poi il più piccolo dei due si spezzò come un guscio secco fra i bracci di uno schiaccianoci. Il rumore delle ossa che si spezzavano riverberò fra gli alberi, viscido e raccapricciante, e poi fu il silenzio. I goblin erano quasi tutti morti per mano dei ranger, e quelli che non erano morti se l’erano saggiamente data a gambe.
La bestia spettrale lasciò andare il suo macabro fardello e si avvicinò a Tazandil, con molta flemma. Nonostante avesse appena fatto a pezzi una creatura che era robusta il doppio di un elfo, il vecchio ranger sentì con certezza che quell’animale… quello spirito… non voleva fargli del male. Vedendolo da vicino era chiaramente un orso, anche se i suoi contorni sembravano appena abbozzati a causa della trasparenza. L’elfo era abbastanza sicuro che allo spirito mancasse un occhio.
L’orso rugliò fra i denti, un suono basso e borbottante, come se stesse mugugnando un rimprovero all’indirizzo del ranger, infine scomparve in una nebbia spettrale.
Dopo qualche secondo di silenzio, Tazandil si pulì i vestiti dal terriccio e rinfoderò la spada.
“Grazie, Lacis” bofonchiò a bassa voce. E grazie, Jaylah. Non dubiterò mai più delle creazioni di una strega.

           

   
 
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